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Discussione: Latte di guerra a Roma nel 1918

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    Latte di guerra a Roma nel 1918

    La catastrofe militare di Caporetto e la rivoluzione d’ ottobre in Russia fecero capire anche alle incapaci ed insensibili classi dirigenti del Regno d’ Italia che, in mancanza di un deciso cambio di passo nella conduzione del conflitto, la possibilità di estese e incontrollabili sommosse sia tra la truppa alle armi che fra la popolazione civile si sarebbe fatta sempre più concreta. Oltralpe nell’ ultimo anno di guerra, almeno un terzo delle GG.UU. dell’ esercito francese inviate al fronte si erano rese responsabili di atti di insubordinazione, rifiuti d’ obbedienza e aperto ammutinamento. Tra le truppe di Parigi soviet e assemblee di soldati spuntavano dovunque, chiedendo a gran voce la pace a qualsiasi costo sull’ esempio dei Sovieti russi. Anche da noi le draconiane decimazioni della truppa non bastavano più a mantenere l’ ordine, esasperando vieppiù l’ animo dei soldati esasperati, spingendoli invece al “tanto peggio tanto meglio”. Furono così presi provvedimenti d’ urgenza volti a migliorare la vita dei combattenti abbrutiti da anni di trincea (maggior cameratismo tra ufficiali inferiori e truppa, migliore alimentazione e assistenza sanitaria, posta regolare, un numero minimo di licenze all’ anno, l’ istituzione di una polizza assicurativa per tutti i soldati in modo da non lasciare nell’ indigenza le famiglie in caso di decesso, l’ istituzione di spacci, luoghi di ritrovo, case del soldato, spettacoli itineranti, giornali di trincea, corsi di istituzione politica e di alfabetizzazione, una propaganda più efficace e comprensibile, dai toni meno ottusamente trionfalistici, nonché ampie ma vaghe promesse di “terra ai contadini” e “palingenesi sociale” al termine del conflitto, rimaste regolarmente irrealizzate). I provvedimenti volti alla popolazione civile, che aveva ormai dimenticato i primi ingenui entusiasmi interventisti del 1915 ed era oppressa da sempre crescenti restrizioni, mirarono invece essenzialmente a mitigare la grave penuria alimentare dovuta sia alle requisizioni indiscriminate, sia alla speculazione generalizzata attuata dai commercianti all’ ingrosso e al dettaglio - i cosidetti profittatori di guerra o “pescicani” - che imboscavano apertamente generi di ogni tipo per rivenderli a prezzo enormemente maggiorato, spesso adulterati o immangiabili. Se consideriamo che la maggior parte dei civili (donne, vecchi, adolescenti) nel 1918 doveva sottostare a una qualche forma di lavoro militarizzato nelle industrie belliche, con turni di lavoro spossanti in ambienti malsani e pericolosi, con paghe pressochè irrisorie, balza subito agli occhi che – tranne una fortunata minoranza di abbienti danarosi – la popolazione italiana era gravemente sottonutrita, mancando specialmente di proteine animali. Studi scientifici recenti hanno anche evidenziato come la diffusione della pandemia di febbre spagnola nel 1918/19 fu grandemente agevolata dalla denutrizione cronica che annullò praticamente le naturali difese immunitarie dell’ organismo. Era una situazione mai vista prima, generalizzatasi negli ultimi anni del conflitto tra i civili di tutte le nazioni belligeranti. Da testimonianze dell’ epoca, si ha che la situazione a Roma era particolarmente grave tra le classi popolari: oltre a pochi grammi di pane nero razionato, grigiastro, umido, mal cotto, contraffatto e mescolato con gesso, biada, erbe, cascami di riso, ghiande o carrube macinate, gli abitanti della Capitale potevano contare solo su un pugno di verdure provenienti dall’ agro romano o coltivate in stentati orticelli urbani. Salvo sporadiche distribuzioni di baccalà, sardine e altro pesce conservato, le occasioni nelle quali si poteva mettere in tavola carne (seppur di scarto e di bassa qualità, come interiora, coda, zoccoli, ecc.) potevano contarsi sulle dita di una mano. A soffrire maggiormente della situazione erano le categorie più deboli e maggiormente bisognose di nutrimento, dato che nella generale penuria alimenti particolari erano difficilmente reperibili. Le latterie private esistenti in città praticavano sul latte rialzi di prezzo vertiginosi, che lo rendevano pressochè inaccessibile ai comuni mortali. Oltretutto commercianti senza scrupoli lo annacquavano, “tagliandolo” con ogni specie di artefatto capace di alterarne la composizione. Si vendenvano anche partite di latte ormai avariato o contaminato da germi e batteri. Ne derivavano ciclicamente delle vere e proprie morie tra i consumatori finali del prodotto: lattanti, anziani e malati. Per ovviare alla situazione, oltre a un giro di vite nella repressione degli speculatori, venne decisa la commercializzazione da parte del Comune di Roma del cosidetto “latte di guerra”. Dall’ inizio del ventesimo secolo il servizio comunale per la vendita e distribuzione del latte nella Capitale era stato appaltato a fornitori privati (che si approvvigionavano presso le mandrie di proprietà della nobiltà latifondista romana, contigua al potere politico), nonostante pessimi risultati economici e una certa approssimazione nel rispetto delle norme igieniche. A più riprese emersero scandali amministrativi e violazioni delle più elementari precauzioni nella manipolazione, conservazione, trasporto e vendita del prodotto stesso. Solo per dirne una, già nel 1912 un’ ispezione effettuata dal consigliere comunale Testa riscontrò che i bidoni di latte venivano abitualmente lasciati per ore in prossimità degli scarichi fognari a cielo aperto, con conseguenze immaginabili. Già dal 1916 dunque, scaduto il contratto di appalto ai privati, lo stabilimento fu amministrato direttamente dall’ Ufficio annona del Comune come servizio in economia venendo munito due anni dopo di nuove attrezzature che resero possibile elevare la lavorazione giornaliera dai cinquemila litri della gestione precedente a un totale oscillante tra venti e ventiquattromila. Tali quantitativi però bastavano solo a soddisfare circa ¼ della domanda di latte, che negli anni della Grande Guerra si aggirava a Roma attorno agli ottantamila litri al giorno. Così nel 1918 oltre al latte di produzione locale, ormai insufficiente a soddisfare le esigenze di approvvigionamento della piazza romana (anche per le gravi conseguenze negative della guerra su un patrimonio zootecnico pesantemente depauperato dalle requisizioni militari a discapito della popolazione civile), fu messo in vendita il cosidetto “latte di guerra”. Si trattava di latte condensato, acquistato dall’ Ufficio annona in Lombardia dalla Cooperativa Latteria Soresina, reintegrato per ¾ con acqua, refrigerato e messo in vendita sfuso in bidoni metallici trasportati da una sessantina di carrettini ambulanti, dislocati tra piazza Pepe, via Salaria, piazza dei Cerchi, Prati di Castello. Ciononostante, fin dai primi mesi la gestione comunale dello Stabilimento del latte riscosse la piena fiducia della popolazione romana, che trovò nel latte municipale un alimento scrupolosamente controllato e venduto ad un prezzo calmierato ben più onesto di quello applicato dalle latterie private. Il “latte di guerra” venne commercializzato fino all’ inizio degli anni ’20, quando si tornò ad utilizzare abitualmente quello fresco.
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    Le fotografie e i dati sono tratti dall’ articolo di U. Ferretti intitolato Lo stabilimento frigorifero del Comune di Roma per la raccolta, il trattamento e la distribuzione del latte, pubblicato su <<Rivista del Freddo>> nel 1918.
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