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Discussione: Militari statunitensi cacciatori di teste nella Pacifico

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    Utente registrato L'avatar di storiaememoriagrigioverde
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    DEUMANIZZAZIONE DEL NEMICO
    Un gran numero di testimoni attendibili, inclusi molti veterani che prestarono servizio nel Pacifico, hanno provato la diffusione tra le truppe americane dell’abitudine di prendere parti dei cadaveri dei soldati giapponesi come trofeo. Tale fenomeno è stato di volta in volta attribuito alla vasta campagna di disumanizzazione del nemico portata avanti dai media statunitensi, alle tendenze razziste ben radicate nella società americana dell’epoca, allo stress da combattimento che affliggeva soldati costretti a combattere in situazioni estreme, alla volontà di vendetta contro i crimini di guerra perpetrati dall’esercito imperiale nipponico, oppure a una combinazione di tutti questi fattori. A seguire una ridotta ma esaustiva selezione di tali testimonianze.


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    Il Marine Eugene Slade ricordando che in parecchie occasioni suoi commilitoni estrassero denti d’oro dalla bocca dei caduti giapponesi, riferì un caso in cui il soldato nemico era ancora vivo:

    Il soldato giapponese non era morto. Era stato gravemente ferito alla schiena e non riusciva a muovere le braccia, ma nonostante tutto non sembrava intenzionato a tirare le cuoia. Nella sua bocca scintillavano parecchi denti d’oro ed uno dei Marines li voleva.
    Infilò la punta del pugnale alla base di un dente e colpì l’impugnatura col palmo della mano. Poiché il giapponese scalciava e si lamentava, la lama del pugnale mancò il dente ed affondò in profondità nella bocca della vittima. Il Marine lo estrasse e tagliò le guance del giapponese dagli angoli della bocca fino alle orecchie. Poi gli posò un piede sulla mascella e provò ancora. Il sangue zampillò dalla bocca del giapponese, che emise un suono gorgogliante. Io gridai “Libera quest’uomo dalle sue sofferenze!” Ma tutto ciò che ottenni fu una scrollata di spalle. Un altro Marine si avvicinò e sparò un proiettile nella testa del soldato nemico, ponendo termine alla sua agonia. Il saccheggiatore bofonchiò qualcosa, poi riprese ad estrarre i denti indisturbato.

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    Il Marine Donald Fall attribuì la mutilazione dei cadaveri nemici alla frustrazione e al desiderio di vendetta:

    Il secondo giorno a Guadalcanal catturammo un deposito di rifornimenti giapponese ma trovammo anche delle foto di Marines che erano stati decapitati e mutilati a Wake Island. Poco dopo c’erano Marines che andavano in giro con orecchie giapponesi fissate ai cinturoni con spille da balia. Diffusero un ordine del giorno per ricordare che le mutilazioni erano un crimine di guerra passibile di corte marziale. Ma quando vai in combattimento cominci a fare brutti pensieri, vedi cosa fa il nemico. I gialli mutilavano i morti, minavano i corpi dei Marines morti e i corpi dei giapponesi morti. Così ci abbassammo rapidamente al loro livello.
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    Il Marine Ore Marion ricordò un altro caso di mutilazioni:

    Ci avevano insegnato che i giapponesi erano dei selvaggi, ma le reclute che avevamo a Guadalcanal, ragazzi tra i 16 e i 19 anni, impararono presto da loro. All’alba un paio dei nostri, barbuti, sporchi, affamati, sanguinanti per ferite da baionetta, con le uniformi sudice e stracciate, tagliarono tre teste giapponesi e le infilzarono su dei pali affinchè fossero visibili al nemico sulla riva opposta del fiume. Il nostro colonnello vide le teste giapponesi sui pali e disse: “Gesù, uomini, cosa state facendo? Vi state comportando come animali.” Un giovane Marine, sporco e puzzolente disse: “E’ vero colonnello, noi siamo animali. Viviamo come animali, mangiamo come animali e siamo trattati come animali. Cosa c***o si aspettava da noi?”


