Tratto da: Carlo Zanghellini, "Le mie Guerre", a cura di Attilio Pedenzini e Claudia Zangellini, ed. Croxarie, Strigno 2002.


LAVORI DI FORTIFICAZIONE PER L'ESERCITO TEDESCO
Ai primi di aprile del 1944 si presentò a casa mia, a Strigno, un colonnello dell'esercito germanico assieme a un altro ufficiale. Il colonnello, una persona sulla sessantina e molto gentile, era, come poi seppi, un austriaco di Salisburgo. Mi disse che era mandato dalla Bauleitung di Feltre, comando fortificazioni, per invitarmi ad assumere, come impresa, un gruppo di lavori di difesa e fortificazione nella bassa Valsugana, fra Tezze e Ospedaletto.
Con la disfatta dell'esercito tedesco e quello italiano nell'Africa settentrionale e il susseguente sbarco degli alleati in Sicilia nonché la resa dell'esercito italiano seguita dal tradimento del Re e del generalissimo Badoglio, le truppe germaniche, pressate dalle truppe alleate, avevano iniziato un lento ripiegamento verso il nord, opponendo però un'accanita ed efficace resistenza all'avanzata delle forze alleate, che pagavano con molti sacrifici di uomini, come a Montecassino, il lento procedere verso le Alpi.
Era però ormai evidente e pacifico che il crollo dell'esercito germanico era solo questione di tempo.
I tedeschi, consci di ciò, si affrettavano a fortificare i valichi e le vallate delle Prealpi per opporre qui l'ultima resistenza agli alleati e permettere così alle loro truppe di ritirarsi in buon ordine e senza perdite eccessive.Così stavano le cose il giorno in cui il colonnello della Bauleitung di Feltre venne a casa mia a propormi di lavorare alle fortificazioni della bassa Valsugana.
Naturalmente, preso così alla sprovvista, rimasi perplesso, non sapendo come fosse meglio comportarsi. Era certo ormai che i tedeschi avrebbero perso la guerra. Lavorando per loro avrei poi subìto le rappresaglie degli alleati e del ricostituito esercito italiano. Ma più ancora mi preoccupavano le sicure rappresaglie dei partigiani, le cui formazioni si stavano consolidando sui monti feltrini e tesini. Ciò poteva facilmente comportare il rischio della pelle sia per me come per la mia famiglia. Io non potevo sapere allora l'entità* del lavoro da eseguire e c'era poi il pericolo che i tedeschi, finite le fortificazioni in Valsugana, mi portassero in Francia a lavorare al Vallo Atlantico ovvero verso la Russia.
Tentai perciò di guadagnare tempo spiegando al colonnello che da qualche tempo l'impresa era ferma e che l'attrezzatura era ben poca in confronto agli imponenti lavori che ero chiamato a fare; che avevo sottomano pochi operai, che temevo per il finanziamento e che infine non ero sicuro di essere all'altezza del compito, trattandosi di lavori per me nuovi, per i quali dubitavo di avere una adeguata competenza.
Il colonnello, sorridente e gentile, parlando perfettamente in italiano mi spiegò che per l'attrezzatura eventualmente mancante avrebbe pensato la loro Bauleitung; gli operai mi sarebbero stati inviati a mezzo dei loro uffici obbligatori al lavoro, reclutati con cartolina precetto, e che non mi preoccupassi per il finanziamento in quanto il comando avrebbe pagato settimanalmente.

In quanto alla mia capacità* erano sicuri che fossi all'altezza, essendo loro a conoscenza di come avessi già* eseguito simili lavori per il Corpo d'armata italiano di Bolzano e per l'ufficio fortificazioni di Verona.



Infine aggiunse: "Egregio signor Zanghellini, lei ha lavorato in passato per l'esercito italiano, perché ora non dovrebbe lavorare per noi che siamo alleati? Ripasserò fra qualche giorno! Nel frattempo ci ripensi e vedrà* che si deciderà* a venire con noi".
Quelle ultime parole, dette pur cortesemente, non contenevano forse un velato ammonimento? Certo era che se non fossi andato con le buone mi avrebbero costretto ad andarci con la forza. Meglio allora far vedere che ci andavo di buona volontà*, anche perché ripensavo al fatto che avevo tre figli atti alle armi che presto o tardi sarebbero stati arruolati dai tedeschi nel loro esercito o nella polizia trentina o inviati al lavoro obbligatorio in Germania, che voleva dire morte quasi certa. Lavorando invece nelle opere di fortificazione avrei potuto tenerli presso di me salvandoli dalla guerra, come difatti avvenne.
