ATTORI DI COLORE
Inizialmente gli sceneggiatori ritennero necessario dare verosimiglianza ad una storia ambientata nella multirazziale New York facendo parlare i vari personaggi nella loro lingua del rispettivo gruppo etnico (italiani in italiano, italoamericani in “dialetto broccolino”, americani wasp in inglese, afroamericani nello slang di Harlem) facendo al contempo largo uso di sottotitoli. Tale ipotesi venne presto scartata sia per motivi ideologici che economici. Il Minculpop impose che tutti gli attori – anche quelli di colore – parlassero in perfetto italiano, facendo uno strappo solo per poche frasi dialettali inserite nei dialoghi tra emigranti napoletani, siciliani e veneti all’inizio del film. Ciò è spiegabile con l’avversione del regime per i dialetti regionali, simbolo della vituperata “italietta” prefascista e dunque sistematicamente espunti dalla cinematografia del ventennio tranne poche ma significative eccezioni per attori comici di grande popolarità (Angelo Musco, i fratelli De Filippo, Gilberto Govi, Aldo Fabrizi e Totò). Di conseguenza una delle maggiori difficoltà incontrate dalla produzione nella composizione del cast di Harlem fu il reperimento di attori di colore in grado di parlare un italiano corretto per vestire i panni degli antagonisti dei due eroi italiani, interpretati dagli attori “ariani” Nazzari e Girotti. Bisognava trovare tre neri sufficientemente acculturati e dotati di un certo talento recitativo, almeno uno dei quali fosse credibile per età e doti fisiche nel ruolo di un campione di pugilato dei pesi massimi. Per il ruolo del campione afroamericano Charlie Lamb si pensò dapprima al pugile romano Leone Jacovacci, un italo-angolano che già nel 1928 aveva conquistato sia il titolo italiano che quello europeo nella categoria pesi medi. Ma egli, inviso al regime fascista, da tempo aveva lasciato l’Italia rifugiandosi a Parigi, e non era certo disposto a tornare a Cinecittà per lavorare in un film di propaganda. La soluzione si presentò nella persona di Lodovico Longo, nato nel 1912 da un funzionario coloniale italiano (temporaneamente distaccato nell’allora Congo Belga con incarichi amministrativi) e da una donna indigena. Portato in Italia dal padre e riconosciuto come figlio naturale, ottenne la piena cittadinanza italiana, fu cresciuto a Roma da tre zie zitelle e sviluppò precocemente una prodigioso interesse per la matematica che lo portò a frequentare attivamente il gruppo di via Panisperna, venendo a contatto con Fermi, Majorana, Amaldi e Segré. E viene da pensare in cosa potesse consistere mai il terribile razzismo mussoliniano, se nella capitale del fascismo alla fine degli anni trenta un nero poteva lavorare in un laboratorio di estrema importanza scientifica fianco a fianco con ebrei e comunisti, anche solo pensare una cosa simile sarebbe stato assolutamente impossibile nella Germania nazista. Comunque come tutti i suoi coetanei bianchi Lodovico fu inquadrato fin da piccolo nei ranghi della O.N.B./G.I.L. e poi in quelli del G.U.F. sino alla laurea in Ingegneria. Grazie al fisico scultoreo praticò pugilato, lotta greco-romana e rugby ad alto livello nel centro sportivo dei Gruppi Universitari Fascisti, rappresentando l’Università di Roma “La Sapienza” in numerose competizioni sportive nazionali. In quello stesso 1942 che lo vide inaspettatamente debuttare come attore sul set di Harlem, il giovane ingegnere e matematico italo-congolese era impegnato a prestare i suoi possenti bicipiti come modello per l’archeologo italiano Ernesto Vergara Caffarelli, impegnato nel progetto di restauro del braccio del Laocoonte. Il celebre gruppo scultoreo di età ellenistica oggi esposto nei Musei Vaticani e rinvenuto in origine mutilo del braccio destro, era stato a suo tempo oggetto di un fantasioso restauro. Nel 1906 l’archeologo e mercante d’arte Ludwig Pollak rinvenne il frammento di marmo mancante nella bottega di uno scalpellino romano in via Labicana e ne fece dono a Pio XI. La fortuita scoperta rivoluzionò l’interpretazione tradizionale della scultura, che soltanto nel 1959, una volta rimosse le parti posticce, riacquistò il suo aspetto originario grazie al paziente lavoro del Vergara Caffarelli. Come se non bastasse, a titolo di “passatempo” il poliedrico Lodovico stava anche lavorando alla dimostrazione del Teorema di Fermat, un complicato problema matematico alla risoluzione del quale si era applicato, prima della sua misteriosa scomparsa, lo stesso Ettore Majorana. Per interpretare il personaggio del notabile abissino Toussaint Louverture, istigatore delle violenze contro gli italiani, venne invece prescelto un autentico etiope di nome Ailù Uoldejesus (Hailu Woldeyesus). Costui era un pittore etiope trentaseienne originario della regione dello Scioa, specializzato nella realizzazione dei dipinti tradizionali abissini. Venuto in Italia per esporre le sue opere alla Mostra d’Oltremare, era rimasto bloccato a Napoli con gli altri sudditi coloniali. Quanto al terzo “villain” previsto dalla sceneggiatura, l’aviatore afroamericano Aquila Nera (che come abbiamo visto era ispirato ad un personaggio realmente esistito), egli fu interpretato da un suddito coloniale ad oggi ancora non bene identificato. Ailù Uoldejesus nel corso della lavorazione di Harlem fu ripetutamente segnalato alla polizia politica per atteggiamenti anti-italiani e contrari al fascismo, rifiutandosi anche di imporre nomi italiani ai due figli avuti dalla giovane moglie Scioreghet Aldegiorgis. Ma di fatto venne protetto dalla Polizia dell’Africa Italiana del generale Marraffa, in quanto elemento necessario al completamento della pellicola, evitando perciò conseguenze peggiori.