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    Il 1 febbraio 1943 la rivista Life pubblicò una foto scattata da Ralph Morse durante la battaglia di Guadalcanal, che mostrava la testa di un soldato giapponese infilzata dai Marines sulla mitragliatrice di un carro armato distrutto. Life ricevette un certo numero di lettere da lettori increduli che soldati americani fossero capaci di tale brutalità verso il nemico. Nonostante ciò, la foto della testa mozzata ricevette meno della metà delle lettere di protesta giunte per la foto di un gattino maltrattato, pubblicata nello stesso numero della rivista.
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    Nell’ottobre 1943 l’Alto Comando americano espresse vivissima preoccupazione per l’effetto sull’opinione pubblica nazionale di due recenti articoli di giornale. Nel primo un soldato americano raccontava di essersi fatto una collana usando denti giapponesi. Nel secondo si documentavano fotograficamente le varie fasi di preparazione di un teschio giapponese mediante la bollitura e l’eliminazione delle parti molli.

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    Nel 1944 il poeta americano Winfield Townley Scott lavorava come reporter per un quotidiano del Rhode Island, quando un marinaio in licenza venne in redazione per mostrargli un teschio-trofeo. Questo episodio gli ispirò la poesia The U.S. Sailor with the Japanese skull, nella quale descriveva accuratamente uno dei metodi per la preparazione dei teschi (la testa veniva scuoiata, avvolta in una rete e trainata dalla nave finché i pesci non l’avessero ripulita, poi veniva ripassata nella soda caustica).

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    Il noto trasvolatore americano Charles Lindbergh durante la guerra prestò servizio in aeronautica col grado di generale ed annotò nel suo diario privato parecchi casi di mutilazioni. Il 14 gennaio 1944 un ufficiale dei Marines gli riferì di aver visto di persona cadaveri di soldati giapponesi ai quali erano stati tagliati via il naso o le orecchie. In seguito alla visita ad una base aerea americana nella Nuova Guinea, venne a sapere che nel tempo libero gli avieri davano la caccia come selvaggina agli ultimi giapponesi nascosti nella giungla, uccidendoli per passatempo e facevano poi commercio dei teschi e dalle ossa coi marinai civili delle navi da trasporto che facevano scalo sull’isola. Quando Lindbergh nel 1944 rientrò negli Stati Uniti passando dalle Hawaii, dovette riempire alla dogana un questionario dell’U.S. Custom Service. Una delle domande riguardava esplicitamente il possesso di teschi e ossa umane. Stupitosi del fatto che ciò fosse considerato un fatto abituale, gli venne confermato dai funzionari doganali che la domanda era stata inserita nello stampato a causa del gran numero di ossa di soldati giapponesi scoperte nelle sacche dei militari in licenza, incluse numerose teste putrefatte non ancora ripulite.

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    Molti filippini musulmani dell’isola di Mindanao parteciparono alla guerriglia contro gli occupanti, agli ordini di ufficiali americani rimasti in loco dopo la conquista giapponese. Il leader musulmano Datu Pino ricordò in seguito che il capo della resistenza – il colonnello americano Wendell W. Fertig – incoraggiava apertamente gli indigeni a mutilare i nipponici vivi o morti, allo scopo di spargere il terrore tra i soldati nemici. Nel 1944 chi gli consegnava un naso o un paio di orecchie giapponesi veniva ricompensato con 20 centavos, chi portava i genitali riceveva invece una scatola di munizioni calibro 45.


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    Un anonimo Marine sbarcato a Saipan nel 1944 ricordò:

    Il soldato giapponese sembrava avere circa quattordici anni e giaceva morto davanti a me. Mi sorpresi a pensare che una madre laggiù in Giappone avrebbe ricevuto la notizia che suo figlio era morto in battaglia. Allora uno dei Marines si chinò su di lui afferrandolo rudemente alla cintola e gli strappò via la camicia. Qualcuno chiese “Che cosa stai cercando?” E lui disse “Cerco la cintura col denaro. I gialli portano sempre addosso cinture col denaro.” Beh, questo giapponese non l’aveva. Un altro Marine vide che il morto aveva dei denti d’oro, così lo colpì ripetutamente alla mascella col calcio del fucile, sperando di farglieli saltare. Non ho idea se ci sia riuscito o no, perché a quel punto voltai le spalle e me ne andai. Mi sedetti in un posto dove nessuno potesse vedermi. Nonostante i miei occhi fossero asciutti, nel mio cuore ero disgustato. Non dalla vista del soldato morto, ma per il modo come i miei commilitoni avevano trattato quel corpo. Quel ricordo mi dette parecchio fastidio. Poco dopo arrivò il mio amico Al, sedette accanto a me e poggiò il suo braccio attorno alle mie spalle. Sapeva cosa stavo provando in quel momento. Quando mi girai verso di lui, vidi che la sua faccia era inondata di lacrime.
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    CHISSA' A QUALE DI QUESTI ALBERI CI IMPICCHERANNO?

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