I SOMMERSI E I SALVATI

Il cinema italiano: Il dorato mondo dei cinematografari romani uscì relativamente indenne dalla guerra. Abituati da anni a servire fedelmente il fascismo in cambio di privilegi e prebende, quando risultò evidente che l’esito del conflitto sarebbe stato infausto per l’Asse, per produttori, registi, attori e maestranze suonò subito la libera uscita e quasi tutti pensarono esclusivamente alla sopravvivenza immediata, in attesa che la situazione politica si chiarisse in qualche modo, per poi riposizionarsi politicamente e tornare a servire un nuovo padrone facendo sfoggio del proverbiale cinismo. Dopo il trauma dell’armistizio pur di non compromettersi con gli occupanti nazisti, col governo repubblicano di Salò e coi disperati tentativi di Luigi Freddi di attirare al Cinevillaggio affrettatamente allestito a Venezia qualcuno dei nomi di spicco della cinematografia italiana, tra i recalcitranti divi di celluloide successe praticamente di tutto. Vi fu chi si rifugiò all’estero, chi passò le linee diretto al sud, chi si nascose in convento o si fece ricoverare sotto falso nome in ospedale millantando inesistenti malattie infettive. Altri sfollarono in campagna o si limitarono a restare nella capitale cambiando spesso domicilio, ospiti nelle case di amici fidati. Il caso più clamoroso fu però quello dell’attore e regista Vittorio De Sica, che sfuggì ai nazifascisti prolungando appositamente per molti mesi la lavorazione de La porta del cielo (un film sui pellegrinaggi a Lourdes commissionatogli prima dell’armistizio dal Centro Cinematografico Cattolico) ma suscitando sdegno e indignazione in Vaticano per essersi accampato “senza il rispetto dovuto a un luogo sacro” nella inviolabile zona extraterritoriale della Basilica di San Paolo insieme ai molti israeliti romani da lui utilizzati come comparse per sottrarli alla deportazione in Germania. Dopo la liberazione di Roma nel 1944, un ristretto gruppo di giovani cineasti (generalmente ambiziosi intellettuali provenienti dai G.U.F. passati direttamente dal fascismo al marxismo) avendo partecipato in prima persona alla resistenza romana, chiese a gran voce punizioni draconiane, ergastoli e persino fucilazioni per gli esponenti più anziani del cinema di regime, colpevoli a sentir loro di aver distratto negli anni trenta le masse lavoratrici italiane dalla altrimenti inevitabile rivoluzione comunista, mediante il subdolo strumento delle frivole commediole borghesi dei “telefoni bianchi”. In concreto ne venne fuori ben poco e la montagna partorì il proverbiale topolino. Quello stesso anno fu effettivamente creata una apposita Commissione di epurazione dall’Unione Lavoratori dello Spettacolo, i cui membri avevano il solo merito di aver fatto professione di antifascismo più sinceramente o più rapidamente dei colleghi che avrebbero dovuto inquisire. I lavori della commissione si protrassero per poco tempo ma il documento finale non fu mai pubblicato, in quanto gran parte degli accusati si era nel frattempo messa al sicuro facendosi proteggere da autorevoli esponenti della sinistra. Valga come esempio il giovane regista cattolico Roberto Rossellini (colpevole di aver girato la trilogia di propaganda bellica composta da La nave bianca, Un pilota ritorna e L’uomo dalla croce), che fu oggetto degli strali della commissione ma sfuggì all’epurazione realizzando in tutta fretta nel 1945 il film Roma Città Aperta. Nella pellicola apologetica della resistenza il Rossellini equiparò i G.A.P. – spietati strumenti di terrorismo urbano – addirittura ai primi martiri cristiani, ottenendo così la totale protezione del P.C.I. da ulteriori conseguenze negative. Sul clima prevalente all’interno del ristretto ambiente artistico romano, dove tutti bene o male si conoscevano tra loro da anni, abbiamo la testimonianza di Sergio Leone (che oltretutto tra il 1946 e il 1950 lavorò in ben cinque film proprio come aiuto regista di Carmine Gallone, già regista di Harlem). Il futuro creatore del western all’italiana ricordò molti anni