Sistemato il cantiere di Grigno, il 25 aprile 1944 iniziai con un centinaio di uomini i lavori di fortificazione per l'esercito germanico. Secondo l'intento delle forze armate si trattava di disporre un sistema difensivo e offensivo nelle Prealpi. La mia impresa dipendeva dalla Bauleitung di Feltre,
che mi assegnò l'esecuzione di un importante gruppo di opere tra Tezze e Ospedaletto.
Ben presto gli operai alle mie dipendenze, inviatimi attraverso gli uffici di reclutamento al lavoro germanici da tutti i paesi della Valsugana, Alto Fersina, Valle dell'Adige, furono 1.200. Tra gli operai vi erano anche parecchi studenti rifugiatisi nel mio cantiere per sfuggire alla deportazione in Germania.
Come avevo previsto potei tenere con me, fino a guerra finita, i miei tre figli, i miei nipoti, gli studenti, gli amici.
Dal comando germanico ero molto ben visto. Salvai parecchi dalla fucilazione, molti dalla deportazione in Germania, molti dal servizio militare. Ma ben pochi di questi beneficiati mi furono riconoscenti.
Gli ordini del comando erano molto severi. Avrei dovuto denunciare ogni più lieve mancanza o astensione dal lavoro, e le mancanze erano molte perché gli operai, che ormai prevedevano la sconfitta della Germania e non volevano più lavorare, mano a mano che si andava verso la fine del 1944 lavoravano sempre meno. A un certo punto un colonnello di stato maggiore, durante un'ispezione, mi accusò di sabotaggio e puntandomi la pistola al petto mi minacciò di portarmi alla fucilazione al forte di Primolano.
Contuttociò, a onta delle minacce del comando, che erano giustificate, non feci, in tutto il tempo durante il quale lavorai per il comando militare e poi per la Todt, un solo rapporto contro gli operai.
I lavori eseguiti furono molti e di diverse specie: bunker, gallerie in roccia nei fianchi delle montagne per appostamenti di artiglierie e di mitragliatrici pesanti, trinceroni muniti di difese, gallerie e rifugi per la truppa, teorie di denti di lupo in cemento armato attraverso la valle a difesa dei carri armati, eccetera.
I disegni per gli appostamenti delle singole opere mi venivano consegnati dal comando superiore e, sotto giuramento, non dovevo mostrarli a nessuno. In caso di cattura da parte dei partigiani o di qualche agente nemico dovevo procurare di distruggerli, magari mangiandoli.
Quando iniziai il lavoro, nell'aprile 1944, ero alle dipendenze dirette del Genio militare germanico e vi rimasi fino al primo di settembre. Dopo questa data passai alle dipendenze dell'organizzazione Todt, sotto la direzione della ditta Ing. Schmidt e C. di Colonia, con sede a Cismon del Grappa.
Durante il primo periodo i lavori proseguirono meglio perché gli operai lavoravano di più, non ancora convinti del fatto che i tedeschi avrebbero perso la guerra. Vi era più severità* da parte del comando e non erano ancora in attività* le bande partigiane che in seguito intimorirono operai e imprese.
Dal settembre, la mia come altre imprese italiane che lavoravano oltre Primolano e sulle montagne circostanti vennero passate alle dipendenze di una grossa impresa coordinatrice tedesca che a sua volta dipendeva dalla Todt. Questa diede ai lavori un ritmo più veloce, assumendo più operai e sorvegliando con più rigore le imprese, e ciò per due importanti ragioni: il continuo avanzare degli alleati verso il nord e dunque l'urgenza di finire a tempo i lavori di difesa nelle Alpi, e la minaccia sempre più evidente delle formazioni partigiane che andavano consolidandosi sui monti feltrini e tesini.
Dopo lo sbarco degli alleati in Sicilia e lo scioglimento dell'esercito italiano andarono costituendosi in Italia numerose formazioni di bande partigiane che, incoraggiate e sovvenzionate da paracadutisti alleati, operavano dietro le linee dell'esercito tedesco. Da noi, nel Trentino, incominciarono a farsi sentire nella tarda primavera e agli inizi dell'estate 1944, quando i tedeschi, col loro arretramento, giunsero sulla linea Littoria, presso Firenze.
