Il monte Corchia nelle Alpi Apuane ospita quella che è non solo una delle più profonde ma anche la più lunga delle grotte italiane. Celati sotto una imponente massa di 2 km cubi di roccia calcarea si snodano oltre 60 km di gallerie, pozzi, meandri e sale, tanto da trasformare la grotta da oltre 160 anni in una vera e propria palestra d’ ardimento per generazioni di speleologi italiani. Il vasto complesso carsico del Corchia a partire dalla sua scoperta nel 1840 contestualmente all’ apertura di una cava di marmo in Valle d’ Acereto a 1125 metri sulle pendici occidentali del monte, è stato ampiamente esplorato e studiato. Nel corso degli anni gli speleologi vi hanno scoperto a più riprese nuovi rami collaterali e nuovi ingressi, ma si ipotizza la presenza di almeno altri 60 km ancora inesplorati. Nel bel volume fotografico “L’ Antro del Corchia o Buca d’ Eolo” edito nel 2012 dalla rivista Nuove Direzioni a cura dello speleologo Franco Utili, sono presenti anche interessanti foto di elmetti militari italiani. Tali residuati bellici erano riutilizzati nel primo e nel secondo dopoguerra dai giovani speleologi, che supplivano con la passione e l’ ardimento alla mancanza delle tecniche e dei materiali moderni. A tal proposito come esempio riporto integralmente la descrizione dell’ equipaggiamento usato dalla spedizione organizzata nel 1934 dal Gruppo Speleologico Fiorentino del Club Alpino Italiano (GSF-CAI), dal Gruppo Universitari Fascisti (GUF) e dall’ Associazione Nazionale Alpini (ANA). Superando le difficoltà con sforzi sovrumani essi scesero nel Corchia giungendo alla profondità di meno 541 metri e raggiungendo il lago Sifone, un bacino sotterraneo di acqua limpidissima profondo otto metri e lungo circa trenta. I partecipanti all’ impresa ricevettero all’ epoca i più sentiti encomi e congratulazioni dalle autorità fasciste e furono gratificati con un contributo di 2000 lire da S.E. Manaresi.
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Essi indossavano elmetti della guerra ’15-’18, tute da meccanico, cordini alla vita con moschettoni di ferro per la sicura, corde di canapa in cui col “tappalani” venivano allargati i trefoli per inserirvi i gradini del diametro di 17 mm costituiti da manichi di scopa, larghi abbastanza per potervi appoggiare i due piedi, illuminazione con lampade a carburo trasportate a mano.
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FOTO
1 – Mod. 16 usato come casco da grotta da un socio del GSF. Si notino il supporto metallico saldato per la candela che funge da luce frontale e il sottogola sostituito da un pezzo di cordino. Esplorazione della Tana dell’ Uomo Selvatico (192.
2 – Mod. 16 indossato da uno speleologo del GSF durante la discesa con scala composta da cavi di canapa e gradini in legno. Esplorazione del primo pozzo della Buca Larga (1936).
3 – Da sx a dx: Tom Morgan e Beppe Occhialini del GSF, un cavatore di marmo della Ditta Pellerano, Arrigo Cigna e – in ginocchio – Giulio Cappa entrambi soci del Gruppo Grotte Milano. Cigna indossa un Mod. 33 bianco che reca sul frontale la sigla GGM in rosso. Misurazione della profondità del Pozzo Bertarelli (1955).

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