dopo che accompagnando in quel periodo il padre Vincenzo Leone (militante comunista già popolare regista ai tempi del muto col nome d’arte di Roberto Roberti) in noti luoghi di ritrovo della gente del cinema come il bar Rosati, ebbe occasione di vedere epurati ed epuratori cenare tranquillamente allo stesso tavolo, quasi scusandosi l’uno con l’altro di dover forzatamente recitare le rispettive parti in commedia, in attesa che finalmente – come avrebbe detto Eduardo – passasse ‘a nuttata. Ai pochi registi ed attori sanzionati ufficialmente dalla Commissione perché coinvolti col fascismo furono comminati solo pochi mesi di sospensione dal lavoro, e pur senza tornare più a posizioni di primo piano poiché soppiantati dalla nuova ondata neorealista imposta dall’antifascismo postbellico, comunque tutti furono reintegrati dopo la vittoria democristiana nel 1948 e continuarono per decenni a realizzare in gran numero pellicole di genere. Tutto sommato, a causa della terribile guerra civile che per due anni trascinò il popolo italiano in un bagno di sangue, persero la vita solo quattro attori cinematografici di una certa importanza. E se Renato Cialente morì nel novembre 1943 investito in circostanze misteriose da un autocarro tedesco davanti al teatro Argentina di Roma, la coppia Valenti/Ferida nell’aprile 1945 ed Elio Marcuzzo nel luglio dello stesso anno, furono invece soppressi a scopo di rapina da bande di partigiani in due distinti atti criminosi (poi giustificati a posteriori con improbabili motivazioni politiche).


Luigi Freddi: Rimosso dai suoi incarichi dopo il crollo del regime e richiamato alle armi come ufficiale di complemento col grado di tenente d’Artiglieria, tra il 30 luglio e il 12 settembre 1943 fu rinchiuso nel carcere militare di Forte Boccea con altri esponenti fascisti per ordine di Badoglio. Liberato dai paracadutisti tedeschi, aderì immediatamente alla Repubblica Sociale Italiana e su richiesta di Mussolini tramite la Cines allestì un Cinevillaggio di fortuna nei Giardini della Biennale d’Arte di Venezia, ottenendo la parziale restituzione delle preziose attrezzature cinematografiche saccheggiate dai tedeschi a Cinecittà dopo l’armistizio (in totale solo undici vagoni ferroviari e pochi autocarri carichi di materiale giunsero nella città lagunare, ma molti di più furono inviati nel Reich dai nazisti, come bottino di guerra destinato ai teatri di posa di Berlino e Praga). Ma su impulso di Freddi nel territorio della R.S.I. si girarono film in altre località – o almeno si tentò di farlo – per decentrare gli impianti e aumentare la produzione (la Cines lavorò anche a Budrio di Bologna, la Scalera alla Giudecca, la Tirrenia agli stabilimenti Pisorno tra Pisa e Livorno, altri gruppi minori a Torino, Genova, Brescia, Montecatini, senza contare l’attività residua del Centro Sperimentale e dell’Istituto Luce, trasferiti a Venezia). Poco prima della liberazione Luigi Freddi tentò inutilmente di passare in Svizzera per raggiungere moglie e figlia da tempo al sicuro in territorio elvetico, ospiti della moglie di Arturo Toscanini. Consegnatosi ai partigiani tramite amici fidati, fu processato per illeciti arricchimenti ed epurato, ma ottenne un trattamento lieve e la pena residua fu cancellata dall’amnistia Togliatti. Diede alle stampe un libro autobiografico in due volumi intitolato Il cinema e dagli anni cinquanta tornò a lavorare in ambito cinematografico, tenendo i contatti con le grandi case di produzione statunitensi per conto di operatori italiani del settore. Scrisse e tentò invano di vendere alcune sceneggiature cinematografiche di argomento violentemente anticomunista, seppure aggiornate al periodo della guerra fredda. Non rinnegò mai la propria militanza fascista e tantomeno l’attività al vertice di Enic e Cines durante il ventennio. Il governo democristiano a un certo punto gli offrì persino di tornare a dirigere Cinecittà, a patto che facesse pubblica ammenda del passato prendendo la tessera della D.C. ma l’ex-gerarca per coerenza declinò l’invito.
