Gli accordi armistiziali che misero fine al conflitto in Corea vennero firmati da un generale americano e uno nordcoreano nel luglio 1953 in una baracca lungo una fascia di territorio che divideva i due eserciti, poi definita zona smilitarizzata. Fino ad oggi essa rappresenta il confine di fatto tra due nazioni ancora ufficialmente in guerra: la Repubblica Democaratica Popolare di Corea (in lingua inglese Democratic People’s Republic of Korea - D.P.R.K.), meglio conosciuta come Corea del Nord e la Repubblica di Corea (in lingua inglese Republic of Korea - R.O.K.), ovvero la Corea del Sud. In base al suddetto armistizio vennero definite le procedure di scambio dei rispettivi prigionieri di guerra. Essi furono trasferiti in campi temporanei realizzati all’interno della zona smilitarizzata e sorvegliati da soldati neutrali (in gran parte indiani). Vi rimasero alloggiati per un periodo di quattro mesi durante il quale avevano la possibilità di rimpatriare. Più di ventimila tra soldati nordcoreani e cinesi fatti prigionieri degli americani durante la guerra, scelsero alla fine di non fare ritorno in patria temendo rappresaglie da parte dei rispettivi regimi comunisti. D’altro canto tutti i prigionieri di guerra americani, sudcoreani, britannici e del Commonwealth, stremati da lunghi anni di fame e sevizie in prigionia aspiravano solo al rimpatrio, nonostante alcuni di essi potessero aspettarsi una volta tornati a casa di venire incriminati per tradimento, collaborazione con il nemico o sovversione davanti a un tribunale militare. Infatti l’elevatissima mortalità nei campi P.O.W. in Corea del Nord e Cina, dovuta alla carenza di cibo e medicine nonché alla deliberata violenza dei carcerieri comunisti aveva portato al completo tracollo dell’ordine e della disciplina militare tra i prigionieri di ogni grado. Essi lottavano tra loro contendendosi cibo e riparo, vigeva la legge del più forte, deboli e malati soccombevano o erano spietatamente soppressi. Ciò in presenza anche di una forte pressione esterna mirante alla loro rieducazione ideologica (lavaggio del cervello). Come conseguenza un certo numero di loro – secondo alcuni storici almeno uno su tre – scelse di collaborare in qualche modo col nemico pur di salvarsi la vita. Qualcuno si limitò a firmare petizioni, inviare lettere, fare discorsi di propaganda contro il coinvolgimento americano nel conflitto, ma altri si spinsero oltre, facendo i kapò e i delatori ai danni dei propri compagni di prigionia, partecipando a film di propaganda e addirittura vestendo l’uniforme nemica. Nonostante tali attività fossero punite dal codice militare con gravi pene detentive o con la pena di morte, quando giunse il momento di scegliere, dopo l’armistizio tutti chiesero di tornare in patria dicendosi pronti ad affrontare le accuse che li attendevano, piuttosto che restare nel “paradiso comunista”. D’altronde per cinesi e nordcoreani ammettere che oltre ventimila loro uomini avevano rifiutato di tornare sarebbe stato uno smacco, anche a livello internazionale ma soprattutto all’interno. Dunque scelsero di passare sotto silenzio la cosa dandoli per morti. Fu dato invece il massimo risalto mediatico alla decisione di un piccolo gruppo di prigionieri occidentali “progressisti” di restare in Cina. Scelti tra quelli con simpatie marxiste o che si erano maggiormente compromessi durante la prigionia, erano tutti americani tranne un britannico e vennero dati in pasto a fotografi e cineoperatori di tutto il mondo. Nelle conferenze stampa durante le quali dichiaravano “spontaneamente” di voler rifarsi una vita nella Repubblica Popolare Cinese recitavano vibranti discorsi in favore della pace e contro il capitalismo, il razzismo e il maccartismo. Al termine dei quattro mesi, i transfughi furono rivestiti di abiti civili, messi su un treno e spediti in Cina dove avrebbero studiato o lavorato per alcuni anni sotto stretta sorveglianza poliziesca e ideologica. Uno di loro vi morì di malattia, due decisero di stabilirvisi in permanenza e misero su famiglia, uno sposò una studentessa universitaria cecoslovacca e la seguì nel suo paese. Tutti gli altri in seguito rimpatriarono senza clamore negli Stati Uniti quando fu chiaro che non avevano più nulla da temere dalle autorità militari e i cinesi non provarono neanche a trattenerli, ma per gran parte dell’opinione pubblica statunitensi restarono niente altro che traditori e disertori.



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