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SUDDITI COLONIALI E LANCIERI VICEREALI
In occasione dell’Esposizione delle Terre d’Oltremare realizzata nel 1940 per propagandare la cultura coloniale, il Ministero dell’Africa Italiana fece giungere a Napoli un certo numero di sudditi coloniali, uomini, donne e bambini suddivisi in nuclei familiari rappresentativi di tutte le etnie e religioni dell’Africa Orientale. Essi sarebbero stati impiegati come figuranti in un “villaggio indigeno” perfettamente ricostruito all’interno della fiera (con tanto di chiesa copta e moschea islamica) per mostrare ai visitatori la vita quotidiana dei nativi. Per sorvegliare il piccolo gruppo di sudditi coloniali e disimpegnare il servizio di guardia in alta uniforme all’interno della fiera, la Polizia dell’Africa Italiana fornì a sua volta un distaccamento di cinquanta uomini tratti dal suo più prestigioso e scenografico reparto, i Lancieri Vicereali. Costoro erano agenti di polizia indigeni di alta statura, appositamente reclutati tra etiopi, eritrei e somali. Furono addestrati in colonia da ex-ufficiali di cavalleria per fornire la scorta d’onore (a seconda delle necessità a cavallo o cammellata) al Viceré Amedeo d’Aosta durante i suoi spostamenti nei territori dell’Impero. Nelle intenzioni del gerarca fascista Attilio Teruzzi, titolare del dicastero competente, in conseguenza delle leggi razziali una volta giunti a Napoli gli africani avrebbero dovuto essere completamente autonomi, anche per evitare indebiti contatti con la popolazione italiana bianca. Quindi a tale scopo al gruppo vennero aggregati un imam musulmano e un sacerdote copto per i bisogni spirituali, nonché sei “sciarmutte” (prostitute indigene) per i bisogni assai più terreni dei Lancieri P.A.I. scapoli (alcuni sottufficiali avevano invece ottenuto di portarsi mogli e figli al seguito). L’Esposizione delle Terre d’Oltremare fu inaugurata in pompa magna con un buon afflusso di pubblico ma venne sospesa dopo pochi mesi in conseguenza dell’entrata in guerra dell’Italia il 10 giugno 1940. Gli africani, impossibilitati a tornare ai luoghi di origine, vennero prima ospitati nei locali della fiera (trasformati in magazzini di materiale bellico destinato al fronte libico e ripetutamente danneggiati dai bombardamenti aerei alleati su Napoli) e poi trasferiti in baracche nelle immediate vicinanze, ma a poco meno di 300 metri da un obiettivo strategico ancora più importante per le bombe nemiche, lo stabilimento dell’Ilva. Ma già dal settembre 1940 alcuni di loro ottennero di lavorare come comparse regolarmente retribuite – seppure strettamente sorvegliate dalla P.A.I. – in varie pellicole girate a Cinecittà (4). Intanto a partire dal 1941 con la definitiva perdita dell’A.O.I. e il ritorno al potere del Negus ad Addis Abeba grazie alle baionette inglesi, all’interno della piccola comunità alcuni degli etiopi più istruiti cominciarono a mostrare velatamente sentimenti anti-italiani (probabilmente per crearsi titoli di benemerenza ed evitare in futuro di essere considerati collaborazionisti da parte del ricostituito governo negussita). Vi furono crescenti attriti tra i vari gruppi etnici e religiosi, dovuti principalmente all’aggravarsi del razionamento alimentare (che rendeva difficile la macellazione rituale del bestiame) e al divieto di praticare mutilazioni rituali tradizionali (circoncisione o infibulazione) ai bambini nati durante la permanenza sul territorio metropolitano. Comunque grazie alle entrature politiche di Luigi Freddi, tutti gli africani rimasti nella città partenopea e i loro sorveglianti furono reclutati nel 1942 per partecipare come comparse al film Harlem. Per evitare continui spostamenti tra Napoli e Roma dato che le riprese i sarebbero protratte per mesi, tutti furono provvisoriamente alloggiati nei baraccamenti dell’ex- centro contumaciale di Frascati da dove ogni mattina partivano in direzione di Cinecittà sugli autocarri della P.A.I.
