RIPOSTO NUOVAMENTE IL TESTO SPERANDO SIA PIU' LEGGIBILE, MI SCUSO PER L'INCONVENIENTE
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DJAMILA, L’UNICA DONNA LIBICA IN BENGASI
Come già detto in precedenza il film BENGASI è pervaso sotto traccia da un fortissimo sentimento proto-femminista, a cominciare dalla dedica inserita nei titoli di testa, dove vengono riconosciute apertamente alle donne italiane le sofferenze e i lutti dovuti alle vicende belliche. Nella pellicola risulta evidente che nonostante la propaganda eroica voluta dal regime fascista, i protagonisti maschili sono solo personaggi di contorno ormai svirilizzati rispetto alle donne che – nessuna esclusa – di fronte al trauma della sconfitta militare e dell’occupazione britannica sono costrette probabilmente per la prima volta nella loro vita a prendere l’iniziativa, trasformandone in positivo il carattere e forgiandolo impensabilmente. Ciò accade a tutte le donne italiane che appaiono nel racconto corale, dalla fatua consorte ungherese del capitano Berti alla giovane dottoressa in chimica Giuliana; dalla prostituta redenta Fanny alla vecchia moglie del colono veneto. Perfino le suore ospedaliere di Bengasi subiscono una evoluzione patriottica nel corso del film e davanti alle sofferenze della popolazione civile italiana organizzano una mensa popolare. Ma esse sono tutte bianche e dunque solidali con i colonizzatori italiani (loro padri, fratelli, mariti o figli) e con le relative autorità politico-militari. E’ il caso dunque di esaminare accuratamente anche l’evoluzione caratteriale del personaggio della cameriera Djamila, unica donna musulmana autoctona presente in una pellicola totalmente ambientata nella città libica.
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Bisogna tener conto che nonostante la decantata cittadinanza italiana speciale concessa dal 1939 ai sudditi libici su impulso del governatore Italo Balbo, essi rimanevano cittadini di seconda classe destinati a convivere pacificamente accanto alla popolazione italiana ma a non mescolarsi con essa, principalmente a motivo della religione islamica, tanto da essere soggetti non al codice civile italiano ma a speciali tribunali religiosi autorizzati dal regime, che però regolavano le controversie tra cittadini libici secondo i dettami della Sharia. Dunque anche tra i libici più affidabili e favorevoli alla modernizzazione portata dalla presenza italiana, come i sottufficiali indigeni delle FF.AA. o i dipendenti nativi degli apparati burocratici coloniali, la figura femminile rimase strettamente legata ai dettami coranici, rinchiusa nelle quattro mura della casa paterna o del marito, e comunque velata e lontana dagli sguardi degli “infedeli” italiani. Nei pochi mesi intercorsi tra la concessione della cittadinanza e l’entrata in guerra dell’Italia, il PNF organizzò però un proprio clone libico su base tribale per iscrivervi e controllarvi i capotribù fedeli e i capofamiglia come embrione di rappresentanza politica in vista della futura integrazione dei libici negli organi di rappresentanza politica fascista e del sistema bicamerale italiano, basato sulla Camera (dei Fasci e delle Corporazioni) e sul Senato del Regno. A sua volta l’ONB creò nella quarta sponda una copia libica della GIL, la Gioventù Musulmana del Littorio – della quale tra gli altri fece parte anche il giovane Muammar Gheddafi – e che invece del fez nero aveva come copricapo la tachia bianca. Viste le forti resistenze di carattere religioso e patriarcale l’attività dei fasci femminili in favore delle neo-cittadine libiche fu forzatamente ridotta al minimo, ma vi furono alcuni corsi di primo soccorso ed economia domestica volti a formare aiuto infermiere e collaboratrici familiari, la partecipazione fu però per forza di cose assai ridotta.
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Altro elemento importante da considerare è il fatto che al momento della realizzazione di BENGASI la priorità era dare dei sudditi libici una immagine di totale fedeltà alla monarchia ed al regime, cosa che in quel momento non rispondeva totalmente alla realtà. Nel film vediamo ritratti numerosi cittadini libici – tutti uomini – più o meno inseriti a vario titolo nella vita della città “italiana” e riconoscibili grazie all’abito tradizionale o alla tachia bianca o rossa, generalizzata come copricapo islamico, ma tutti apertamente fedeli ai colonizzatori italiani e ostili agli occupanti britannici.
- Le Guardie Comunali indigene di Bengasi pattugliano in uniforme la città insieme alla PAI, ascoltano il notiziario EIAR dagli altoparlanti mescolati alla folla di italiani, prestano servizio nel palazzo del Comune.
- I civili libici assistono all’esodo dalla città degli abitanti italiani aiutandoli fattivamente e auspicandone il ritorno o quantomeno osservano dignitosamente l’ingresso degli occupanti britannici senza prendere parte per questi ultimi.