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Alessandro Pavolini: Rimosso dopo il 25 luglio 1943 dalla direzione del quotidiano Il Messaggero, il raffinato intellettuale toscano fu l’unico gerarca fascista a propugnare apertamente la necessità di resistere con le armi al colpo di stato militare sabaudo/badogliano. Datosi alla macchia con l’aiuto dei nazisti, si rifugiò in Germania insieme a figure di secondo piano del regime e tentò senza successo di formare un embrionale governo fascista in esilio. Dopo la proclamazione dell’armistizio e la liberazione di Mussolini, fu imposto dai tedeschi nel nuovo governo nazionale repubblicano, assurgendo al rango di Ministro di Stato e Segretario del Partito. Contrario fin dall’inizio alla strategia mussoliniana di riconciliazione nazionale tra fascisti e antifascisti, in seguito ai ripetuti attentati terroristici contro gli iscritti al P.F.R. militarizzò il partito con l’appoggio delle autorità militari germaniche, creando il Corpo Ausiliario delle Brigate Nere e contribuendo ulteriormente all’incrudelire della guerra civile tra italiani. Unico tra gli esponenti della Repubblica Sociale diretti verso la Svizzera a tentare mitra in pugno di sfuggire ai partigiani, fu ferito e catturato. Passato per le armi insieme agli altri prigionieri fascisti sul lungolago di Dongo per ordine del colonnello Valerio, il suo cadavere fu portato a Milano ed esposto in piazzale Loreto il 29 aprile 1945 con quello di Mussolini, di Claretta Petacci e dei gerarchi.
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Joseph Goebbels: Ministro della Propaganda del Reich e capo assoluto della cinematografia nazista, nel 1944 fu nominato da Hitler plenipotenziario per la mobilitazione delle nuove divisioni Volksgrenadiere nell’ambito della guerra totale e nel 1945 divenne responsabile politico della difesa di Berlino assediata dalle truppe sovietiche. Rifugiatosi con la famiglia nel bunker della Cancelleria, dopo il suicidio di Hitler scelse di condividerne la sorte e si uccise insieme alla moglie Magda, non prima di aver fatto sopprimere con il veleno i loro bambini. Il suo cadavere parzialmente bruciato fu rinvenuto e identificato dalle truppe di occupazione sovietiche che lo occultarono in un luogo sicuro fino alla riunificazione delle due Germanie.
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Gaetano Polverelli: Già militante socialista, fu giornalista de l’Avanti e de Il Popolo d’Italia, co-fondatore del fascio di Roma, sindacalista, capo ufficio stampa del Duce, sottosegretario e deputato, fedelissimo a Mussolini. In qualità di Ministro della Cultura Popolare il 25 luglio 1943 partecipò al Gran Consiglio del Fascismo. In quella occasione votò contro l’ordine del giorno Grandi, denunziandone la natura essenzialmente golpista e dichiarando di aver vissuto da mussoliniano e di voler morire mussoliniano. Dopo l’8 settembre aderì alla Repubblica Sociale Italiana, trasferendosi al nord. Arrestato ed epurato alla fine del conflitto, morì in onesta povertà quasi dimenticato da tutti.
