Due piccole integrazioni a questo bel racconto.![]()
La piccola oasi sperduta nel deserto.
Conquistata anzi riconquistata la Libia, gli italiani si resero conto, all’indomani della Grande Guerra, che dovevano stroncare la guerriglia musulmana se volevano davvero essere padroni della colonia d’oltre mare.
In effetti la riconquista aveva ancora una volta posto sotto la sovranità italiana il litorale, mentre vaste zone restavano difficilmente controllabili poiché i patrioti libici, espertissimi nelle azioni di sorpresa, sfuggivano ad ogni legge e tenevano viva la fiaccola della rivolta.
Uno dei focolai della rivolta era l’oasi di Giarabub, centro tradizionale del sogno senussita e del Mahdi.
Giarabub rimase un centro di notevole importanza anche quando l’ideale politico del senusso parve tramontato perché restò un centro di contrabbando di armi.
Posto sull’incerta linea di confine che divideva il Sahara libico da quello egiziano, Giarabub costituiva un punto di raccordo delle carovaniere ed era facile darvi convegno ai nomadi.
Per questo nel 1925 italiani e inglesi di accordarono per stabilire la linea di frontiera in modo che ciascuno potesse sorvegliare la propria zona.
Il confine fu tracciato(6 dicembre 1925) semplicemente con un righello sulla carta geografica, che da Bardia scendeva verso sud ed assegnava all’Italia anche Giarabub Una colonna di 1645 ascari (2 battaglioni di truppe eritree), 731 soldati italiani e 91 ufficiali partì quel giorno (30 gennaio 1926) da Bardia con 36 camionette armate di mitragliatrici, 36 autoblindo. 34 camion e 115 muli e cammelli agli ordini del colonnello Ronchetti.
L’occupazione di Giarabub fu pacifica ( 7 febbraio 1926) avendo persuaso il capo della comunità senussita Husein ben Alì.
L’occupazione non meritò più di qualche riga sui giornali dell’epoca, poiché in effetti l’oasi di Giarabub non aveva alcuna importanza, l’oasi non era che un gigantesco anfratto nel terreno arido del Sahara, una depressione lunga circa 26 chilometri e larga quasi sei, chiusa da una scarpata di terreno morenico, cosparso di acquitrini e paludi salmastre
Il tricolore è dato alle fiamme.
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Verso le 9,30 del mattino, mentre il sole era già caldo e la sabbia scagliata con forza dalle folate del ghibli, schiaffeggiava rovente il volto degli uomini, la linea italiana di resistenza era ormai infranta in numerosi tratti e il nemico vi si era infiltrato, ma spesso gruppi di due o tre uomini continuarono a combattere isolatamente.
La situazione dei difensori era disperata e dopo aver esaurito le bombe non restò loro che il fucile e la baionetta.
Castagna racconterà in seguito: “Le perdite erano gravi da ambo le parti, ma mentre noi non potevamo colmare i vuoti, il nemico continuava a gettare nella mischia truppe fresche”.
Il colonnello Salvatore Castagna ( quinto da sinistra)
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Perfino quando il nemico irruppe all’interno del caposaldo numero uno, perno del dispositivo di difesa dell’oasi, gli ufficiali italiani riuscirono a raccogliere un pugno di nazionali e di libici rimasti illesi ed a gettarli contro gli invasori, questi atti di valore rallentarono l’inesorabile marcia dei neozelandesi, ma non permisero di evitare il peggio.
Le mitragliatrici italiane spararono finchè non esaurirono le munizioni.
Alle 11 del mattino la battaglia era terminata e fu in quel momento che anche il comandante del presidio venne catturato insieme con gli 800 superstiti affidati ai suoi ordini.
Anche castagna era rimasto ferito da una bomba negli ultimi istanti di quella furibonda lotta, a salvarlo da morte certa era stato un soldato che gli si era messo davanti facendogli da scudo.
Il racconto del colonnello termina così: “ I cannoni e le mitragliere da 20 ancora in efficienza non avevano più munizioni, non una bomba a mano era rimasta, il ghibli impediva di usare le armi automatiche, avrei perciò potuto trattare la resa che mi era stata offerta dopo la mia cattura ed ottenere l’onore delle armi, volli invece, dimostrare al nemico che malgrado la sua enorme superiorità doveva pagare a duro prezzo l’ostinato proponimento di sopraffarci.
Tutti i miei dipendenti, nessuno escluso, anche i due civili nazionali che stavano a Giarabub, si comportarono in modo degno di ammirazione.
La bandiera che da 10 mesi sventolava sulla torre della ridotta Marcucci, venne abbassata e bruciata al cospetto del nemico, che concentrò le sue ultime raffiche sui soldati che avevano l’incarico di compiere questo estremo gesto.
Da ogni petto uscì un grido Viva l’Italia.”
Così terminò la battaglia di Giarabub.



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