Tentativi di recupero, tra repressione e propaganda
Accattonaggio, mercato nero, furto e prostituzione erano gli unici mezzi di sostentamento dei besprizorni. L’accattonaggio era il primo – e più facile mezzo di sussistenza dei bambini abbandonati – ma c’erano numerose alternative. Poiché dopo aver abolito l’impresa privata lo stato sovietico si dimostrò incapace di garantire un sufficiente rifornimento di beni di consumo, la popolazione per sopravvivere dovette contare quasi esclusivamente sul mercato nero illegale, tutta una rete di piccoli commerci gestita dalla criminalità organizzata degli urka o ladri legali, tollerati di fatto dal regime. In questa situazione un gran numero di besprizorni vendevano in strada cibo, fiori ed ogni genere di chincaglieria. Anche organizzazioni statali come il monopolio del tabacco e l’associazione della stampa sovietica ricorrevano ai besprizorni come manodopera a basso costo per vendere in strada sigarette e giornali. Alcuni lavoravano come facchini nelle stazioni ferroviarie trasportando valigie o carichi pesanti, altri tenevano il posto alla gente nelle lunghe file per il pane, divenute una costante nella vita delle città. Sciami di giovanissimi accattoni e borsaioli affollavano stazioni ferroviarie, mercati, cinema e teatri. Piccoli ladri svaligiavano giornalmente le abitazioni private. Al fine settimana e durante le festività religiose i besprizorni si accampavano fuori dalle chiese e dai cimiteri, per chiedere l’elemosina ai fedeli. Durante l’inverno una onda incessante di giovani senzatetto cercava di sfuggire ai rigori del clima affollandosi nei locali pubblici. Le dispute territoriali fra gruppi rivali di besprizorni venivano risolte in furibonde risse a colpi di bastone o di coltello. Decine di migliaia di bambini, maschi e femmine, incapaci di elemosinare o di rubare finirono sul mercato del sesso. Molti vendevano il proprio corpo in cambio di cibo o di un letto dove passare la notte al caldo. Besprizorni riunitisi in bande di dieci o quindici individui tendevano agguati ai passanti derubandoli dei loro averi. Non solo vecchi, donne e bambini, ma persino uomini sani e robusti erano perennemente soggetti al rischio di venire derubati in strada e nella peggiore delle ipotesi, accoltellati o picchiati a morte. Le costanti attività illegali e la vita di strada portarono i besprizorni a contatto col sottobosco della criminalità adulta e i più capaci di loro ne impararono i metodi, andando a formare una nuova generazione di urka. Le dipendenza da alcool e tabacco era comune fra i besprizorni e quando nella prima metà degli anni venti il consumo di cocaina si diffuse nelle maggiori città la rete degli spacciatori risultò composta generalmente da minori al di sotto dei 12 anni, che di solito erano anche consumatori. Di fronte a quello che era ormai diventato un gravissimo problema sociale di ordine pubblico, i bolscevichi proclamarono al mondo la loro volontà di eliminare definitivamente la piaga dei bambini abbandonati salvandoli dalla strada e redimendo quella che consideravano «la prima generazione della rivoluzione» destinata secondo la propaganda ad ereditare le meravigliose conquiste della società comunista (1). Nutrire, vestire ed educare una significativa parte della gioventù del paese si dimostrò un programma sin troppo arduo. Le agenzie governative crearono una rete di orfanotrofi socialisti, destinati ad allevare le nuove generazioni. Inizialmente esaltato dal trionfo della rivoluzione, il regime bolscevico era determinato a rimpiazzare la famiglia borghese con asili socialisti e istituzioni amministrate dallo stato, al fine di comunistizzare sin dalla culla le nuove generazioni (negli anni venti la pedagogia sovietica era famigerata almeno quanto la psichiatria sovietica lo sarebbe stata negli anni settanta). IlNarkompros (Commissariato del Popolo all’Educazione) si assunse la responsabilità primaria di raccogliere i besprizorni in orfanotrofi, comuni di lavoro e centri di accoglienza che avrebbero dovuto fornire loro alloggio, educazione, avviamento al lavoro e indottrinamento politico, al fine di strappare il maggior numero di bambini alla strada. Ma al di la delle iniziative propagandistiche, risorse e strutture non furono mai disponibili in misura sufficiente. Di conseguenza il numero dei besprizorni redenti fu molto inferiore alle aspettative. Soprattutto a causa della vita randagia che erano costretti a condurre ai margini della società, essi erano naturalmente ostili all’ideologia comunista e nonostante le continue retate effettuate nelle strade dalla Milizia, non appena possibile fuggivano dagli orfanotrofi. Inoltre era la natura stessa del potere sovietico a creare sempre nuove leve di orfani e diseredati.