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PRIGIONIERI DI GUERRA SUDAFRICANI
Memore delle migliaia di donne tedesche stuprate dalle truppe coloniali francesi dislocate in Germania come truppe di occupazione nel primo dopoguerra, Adolf Hitler considerava la presenza di prigionieri di guerra di colore nel territorio del Reich un grave pericolo per la purezza razziale del popolo tedesco. Dunque già nel gennaio 1941 aveva fatto trasferire dalla Germania in un campo di lavoro nei pressi di Bordeaux oltre 80.000 elementi delle truppe coloniali francesi, prigionieri di guerra catturati dalla Wehrmacht nel giugno dell’anno precedente (5). Conseguentemente, quando nel novembre 1941 le truppe dell’Asse riuscirono a catturare a Sidi Rezegh e Tobruk alcune migliaia di soldati di colore provenienti da vari territori del Commonwealth Britannico (in gran parte neri sudafricani e sudanesi, ma anche aborigeni australiani e maori neozelandesi), questi vennero inizialmente radunati a Bengasi. Trasferiti via mare in Italia, furono poi ceduti al Regio Esercito e smistati nei campi per prigionieri di guerra in varie località del meridione tra cui Bari, Turturano, Altamura e Capua. Nel maggio del 1942, in base ad accordi intercorsi tra i ministri Pavolini e Goebbels (6) per lo sfruttamento dei prigionieri di guerra a fini propagandistici, oltre mille P.O.W. sudafricani vennero radunati in un nuova struttura appositamente costruita lungo la via Tuscolana, a poca distanza dagli stabilimenti di Cinecittà. La scelta cadde sui prigionieri provenienti dal Sudafrica in quanto membri del Native Military Corps, un reparto ausiliario non combattente composto esclusivamente da neri di etnia Zulu, che gestivano servizi di retrovia, trasporti e manovalanza per i commilitoni bianchi, essendo loro proibito l’uso delle armi. Ingenui, collaborativi e già abituati al regime di rigida separazione razziale vigente nel loro paese di origine, essi erano considerati meglio gestibili e meno ostili all’Asse rispetto ad etnie guerriere, tradizionalmente più combattive e più solidali con i padroni inglesi, come ad esempio i Sikh indiani, gli Aborigeni australiani ed i Maori neozelandesi. Il campo per prigionieri di guerra n. 122 comandato dal capitano Enrico Mancini era in effetti un campo modello, più volte oggetto di lusinghieri rapporti della Croce Rossa Internazionale. I prigionieri erano trattati meglio che in altri campi di prigionia, il rancio giornaliero consisteva in 400 gr. di pane e 120 gr. di pasta o riso, la carne era fornita almeno due volte a settimana. I sudafricani accettarono ben volentieri di lavorare come comparse per sfuggire alla noia della detenzione, ottenendo dalla produzione di Harlem un supplemento di rancio composto da pane e minestra, forniture di sigarette italiane e una paga di 3 Lire al giorno. Poiché i P.O.W. alleati ricevevano anche pacchi viveri in abbondanza sia dalla Croce Rossa che dai rispettivi governi, grazie al contatto quotidiano con cast e maestranze italiane presto si sviluppò a Cinecittà un fiorente mercato nero. Esso era ufficialmente deprecato dalle nostre autorità di polizia, che però fecero assai poco per reprimerlo. I generi di lusso da anni introvabili nel nostro paese (cioccolata, latte condensato, cacao in polvere, corned beef e ananas in scatola, saponette profumate, sigarette americane) venivano scambiati con le nostrane sigarette Milit ed i grigiastri e gommosi sfilatini autarchici, dei quali stranamente i neri sudafricani andavano assai ghiotti, forse perché avevano una consistenza simile a certi loro cibi tradizionali. Sul set del film, gran parte dei suddetti P.O.W. venne utilizzato nelle scene di massa, mostrando un particolare entusiasmo durante le riprese del ballo nel Jazz Club e dell’incontro di boxe al Madison Square Garden, nelle quali sembrarono divertirsi davvero.



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