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Osvaldo Valenti e Luisa Ferida: Rimasti spiazzati come molti altri italiani dal tracollo improvviso del regime fascista, dopo il 25 luglio 1943 i due attori si sfollarono in campagna ospiti di amici, attendendo l’evolversi degli eventi. Incapace di valutare a fondo le conseguenze politiche del suo gesto, Valenti accettò di trasferirsi al nord dietro promessa di Luigi Freddi di un importante incarico dirigenziale in ambito cinematografico. Probabilmente la sua decisione fu pesantemente influenzata anche dal fatto che la cocaina, dalla quale sia lui che la Ferida erano da tempo pesantemente dipendenti, non era più reperibile nella Roma occupata dai nazisti. Max Mugnani era lo spacciatore ufficiale del regime, della nobiltà romana e dei cinematografari, nonché l’ufficiale della M.V.S.N. famoso nella Roma del 1941 per aver imbottito di cocaina il nuovo ambasciatore nipponico Matsuoka nel corso di un festino a base di sesso e droga fino a metterlo fuori combattimento e costringendo il Duce a rinviare di tre giorni la cerimonia di presentazione delle credenziali ufficiali del diplomatico giapponese. Il Mugnani dopo l’armistizio aveva rapidamente attraversato le linee raggiungendo Napoli. Grazie ai numerosi mafiosi italoamericani tornati in Italia con la 5^ Armata, era stato nominato custode dei depositi di morfina della sanità militare americana nella città partenopea, avviando un lucroso mercato nero di stupefacenti destinato a continuare anche nel dopoguerra. Giunta a Venezia nell’inverno 1943, la coppia di attori non tardò a restare delusa dalla dura realtà. Quasi tutta la gente di cinema che più o meno volontariamente aveva aderito all’estrema iniziativa propagandistica del fascismo (in gran parte figure di secondo piano o giovanissimi destinati poi a una fulgida carriera nel secondo dopoguerra) vegetava inattiva nei grandi alberghi o in case private, tra restrizioni di ogni tipo e un clima politico sempre più plumbeo. La spensieratezza degli anni di Cinecittà non si addiceva certo al misero ambiente del Cinevillaggio allestito in laguna. A mancare alla cinematografia repubblichina erano anche i veri divi. Oltre ad Osvaldo e Luisa c’erano solo Doris Duranti (allora amante di Pavolini), Caterina Boratto, l’ex-attore del muto Nuto Navarrini (che dopo aver sposato in seconde nozze una ballerina era passato all’avanspettacolo) e pochi altri. Nonostante avesse ottenuto un incarico direttivo nel sindacato fascista Artisti dello Spettacolo, spinto dal bisogno di denaro Valenti nel febbraio 1944 tornò a lavorare al fianco della sua compagna nel mediocre e raffazzonato film Un fatto di cronaca con esiti deludenti di critica e di pubblico. La coppia avrebbe dovuto girare un altro film nel maggio dello stesso anno, ma la pellicola già intitolata Il destino ha deciso in realtà non fu mai realizzata. L’attore in crisi fu avvicinato da Nino Buttazzoni, comandante del Battaglione NP, che per conto di Borghese gli propose di entrare nella X^ Flottiglia M.A.S. col grado di tenente. Ancora una volta la scelta fu presa d’impulso senza valutare le conseguenze. La notizia dell’arruolamento fu ampiamente sfruttata dalla propaganda fascista che fece di lui un uomo-immagine e dopo un breve addestramento, Osvaldo Valenti fu inizialmente destinato come ufficiale di collocamento presso il Quartier Generale della Kriegsmarine in Italia. Trasferito poi al Distaccamento di Milano della X^, gli fu affidata insieme ad alcuni NP la delicata missione di contrabbandare in Svizzera oro, gioielli e titoli di stato, utilizzando come copertura il convalescenziario gestito dalla Marina Nazionale Repubblicana a Lanzo d’Intelvi, a ridosso del confine elvetico. Lo scopo era procurare la valuta pregiata (dollari e sterline) necessaria a reperire al mercato nero armi, automezzi e carburante per i nuovi battaglioni costituiti dalla X^. In tale occasione venne in contatto con personaggi ambigui, contrabbandieri e doppiogiochisti e cominciò a valutare l’opportunità di cambiare campo prima dell’inevitabile sconfitta. Rientrato