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Le carestie come arma di sterminio di massa
Sin dall’inizio la carestia di stato venne cinicamente usata dal potere sovietico come arma di sterminio di massa contro tutte le popolazioni contadine recalcitranti, ma specialmente contro l’Ucraina, da sempre considerata la più refrattaria e nazionalista delle repubbliche sovietiche (negli anni della guerra civile il potere a Kiev passò di mano almeno 13 volte) e dunque soggetta a ricorrenti purghe nel tentativo di russificarla a forza, alterandone la demografia mediante l’eliminazione fisica di gran parte dei suoi abitanti (2). Nel 1921/22, per ordine di Lenin appositi reparti armati requisirono con la forza ai contadini ben 550.000 tonnellate di grano e una quantità imprecisata di altri generi alimentari. Il risultato fu una tremenda carestia che costò oltre 5 milioni di morti e rischiò di portare al tracollo lo stato sovietico. In quell’occasione Lenin fu costretto dalle circostanze ad accettare per la prima ed ultima volta aiuti alimentari dai paesi capitalisti, ammettendo malvolentieri in territorio sovietico delegati di numerose agenzie umanitarie e ciò spiega perché la grande carestia del Volga fu la più conosciuta all’estero, nonché la sola documentata fotograficamente da cittadini stranieri (3). In seguito la collettivizzazione forzata delle terre decisa da Stalin nel 1929 ebbe conseguenze altrettanto catastrofiche. Secondo documenti della N.K.V.D. nel solo 1930 ebbero luogo in tutta l’Urss più di 14.000 rivolte popolari, sollevazioni armate o manifestazioni di massa contro il potere sovietico, cui parteciparono oltre 2 milioni e ½ di contadini. In altri casi le popolazioni rurali accettarono solo formalmente di aderire al decreto di collettivizzazione, salvo poi macellare tutto il bestiame grosso e minuto: mucche, buoi, cavalli, maiali, galline, oche. In grandi tavolate gli abitanti di interi villaggi si ingozzarono letteralmente di cibo pur di non lasciar nulla agli attivisti del partito, distruggendo così il 60% del patrimonio zootecnico nazionale. La spietata repressione che ne seguì fu attuata ricorrendo a contingenti di cavalleria, artiglieria, carri armati, aeroplani e gas asfissianti. Inizialmente si arrestarono, deportarono o uccisero solo i capifamiglia, poi tutti i membri maggiorenni dei nuclei familiari, infine divenne abitudine fucilare in massa anche i bambini rimasti orfani, poiché nessun estraneo avrebbe osato prendersi cura di loro. Al genocidio dei kulaki (considerati ricchi solo perché possedevano una mucca o la loro isba aveva una finestra in più o assumevano braccianti stagionali durante la mietitura) fece seguito una nuova carestia, dato che in molte zone non vi erano più agricoltori esperti a seminare i campi. Nella sola Ucraina morirono di fame oltre 5 milioni di persone tra cui moltissimi bambini. Nelle fertili regioni del Kuban, del Don, del Volga e nel Kazakistan vi furono altri 2 milioni di morti (ma Stalin parlandone con Churchill a Yalta nel 1945 ammise che il totale delle vittime ammontava ad almeno 10 milioni). Molti genitori abbandonarono i figli, altri li portarono a mendicare in città, altri ancora si limitarono ad ucciderli. I casi di cannibalismo, già riscontrati nel 1921/22, divennero dieci anni dopo frequentissimi, rappresentando un vero fenomeno di massa che diede vita al noto luogo comune dei comunisti che mangiavano i bambini. Vi fu perfino chi giunse a profanare le tombe per cibarsi dei cadaveri e i cimiteri erano sorvegliati da guardie armate. Secondo una popolare barzelletta dell’epoca, in Urss morire era facile, il difficile era restare sepolti. Ancora nel 1941, nel solo campo di detenzione delle isole Solovki, scontavano l’ergastolo oltre duemilacinquecento cannibali condannati durante la grande carestia. In realtà le requisizioni forzate che durarono sino al 1933 erano indispensabili al governo