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Discussione: Film: BENGASI

  1. #31
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    Molto interressante
    Mio nonno tra i primi bersaglieri entrati a Trento liberata

  2. #32
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    Sono un fan sfegatato, probabilmente è la migliore pellicola bellica italiana e forse mondiale! Io lo vidi la prima volta molti anni or sono ma ogni volta che lo rivedo ci trovo qualcosa di nuovo. E la vicenda della famiglia di coloni mi fa ancor oggi piangere come un vitello nonostante il mio cinismo cronico...
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  3. #33
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    Rivisto ieri, splendido film del quale si scopre sempre qualcosa di nuovo! Sono venuto recentemente a sapere che Amerigo Dumini, l'assassino di Matteotti, è annoverabile come consulente ufficioso del film, dato che lo sceneggiatore poté attingere a una sua testimonianza autografa e forse lo invitò a Cinecittà durante le riprese di alcune scene, specie le sequenze poco prima della liberazione di Bengasi, quando gli inglesi arrestano i maggiorenti italiani e nottetempo si apprestano a sopprimerli sbrigativamente fra i ruderi di una casa bombardata. E' un fatto vero,accaduto al Dumini, che scarcerato da Mussolini dopo una breve reclusione, nel 1941 era a Derna titolare di una piccola ditta di trasporti e durante l'invasione inglese capeggiò una rete "stay behind" fascista. Fucilato con altri residenti italiani come spia fu dato per morto ma sopravvisse e rimpatriò in Italia passando per la Tunisia.
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  4. #34
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    Anche la deliberata distruzione con esplosivo di tutte le infrastrutture civili delle città libiche occupate da parte inglese prima di ritirarsi, fu meticolosamente riprodotta nel film ed è totalmente vera. Essa fu attuata da appositi reparti di demolizione dell'esercito britannico in ottemperanza al piano segreto "Micabwer" voluto da Churchill per rendere impossibile la permanenza di civili italiani in Libia e poterla incamerare nell'impero con la complicità dei ribelli senussi loro alleati.
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  5. #35
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    Carri armati italiani M 13/40 del 4° Rgt. Cr. di Roma decentrati sotto gli alberi nei dintorni di Cinecittà durante la lavorazione del film Bengasi.
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  6. #36
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  7. #37
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    Presto posterò altri interessanti dati sui velivoli SM 82 utilizzati nelle riprese del film.
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  8. #38
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    UN “REGIO” MATILDA A BARI NELL’ESTATE 1942
    Torno ancora sul film BENGASI in quanto già in passato parlai dei carri armati inglesi di p.b. prestati dal C.S.E.M. per la realizzazione delle scene di combattimento nel deserto visibili all’inizio della pellicola e del fatto che in mancanza di autentici Matilda fu necessario travestire un certo numero di carri M italiani rivestendoli con una sovrastruttura di legno appositamente realizzata per farli assomigliare a quei carri britannici. Ora è stata pubblicata dalla rivista Storia Militare una eccezionale foto che mostra il primo (e probabilmente unico) vero Matilda di p.b. effettivamente trasferito dalla Libia in Italia via nave per essere esaminato dai nostri tecnici. La foto scattata nel porto di Bari risale all’estate del 1942, quando le riprese di BENGASI erano terminate da tempo. Ne approfitto però per esaminare anche altre tematiche interessanti presenti nella pellicola.
    ________