a Milano, frequentò per motivi di servizio Villa Triste, sede del famigerato Reparto autonomo di polizia, capeggiato da Pietro Koch. Ciò diede origine alla leggenda nera – perpetuatasi a lungo nel dopoguerra nonostante alcune sentenze attestassero il contrario – di un Valenti spietato torturatore di partigiani. In realtà egli incontrò per la prima volta Koch in seguito a una intricata vicenda legata allo sfruttamento di un pozzo metanifero a Cavenago d’Adda, nel lodigiano (lo stesso che dal 1946 darà inizio ai fasti dell’E.N.I.) in una inedita collaborazione tra la X^ e i partigiani bianchi di Enrico Mattei. Una vicenda ancora più complessa e poco nota si nascondeva dietro la più che amichevole frequentazione di Osvaldo Valenti e Luisa Ferida con Pietro Koch e la sua amante, la ballerina Daysi Marchi. Come gran parte delle polizie autonome operanti durante la guerra civile, anche la Banda Koch era formalmente dipendente dal Ministro degli Interni italiano Buffarini Guidi ma in realtà era agli ordini diretti della SS/SD. Il principe Junio Valerio Borghese era da tempo stato contattato dagli americani tramite un agente dei servizi segreti della Regia Marina cobelligerante, appositamente paracadutato al nord e stava portando avanti trattative per ritagliarsi uno spazio di manovra politico-militare nel dopoguerra, sia progettando la difesa congiunta dei confini orientali dall’invasione dei comunisti jugoslavi, sia proponendo in cambio dell’incolumità dei suoi uomini la creazione di una organizzazione armata formata da ex- della Decima e sostenuta in segreto dagli Stati Uniti per contrastare l’arrivo al potere dei comunisti italiani (il primo embrione della futura Gladio). Gli organi di sicurezza nazisti lo sospettavano di tradimento e avevano incaricato Koch di spiarlo per trovarne le prove concrete. Il comandante Borghese però, sapendo che Valenti già conosceva di vista l’aguzzino fascista, incaricò l’attore di frequentarlo per spiarlo a sua volta. Si trattava di un gioco molto pericoloso per chiunque ma che risultò vincente, dato che il 25 aprile 1945 Borghese si asserragliò coi suoi uomini in una caserma di Milano e attese tranquillamente gli americani, che lo sottrassero alla vendetta degli antifascisti. Poco prima della liberazione – sopravvalutando la propria importanza politica – Valenti consegnò ai partigiani un lungo memoriale difensivo e poi si mise nelle mani della formazione socialista nota come Divisione Pasubio, promettendo di consegnare in cambio dell’incolumità il tesoro della X^ M.A.S. a lui affidato. Si trattava di una grande quantità di oro, pellicce e valuta pregiata, in sei grossi bauli murati in una stanza del suo alloggio. Una volta in balia dell’ambiguo comandante partigiano Giuseppe Marozin, l’attore si fece sciaguratamente raggiungere con uno stratagemma dalla sua compagna incinta di quattro mesi. Nascosti di volta in volta in varie località alla periferia di Milano, i due passarono presto da ospiti a prigionieri. Vennero fucilati su un marciapiede di via Poliziano alle prime luci del 30 aprile 1945 e i loro cadaveri finirono all’obitorio comunale fra quelli dei numerosi fascisti soppressi in quei giorni. A metà degli anni cinquanta la sentenza di un tribunale della Repubblica Italiana, stabilì che la defunta Luisa Manfrini (in arte Luisa Ferida) non si era macchiata di alcun reato politico, il che permise all’anziana madre di ottenere una pensione in quanto “unico familiare supersite di una vittima di guerra”. A carico di Osvaldo Valenti c’erano solo l’arruolamento volontario e la sua troppa ingenuità, con ogni probabilità l’amnistia Togliatti avrebbe prosciolto anche lui. L’ex- capo partigiano Giuseppe Marozin detto Vero (che peraltro alla fine del 1945 era stato anche ferito in un attentato da parte di ex- partigiani comunisti rivali) fu riconosciuto responsabile della morte dei due attori ma non perseguito in quanto tale “atto di guerra” rientrava ampiamente nell’amnistia Togliatti. Del presunto tesoro della X^ M.A.S. smurato e asportato da ignoti partigiani, rimasero solo i sei bauli vuoti.