sovietico per immagazzinare grandi quantità di cereali destinate all’esportazione in cambio di valuta pregiata. Nel tentativo di riportare l’ordine fu vietato ai contadini di spostarsi nelle città in cerca di cibo. Con la legge del 7 agosto 1932 ogni furto o danneggiamento di una proprietà socialista era diventato punibile con 10 anni di reclusione o con la pena di morte. Nel primo anno della sua entrata in vigore, oltre 125.000 contadini sorpresi a spigolare dopo la mietitura vennero imprigionati ed oltre 50.000 uccisi. I campi coltivati erano cintati con filo spinato e circondati da terrapieni su cui vigilavano guardie armate iscritte al partito. Si veniva passati per le armi sul posto per il furto di cinque spighe di grano o di una patata. In quel periodo vari metodi di eliminazione furono applicati per liberare le strade delle città dalle bocche inutili (ovvero chiunque fosse estraneo all’apparato di partito, inclusi nemici di classe, mendicanti, prostitute, ciechi, handicappati, cantastorie, poeti girovaghi, alcolizzati, anziani non autosufficienti, fedeli e clero ortodosso, adepti di sette religiose, stranieri irregolari, contadini affamati, kulaki in fuga e bambini abbandonati). Durante la carestia staliniana in pochi mesi a Stavropol morirono in 20.000, a Krasnodar in 40.000, a Kharkov in 120.000, tanto che il console italiano presente in città descrisse esplicitamente la situazione in un rapporto ufficiale inoltrato al governo fascista ma secretato per volontà di Mussolini, che aveva tutto l’interesse a mantenere i buoni rapporti commerciali esistenti tra Italia e Urss.
Da una settimana sono stati mobilitati dei dvornik in grembiule bianco, che girano la città, raccolgono i bambini e li portano al più vicino posto di polizia. […] Verso mezzanotte cominciano a trasportarli con i camion alla stazione merci di Severno-Donec. Colà vengono concentrati anche i bambini che vengono raccolti nei villaggi, che vengono trovati nei treni, le famiglie dei contadini, gli individui più vecchi, che vengono rastrellati durante il giorno nella città. Vi sono dei sanitari […] che fanno la cernita. Quelli che ancora non sono gonfi e presentano qualche garanzia di potersi rimettere, vengono inviati alle baracche della Cholodnaja Gora, dove entro capannoni, su paglia, agonizza una popolazione di circa ottomila anime, in grandissima parte bambini. […] I gonfi vengono avviati con un treno merci verso la campagna, e abbandonati a 50-60 km. dalla città, ove presto muoiono di fame e di freddo.
Mentre negli anni trenta in tutta l’Urss milioni di contadini morivano d’inedia, nelle città si faceva la fame e il pane era razionato. Per il comune cittadino nel paradiso sovietico restavano totalmente introvabili a patto di non comperarli in dollari nei Torgsin (negozi speciali riservati alla nomenclatura del partito e agli stranieri) un gran numero di merci e manufatti tra cui libri, candele, cemento, abiti, carbone, maniglie e serrature, materiale elettrico, carburante, vetro, utensili da cucina, fiammiferi, metallo, semi di cipolla, carta da scrivere e da imballaggio, benzina, gomma, sale, sapone e spago. Gli unici generi non soggetti al razionamento erano i fiammiferi ed i semi di girasole. Ma nello stesso periodo si allestivano villaggi “Potemkin” creati appositamente per ingannare i visitatori stranieri con finti segni di floridezza. Tali villaggi ostentavano abbondanza di cibo, bestiame, ogni genere di beni di consumo. Gli abitanti erano robusti braccianti e floride mandriane pronti ad inneggiare alle strabilianti conquiste della rivoluzione (in realtà agenti della N.K.V.D. di entrambi i sessi, specialmente nutriti ed istruiti per la bisogna). Persino gli alberi non avevano radici, ma venivano piantati in solchi scavati lungo le strade poche ore prima dell’arrivo delle delegazioni occidentali in visita guidata.



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