    UN FILM PROTOFEMMINISTA CON CONSULENTI DI ECCEZIONE

    La dedica alle donne italiane posta all’inizio del film evidenzia il fatto che BENGASI è un film contraddittorio e con più piani di lettura sovrapposti. Non solo è allo stesso tempo italico-mammista e proto-femminista, ma pur auspicando la vittoria finale dell’Asse, non può nascondere la sproporzione delle forze in campo e non nasconde un forte presagio di sconfitta. Tutti i protagonisti maschili portatori del tradizionale stereotipo dell’eroe italico e fascista tutto d’un pezzo infatti, seppur ancora presenti nella narrazione per volontà del regime, vanno incontro a un destino di morte, distruzione e umiliazione. Ciò preannuncia inconsciamente nella finzione cinematografica la cupa sorte che si abbatterà realmente sulla nazione italiana da lì a pochi anni, dopo l’armistizio del settembre 1943. Nella pellicola il bilancio è desolante, con modalità diverse non si salva nessuno. Il colono Piero è trucidato dagli australiani ed anni di duro lavoro in Africa vengono vanificati, suo figlio Giovanni è ormai un cieco di guerra incapace di aiutare la vecchia madre, l’ingegner Filippo è riconosciuto dagli inglesi come spia del S.I.M. e viene sbrigativamente fucilato, il capitano Berti sopravvive e vede la liberazione della città, ma è ormai gravemente mutilato e ha perso il figlioletto Sandro in un bombardamento. Nel film tocca allora alle donne portare il fardello più pesante della guerra, sopportare le sofferenze che hanno strappato i loro sogni e rimboccarsi le maniche per andare avanti in qualche modo e trovare un segno di speranza nel futuro e redenzione. In un modo o nell’altro l’occupazione inglese di Bengasi ha cambiato tutti i personaggi femminili dando loro una nuova consapevolezza (come nella realtà toccherà proprio alle donne italiane darsi da fare, prima per sopravvivere agli orrori bellici e poi partecipare in prima persona alla difficile ricostruzione del Paese). Elena, la fatua moglie ungherese di Berti trova la forza di ricostruire un nuovo rapporto col marito superando le passate incomprensioni e il dolore per la morte del figlio. La giovane Giuliana, troppo tardi consapevole dell’eroismo di Filippo che era arrivata a disprezzare considerandolo un collaboratore degli inglesi, vivrà nel ricordo del suo amore. La prostituta redenta Fanny torna a farsi chiamare Maria e aspetterà la fine della guerra per sposare il suo bersagliere toscano. La moglie del colono che per tutto il film ha vagato in cerca del figlio militare, tornata nel podere di famiglia nel Gebel trova il marito ucciso, la casa saccheggiata, le coltivazioni devastate e fatalmente tornerà in Italia col figlio inabile. Persino le suore di Bengasi, dopo essere uscite dal convento per servire negli ospedali e nella mensa popolare allestita dal Podestà, diventano meno beghine dopo aver partecipato in prima persona alle sofferenze della popolazione civile della città.
    _____

    Alla dedica segue un cartello coi nomi dei molti consulenti militari e civili attivi nella realizzazione della pellicola, tra i quali troviamo il gerarca fascista (e per un certo periodo segretario del P.N.F.) Carlo Scorza, il notabile libico Alì Bukeila (che fece una breve apparizione in BENGASI e durante la guerra lavorò come speaker e propagandista in lingua araba alla sezione esteri dell’E.I.A.R. che realizzava trasmissioni internazionali mediante le antenne a grande potenza della stazione emittente di Prato Smeraldo, alla periferia di Roma), e perfino il giornalista e scrittore di origine americana Giorgio Barnes (perfetto conoscitore del mondo anglosassone quanto dell’alta società romana, poi antifascista militante nel P.C.I. clandestino e nel dopoguerra fondatore del quotidiano Paese Sera).
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    IL RAPPORTO TRA FILIPPO E GIULIANA
    L’incontro tra i personaggi interpretati da Amedeo Nazzari e Vivi Gioi avviene durante le concitate fasi dello sgombero di Bengasi, quando l’ingegnere (in realtà un ufficiale di S.M. sotto copertura incaricato di approntare una rete Stay-Behind dietro le linee nemiche con l’aiuto di italiani e libici) risale in senso contrario la lunga colonna di profughi civili che si allontanano dalla città con ogni mezzo disponibile. Filippo è testimone dell’atterraggio fortunoso di un trimotore italiano SM.82 inseguito e mitragliato da caccia inglesi. Poco dopo prende a bordo del suo furgoncino Giuliana, che si trovava a bordo del velivolo proveniente dall’A.O.I. e si ostina a recarsi a Bengasi nonostante il pericolo incombente. Il personaggio della giovane donna viene subito delineato dal primo dialogo tra i due:

    • Eravate sull’aereo attaccato?
    • Ci siamo salvati per miracolo!
    • Avrete avuto una bella paura!
    • Eh, ci sono abituata alla guerra, vengo dall’Africa Orientale, dall’Asmara.
    • Dall’Asmara? E che ci facevate laggiù?
    • Dottoressa in Chimica, nell’Istituto per la ricerca del sottosuolo.
    • Perbacco! Da molti anni?
    • Ci sono andata appena laureata.