- L’iconica scritta CI STARETE POCO E CI STARETE MALE viene tracciata in sfida agli inglesi su un muro di Bengasi, non da un italiano ma da un giovane balilla libico.
- Durante la cerimonia del passaggio dei poteri tra italiani e britannici il Podestà raduna nel suo ufficio i capi tribali ed altri notabili indigeni (alcuni in abiti europei) assicurando il rapido ritorno della sovranità italiana. Tutti lo salutano romanamente, ma a parlare per tutti è poi l’Imam, l’autorità religiosa islamica riconoscibile dal peculiare turbante bianco. Egli si esprime senza mezzi termini a favore degli italiani con la frase: “Non dimenticheremo mai, Signor Podestà, quello che l’Italia ha fatto per noi”.
- Uno degli uomini segretamente coinvolti nella rete Stay-Behind organizzata dagli italiani a Bengasi è un ex- sottufficiale indigeno del RCTL che ha combattuto a fianco degli italiani, lo stesso arabo che in precedenza ha aiutato a fuggire dagli inglesi il mutilato capitano Berti. Proprio la cattura del libico (che lealmente non tradisce i membri della resistenza fascista) da parte degli MP mette a rischio l’attività della radio clandestina gestita da Berti e spinge l’ing. Filippo a compromettersi, finendo per essere smascherato dal nemico come spia del SIM.
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Osservando la figura di Djamila (o Giamila come viene chiamata dai coniugi Berti suoi datori di lavoro seguendo l’uso fascista di italianizzare grafia e fonetica dei nomi stranieri) possiamo notare come la giovane libica pur trovandosi in una posizione servile nei confronti della famiglia dell’ufficiale sia relativamente “civilizzata” rispetto alle sue connazionali sottoposte alla legge islamica, probabilmente grazie al prolungato contatto con italiani benevoli in un ambiente cittadino di tipo europeo. Parla correttamente l’italiano (seppure con un forte accento arabo dovuto al fatto che nella pellicola non è doppiata ma parla con la sua voce autentica senza declinare i verbi all’infinito), si prende cura della casa e del piccolo Sandro, possiamo ipotizzare che abbia frequentato a tale scopo uno dei corsi organizzati dal PNF. Il suo nome è certamente musulmano (nonostante la presenza di religiosi cattolici in territorio libico fin dal 1911, le conversioni dall’Islam furono praticamente nulle) ma ella veste una sobria e castigata uniforme da cameriera con tanto di cuffia bianca che lascia in parte scoperti i capelli, è solo di poco più coperta rispetto a una qualsiasi cameriera italiana degli anni quaranta. Ma nulla lascia pensare che abbia in qualche modo abiurato i dettami della sua fede religiosa. La sua presenza a servizio dei bianchi che in altra situazione sarebbe stata fortemente disapprovata dai maschi della famiglia di origine è forse riconducibile allo status militare di Berti. Il personaggio interpretato in BENGASI da Fosco Giachetti è infatti un ufficiale del Regio Corpo Truppe Coloniali del quale corpo all’inizio della pellicola veste l’uniforme. Si ricollega direttamente al personaggio interpretato dallo stesso attore a metà degli anni trenta nel film SENTINELLE DI BRONZO, che era un comandante di Meharisti in lotta coi ribelli senussiti nel deserto libico. Il capitano Berti nella finzione cinematografica di BENGASI ha probabilmente partecipato anche al conflitto italo-etiopico come comandante di truppe coloniali, dato che la sua casa è arredata con numerose prede belliche provenienti dal l’Africa Orientale (vario vasellame africano, zanne di elefante, nonché armi tipiche dei guerrieri abissini, tra cui zagaglie, scudi, spade falciformi e fucili ad avancarica), venendo poi richiamato nel Regio Corpo Truppe Libiche nel giugno 1940. Visti i precedenti e la diffusa usanza di sottufficiali indigeni colpiti a morte di affidare i figli alle cure del loro comandante italiano, possiamo pensare che il padre di Djamila fosse uno dei Meharisti del capitano Berti, è solo una ipotesi ma legittimerebbe la presenza della ragazza nella casa dell’ufficiale italiano. Il personaggio di Djamila è interpretato nel film da una giovane – purtroppo ancora non identificata – probabilmente una dei cittadini libici portati a Napoli per la Mostra delle Terre d’Oltremare tenutasi nel 1940 e rimasti bloccati nella penisola dagli eventi bellici. Molti di costoro parteciparono poi come comparse in film italiani e tedeschi a Cinecittà (come molti altri africani provenienti dall’A.O.I. e un centinaio di Lancieri Vicereali indigeni della PAI). Non conosciamo il suo destino alla fine del conflitto. Nel film compare brevemente e parla poco, anche se in italiano corretto. Oltre che donna di servizio dei Berti è anche amorevole tata del piccolo Sandro, ed è proprio in un apparentemente innocente scambio di battute col bambino che gli sceneggiatori di BENGASI inseriscono un esempio del dualismo insito nella presenza coloniale italiana in Libia. Si tratta di un lampante riferimento al differente trattamento subito dagli indigeni sotto Graziani / Badoglio (repressione indiscriminata, massacri e impiccagioni) e sotto Balbo (integrazione, collaborazione, rispetto dell’identità islamica). Non sappiamo se lo script intendesse sottintendere un certo larvato antifascismo/anticolonialismo o fosse solo una glorificazione postuma della linea politica più accomodante sostenuta dal defunto Gerarca Trasvolatore rispetto ai bagni di sangue degli ottusi generali sabaudi. Comunque vale la pena di riportarlo integralmente perché getta un’ombra sulla colonizzazione italiana, ondeggiante tra benevola civilizzazione e spietata repressione, mettendo in bocca a un bambino innocente e inconsapevole pesanti frasi, probabilmente ascoltate in famiglia:
Sandro: (RIVOLGENDOSI AL CAP. BERTI)Uh, papà come sei brutto!