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Mino Doro: Abbastanza noto negli anni ’30 e ’40 in ruoli di attor giovane o coprotagonista pur senza divenire mai un nome di primo piano, l’attore veneziano Mino Doro (all’anagrafe Erminio Napoleone Gioanni Doro, Conte di Costa di Vernassino) fu amico personale di Freddi e Valenti, nonché un fascista convinto. Fece una piccola partecipazione in Harlem interpretando uno dei guardaspalle del gangster Chris Sherman. Dopo l’armistizio aderì alla R.S.I. e tornò nella sua città natale, recitando in alcune delle pellicole girate al Cinevillaggio allestito da Freddi. Al termine del conflitto venne accusato di aver fatto propaganda fascista e persino di essere stato un confidente dell’O.V.R.A. ma in virtù dell’amnistia voluta da Togliatti fu presto scagionato anche se non ripudiò mai la sua fedeltà al regime fascista. Ormai ultraquarantenne, molto ingrassato e afflitto da una precoce calvizie, tra l’inizio degli anni ’50 e la fine degli anni ’60 recitò piccoli ruoli da caratterista in un gran numero di film. A volte si prestò a brevi comparsate in uniforme fascista non prive di una certa autoironia (nel film Tutti a casa fu chiamato dal regista Luigi Comencini ad interpretare il maggiore Nocella, tronfio e ridicolo ufficiale repubblichino che tenta di convincere i due sbandati Innocenzi e Ceccarelli a ripresentarsi al distretto militare). Nel 1972 si sposò trasferendosi con la moglie in Paraguay. Fece ritorno in Italia solo pochi anni prima di morire.
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Amedeo Nazzari: L’attore più rappresentativo del cinema di regime, definito dallo stesso Mussolini l’incarnazione perfetta del nuovo eroe nazionale fascista, fu sorpreso dall’armistizio dell’8 settembre 1943 nella zona dei Castelli Romani dove si stava girando il film La donna della montagna. Quel giorno le riprese di alcune scene in esterni a Frascati furono bruscamente interrotte dal devastante bombardamento aereo alleato contro il Q.G. del feldmaresciallo Kesselring, che distrusse quasi completamente l’abitato, uccidendo seimila civili italiani e centinaia di soldati germanici. Maestranze e attori in preda al panico cercarono scampo disperdendosi nella campagna circostante. Nazzari salvò a stento la vita alla protagonista femminile del film, l’attrice Marina Berti, raggiungendo poi Roma con mezzi di fortuna e con ancora indosso il costume di scena. Trascorse relativamente al sicuro il periodo dell’occupazione nazista senza compromettersi con Salò. Dopo la liberazione di Roma offrì i suoi servigi come ufficiale del Genio all’esercito cobelligerante ed agli stessi americani chiedendo di essere paracadutato oltre le linee, ma ne fu sbrigativamente dissuaso. Nel 1946 pagò dazio al nuovo potere antifascista interpretando il ruolo di un eroico comandante partigiano nel film Un giorno nella vita. Dopo una sfortunata parentesi lavorativa in Argentina, dove per ottenere giustizia contro un impresario truffaldino dovette rivolgersi addirittura ad Evita Peròn, alla fine degli anni ’40 conobbe una rinnovata popolarità in Italia tra il pubblico femminile. La sicurezza economica gli fu assicurata dai lacrimosi melodrammi interpretati in coppia con la prosperosa attrice di origine greca Yvonne Sanson. Negli anni ’50 e ’60, rarefacendosi i ruoli da protagonista, accettò di figurare in partecipazioni speciali, interpretando spesso ruoli da valoroso ufficiale, integerrimo poliziotto o incorruttibile funzionario in film di argomento bellico o comunque ambientati durante il ventennio fascista, richiamandosi così in qualche modo ai ruoli da eroe italico tutto d’un pezzo interpretati nelle pellicole anteguerra. Negli anni ’70 recitò in una puntata dell’Ispettore Derrick, in alcune opere teatrali trasmesse dalla RAI-TV e fu testimonial del bagnoschiuma Pino Silvestre e dell’aperitivo Biancosarti negli spot pubblicitari di Carosello, seppur costretto da una grave insufficienza renale a frequenti dialisi che negli ultimi anni di vita lo obbligarono a diradare le apparizioni pubbliche.