    ___

    Successivamente, nell’atrio di un albergo di Bengasi in procinto di essere requisito dal comando inglese, vediamo Giuliana compilare sull’apposito modulo delle Regie Poste un telegramma alla madre, sul quale oltre al testo tranquillizzante
    COSTRETTA RIMANERE BENGASI - NON PREOCCUPARTI - SCRIVERO’ - GIULIA
    possiamo leggere chiaramente anche l’indirizzo della destinataria
    ADELAIDE LANDINI, CHIAIA 115, NAPOLI
    Dopodiché la giovane donna viene raggiunta dall’ingegnere, che le offre di trasferirsi in un appartamento sicuro nella sua disponibilità. L’alloggio non a caso si trova nello stesso palazzo dove abita la famiglia del capitano d’artiglieria Enrico Berti, un’altro dei membri della rete Stay-Behind italiana. Nelle sue parole Giuliana mostra uno spiccato spirito di indipendenza ma non nasconde di fidarsi già completamente di Filippo:

    • Vi ho incontrata in mezzo al deserto, sento una certa responsabilità, insomma ho il dovere di occuparmi di voi.
    • Io credo di essere capace di pensare a me stessa.
    • Allora proprio non vi fidate di me?
    • Ebbene si, ho fiducia in voi (…)
    • Prendete, sono le chiavi di un appartamento abbandonato (…) ve lo cedo, ma ad un patto, che restiate in casa il più possibile, non vorrei che gli inglesi… di solito non hanno molto buon gusto, ma se qualcuno facesse eccezione?
    • Scoprirebbero a loro spese che non è molto facile infastidirmi!


    ___

    Durante la dura occupazione inglese della città, Giuliana stringe amicizia con la moglie ungherese di Berti, ancora sconvolta dalla morte in un mitragliamento aereo del figlioletto Sandro e angosciata per la sorte del marito Enrico, che pur mutilato di un braccio è fuggito dalla prigionia dandosi alla macchia. Proprio in casa Berti si presenta Filippo – che a insaputa di tutti si è infiltrato come interprete nel comando inglese per ottenere informazioni militari utili alle truppe dell’Asse – e confessa a Giuliana l’intenzione di sposarla dopo la guerra, donandole come pegno d’amore un portasigarette con carillon, che suona una nota melodia napoletana, altro evidente rimando alle origini partenopee della ragazza, che oramai ricambia apertamente il sentimento del corteggiatore.
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    In seguito al fermo di un arabo libico che fa parte della cellula di resistenza fascista l’ing. Filippo, il capitano Berti e l’operatore della radio clandestina italiana (che altri non è se non il sottufficiale marconista della Regia Aeronautica visto all’inizio del film a bordo del trimotore) sfuggono rocambolescamente ad una irruzione degli MP inglesi rifugiandosi tra le macerie di una casa bombardata, dove potrebbero passare al sicuro l’ultima notte prima della definitiva ritirata degli inglesi e l’arrivo in città delle truppe italo-tedesche liberatrici. Ma Filippo, ormai disprezzato dagli abitanti di Bengasi che lo ritengono a torto un amico degli inglesi, è tormentato all’idea che anche Giuliana possa considerarlo un collaborazionista. Approfittando dell’oscurità lascia il suo rifugio sicuro per raggiungerla, ma dopo un breve incontro chiarificatore sulle scale del palazzo, viene arrestato dal nemico che ormai è a conoscenza della sua vera identità. Verrà sbrigativamente fucilato prima dell’alba e Giuliana, consapevole che il suo amato si è sacrificato eroicamente per contribuire alla vittoria delle armi italiane, pur afflitta dal dolore, vivrà mantenendosi fedele al ricordo di lui.
    _________

    BENGASI NON RISPONDE!
    Nelle sequenze sopracitate emergono molti eventi reali, o almeno ispirati a fatti reali e realmente accaduti.