Djamila:Dici brutto al tuo papà? Sei cattivo.
Sandro:No io sono buono. Sai papà che Giamila è cattiva?
Cap. Berti:Davvero?
Sandro:Si, mi fa impazzire, non mi lascia mai giocare quando voglio io. Ma è vero che ora chiami due guardie e un Carabiniere e la fai arrestare?
Cap. Berti:Si, ma fai il bravo ora… (SI ALLONTANA)
Sandro: (RIVOLGENDOSI A DJAMILA) Vedi Giamila? Adesso papà chiama due guardie, ti fa arrestare e portare in prigione…
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Dopo la tragica morte del piccolo Sandro in seguito a un mitragliamento di aerei inglesi, Djamila resta fedelmente a servizio della sua padrona, in casa della quale durante l’occupazione nemica si radunano a consumare i magri pasti altri abitanti del palazzo, tra cui anche Giuliana, stabilitasi nell’appartamento vuoto dell’ing. Filippo (che fa il doppio gioco mostrandosi amico degli inglesi). Ed è sempre Djamila ad accogliere in casa l’inviato della Croce Rossa, venuto ad annunciare che il Capitano Berti ormai prigioniero giace in ospedale, mutilato di un braccio. Si tratta di brevi comparsate in momenti nei quali parla a monosillabi. Ma significativa è anche la sua scomparsa nella versione originale della pellicola. Verso la fine del film le truppe britanniche prima di ritirarsi da Bengasi saccheggiano negozi e case private asportando ogni genere di masserizie. Quando vede avvicinarsi la soldataglia in cerca di donne e di bottino, Djamila volutamente attira la loro attenzione, esce silenziosamente sul pianerottolo buio chiudendosi alle spalle la porta dell’appartamento, salvando così la signora Berti e le altre italiane lì rifugiate da una probabile violenza carnale, e segue i nemici ebbri di alcol verso un destino non bene specificato. Perderà solo la sua purezza (il bene più grande per una musulmana) o anche la sua vita? Il film non ce lo dice esplicitamente, essendo la censura dell’epoca assai restia a esplicitare gli stupri di guerra, ma possiamo dare una duplice interpretazione: Djamila semplicemente scompare, forse si sacrifica per mostrare una consapevole adesione dei sudditi libici ai valori dei colonizzatori italiani come voleva la vulgata del regime, o forse – cosa ancor più dirompente all’epoca – compie il suo gesto per una istintiva forma di solidarietà femminile capace di travalicare tutte le barriere etniche e religiose, proteggendo quelle donne italiane con le quali ha fino ad allora condiviso tante sofferenze e che ormai considera semplicemente sorelle. Mi piace pensare che la motivazione del personaggio sia la seconda. Il personaggio di Djamila in seguito alle varie censure politiche subite durante e dopo la guerra è stato molto tagliato, eliminandone totalmente l’epilogo, stessa sorte hanno subito altri personaggi libici, espungendo in gran parte le loro dichiarazioni di fedeltà all’Italia per non irritare troppo i vincitori inglesi. Che poi nell’immediato dopoguerra ottennero per qualche anno l’occupazione militare delle basi aeree libiche e lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi portando al potere con un referendum farsa Idris El Senussi come monarca-fantoccio prono ai voleri di Londra come riconoscimento postumo per la collaborazione con le truppe britanniche dei briganti-contrabbandieri senussiti, acerrimi nemici degli italiani fin dagli anni venti.