à? doveroso ricordare che in queste bande, costituitesi in un secondo tempo in battaglioni più ordinati e disciplinati, combatterono uomini convinti in buona fede di servire la causa nazionale, che scontarono con sofferenza e con la morte il disonore del nostro esercito. Altrettanto non si può nascondere che in molte di queste formazioni partigiane si erano intrufolati numerosi elementi sovversivi, equivoci, insofferenti, svuotati di ogni fede e speranza, attirati dal miraggio di depredare e di poter commettere rapine, grassazioni e anche omicidi per odio personale.
La formazione maggiore sulle Alpi, verso di noi, la Divisione Gramsci, operava sui monti di Feltre e Belluno. Sui monti del Tesino c'erano circa venti ragazzi che per non presentarsi al lavoro sotto la mia impresa a Grigno si erano dati alla montagna e rapinavano qua e là* nelle malghe per loro conto. Non si poteva certo chiamarli partigiani.
Il 25 agosto 1944 arrivò alla centrale elettrica di Pieve Tesino, in Val Malene, una banda di partigiani composta da una trentina di uomini. Proveniva dalle montagne feltrine, dalla Divisione Gramsci, e si trasferiva verso il gruppo di Cima d'Asta, ai margini del Trentino orientale. Era guidata da "Fumo", un bel giovane atletico che portava il cappello da sottotenente degli alpini ed era armato di mitra.
Non tutti gli altri erano armati e nell'insieme formavano una banda piuttosto disordinata. I più erano ex soldati tornati a casa dopo l'8 settembre, senza lavoro e restii a lavorare per l'organizzazione tedesca Todt.
Renata, che comandava i partigiani tesini, presentò i suoi uomini al nuovo comandante Fumo, dando spiegazioni sulla situazione generale che questi ascoltò con attenzione, facendo di tanto in tanto qualche domanda.
Poi si avviarono verso il lago di Costabrunella. Qui fissarono il comando nella casa del guardiano che sorge in prossimità* della diga.
Il capo ordinò l'adunata, poi, rivolgendosi ai suoi uomini, disse: "La nostra banda si chiamerà* da oggi Compagnia Gherlenda, con comando a Costabrunella".
Poi chiamò Silla, il commissario politico, un giovane sui vent'anni, magrolino, dal viso vivace e intelligente. Era un ex seminarista di Rovigo cui i tedeschi avevano ucciso la sorella: "Domani - gli disse Fumo – dovremo occuparci dei rifornimenti e delle informazioni".
Con la formazione della Compagnia Gherlenda altri elementi del Tesino e del bellunese vi si aggiunsero e il numero dei componenti arrivò ben presto a circa sessanta, più le due partigiane Ora e Veglia: sorelle del partigiano Portafortuna la prima e di Renata la seconda.
Da allora incominciarono le ruberie organizzate nei nostri paesi, le aggressioni, i ricatti, le rapine alle banche, gli omicidi e le pressioni, le minacce e i ricatti verso le imprese che lavoravano per i tedeschi.
I paesi, calata la sera, erano deserti. La popolazione viveva nel terrore aspettando, giorno e notte, da un momento all'altro, la visita dei partigiani che sotto la minaccia del mitra esigevano denaro, bestiame, viveri, indumenti, benzina.
I carabinieri era come non esistessero. I tedeschi reagivano solo quando i partigiani uccidevano qualche soldato ovvero commettevano qualche atto di sabotaggio a loro danno diretto.
Le imprese vivevano nell'ansia, in una situazione estremamente pericolosa: da una parte i tedeschi, che resi diffidenti e indispettiti per i continui sabotaggi sorvegliavano e minacciavano di fucilazione gli impresari, dall'altra i partigiani che minacciavano di serie rappresaglie le imprese e le ricattavano perché lavoravano per il tedesco esigendo, oltre al denaro, la fornitura, per i loro attentati, di esplosivi che le imprese avevano in dotazione sui cantieri di lavoro.
Prestarsi al doppio gioco, se scoperti dai tedeschi, voleva dire la fucilazione. Rifiutarsi ai partigiani poteva significare finire rapiti, portati su qualche montagna e uccisi.
Anch'io vissi per mesi in questa situazione penosa non solo per me ma anche per la mia famiglia.
La prima minaccia mi giunse dai partigiani di Lamon nel mese di agosto. Mi avvertirono che avevano intenzione di rapirmi per impiccarmi sulla piazza di Lamon. Ancora oggi non so il perché.

Tratto da: Carlo Zanghellini, "Le mie Guerre", a cura di Attilio Pedenzini e Claudia Zangellini, ed. Croxarie, Strigno 2002.