    1. Il fatto che Giuliana – interpretata dall’attrice Vivi Gioi – compaia per la prima volta come passeggera civile a bordo di un velivolo da trasporto militare in arrivo a Bengasi proveniente dall’A.O.I. è assolutamente corretto e credibile. Dopo l’entrata in guerra dell’Italia il 10 giugno 1940, l’Impero era rimasto totalmente isolato dalla madrepatria e il Viceré Amedeo d’Aosta aveva richiesto urgentemente l’istituzione di un collegamento aereo regolare per far giungere armi moderne, delle quali nelle nostre colonie c’era forte carenza. I primi voli vennero improvvisati con trimotori a grande autonomia SM.83 e SM.75 affidati ad esperti piloti civili della LATI. Ma a partire dal 27 luglio 1940 si effettuarono voli regolari con cadenza pressoché giornaliera, utilizzando i nuovi e ben più capienti trimotori da trasporto SM.82 (appositamente dotati di capienti serbatoi supplementari in fusoliera per l’olio e il carburante). Il vitale collegamento aereo sulla rotta Roma-Bengasi-Asmara e ritorno comportava condizioni ambientali fortemente avverse e lunghi voli sul territorio nemico, effettuati di notte a luci spente mantenendo il silenzio radio, per eludere i caccia britannici stanziati in Egitto e Sudan. Tale delicato compito fu affidato al 149° Gruppo Trasporti, basato a Roma-Ciampino e composto dalle squadriglie 607a, 608a, 609a su una linea di volo totale di appena 21 velivoli. Il personale navigante apparteneva ai Servizi Aerei Speciali (S.A.S.) ovvero all’organismo militarizzato che dopo l’entrata in guerra dell’Italia aveva mobilitato a favore della Regia Aeronautica le risorse delle tre compagnie aeree nazionali operanti in tempo di pace (Ala Littoria, LATI, Avio Linee Italiane). Impiegando ogni volta 6-8 giorni tra andata e ritorno, si effettuarono circa 330 missioni tra luglio 1940 ed aprile 1941, trasportando in A.O.I. armi, munizioni, medicinali, materiali vari, pezzi di ricambio per automezzi ed aerei, perfino 51 caccia biplani Fiat CR.42 smontati ed imballati. Fu valutata attentamente la possibilità di imbarcare nella capace stiva del trimotore anche un carri armati L3/35, sia nella versione con mitragliatrici binate che in quella lanciafiamme, ma la cosa non ebbe seguito per il rapido deteriorarsi della situazione militare in loco. Nei voli di ritorno venivano abitualmente riportati in Italia documenti ufficiali, sacchi di posta, feriti o malati gravi, talvolta anche passeggeri civili (ma questi ultimi erano evacuati solo previa autorizzazione scritta delle autorità militari). Le perdite di velivoli per offesa aerea nemica o per incidenti tecnici durante il volo vi furono, per quanto estremamente limitate. Come evidenziato dalle foto d’epoca gli SM.82 utilizzati nel ponte aereo erano ancora in configurazione da trasporto civile, privi delle installazioni difensive e con la livrea mimetica a larghe bande sfumate adottata sui plurimotori italiani all’inizio del conflitto. Per le riprese della pellicola fu invece utilizzato un diverso SM.82, con torretta armata e dipinto in livrea continentale verde oliva. Come visibile nella sequenza di volo iniziale e durante il mitragliamento da parte dei caccia inglesi, esso era contraddistinto dalla sigla S.A.3 dipinta in bianco sulla fusoliera. S.A. indicava i velivoli appartenenti alla Sezione Autonoma, una unità addestrativa direttamente dipendente dal Comando S.A.S. (Servizi Aerei Speciali). Principalmente essa si occupava di qualificare i nuovi equipaggi destinati agli SM.82 e prepararli ad effettuare i voli a grande autonomia, ma talvolta fungeva da reparto complementare, fornendo temporaneamente i suoi uomini e aerei alle varie squadriglie S.A.S. operative. Pur essendo stanziata all’aeroporto Roma-Littorio (nel dopoguerra noto come Roma-Urbe), saltuariamente effettuava anche speciali voli di collegamento dal territorio metropolitano verso la Russia o l’Egeo. Ad impersonare loro stessi nel film come equipaggio del trimotore erano i membri di un autentico equipaggio del S.A.S. protagonista di un rocambolesco episodio reale. L’atterraggio di fortuna inscenato nella finzione cinematografica rispecchia – per quanto in modo assai edulcorato – la vicenda loro accaduta durante l’evacuazione di Bengasi. In vista della ritirata delle nostre truppe, gli ultimi due SM.82 del S.A.S. ancora presenti sul campo trampolino perché impegnati nel ponte aereo con i territori dell’Impero decollarono diretti a Tripoli carichi all’inverosimile di civili, mettendoli in salvo all’ultimo momento. Ma un terzo velivolo, contraddistinto dalla matricola MM. 60409, giunse inaspettato da Asmara proprio all’alba del 6 febbraio 1941 e dovette effettuare un atterraggio di emergenza a Bengasi perché gravemente danneggiato da mitragliamento aereo nemico. L’equipaggio del trimotore per non cadere in mano agli inglesi si mise in borghese, nascondendosi tra la popolazione civile della città. Il sottufficiale marconista entrò effettivamente a far parte di una rete di resistenza italiana durante l’occupazione britannica, in qualità di operatore di una radio clandestina, similmente a come si narra nel film.
    2. Durante il primo incontro con Filippo, Giuliana si presenta come una laureata in chimica, impiegata all’Asmara in un generico Istituto di ricerche nel sottosuolo. Anche questa è una situazione reale. Dopo la proclamazione dell’Impero italiano in Africa Orientale, avvenuta per volontà di Mussolini il 9 maggio del 1936, la propaganda fascista mirava a dipingere l’Etiopia come un potenziale eldorado, pronto ad elargire le sue ricchezze ai nuovi colonizzatori. Dunque le attenzioni di autorità scientifiche, enti di ricerca e gruppi economici nazionali si accentrarono sullo sfruttamento dei nuovi territori dell’A.O.I. sperando di trovarvi ricchi giacimenti di materie prime, indispensabili alla rachitica industria autarchica italiana. Tra il 1936 ed il 1940 nei nostri possedimenti nel Corno d’Africa operarono oltre al C.N.R. e all’E.N.I. molte società private, titolari di concessioni per prospezioni geologiche, ricerca di petrolio, carbone, oro, argento, pietre dure semipreziose, fosfati per agricoltura e molto altro. Con pochi risultati pratici in realtà, ma fatalmente disperdendo le poche risorse a disposizione dell’Italia e distogliendo tecnici e apparecchiature dalla ben più promettente ricerca petrolifera in Libia, tanto che solo nel 1939 il pozzo sperimentale n°1 fu impiantato tardivamente nel deserto libico presso il confine con l’Egitto e cessò subito l’attività al momento della nostra entrata in guerra. L’attività estrattiva era stata intrapresa su scala ridotta e in modo semiclandestino dal grande geologo, esploratore ed alpinista Ardito Desio, su espressa richiesta di Italo Balbo, allora Governatore della Libia, che dello scienziato italiano fu amico e commilitone negli Alpini durante la Grande Guerra. Tornando al sottosuolo dell’A.O.I. bisogna ricordare anche che archeologi e paleontologi italiani portarono avanti estese campagne di scavo in colonia, oggetto anche di un pregevole lungometraggio documentario realizzato dai cineoperatori dell’Istituto Luce, nonché di molti reportage pubblicati sul Corriere della Sera da un giovane giornalista di nome Dino Buzzati. Dunque la presenza nella sceneggiatura del film di una giovane ricercatrice italiana su un aereo in volo tra Asmara e Bengasi, era perfettamente credibile. Ma da un certo punto di vista era anche dannosa politicamente perché rinfocolava nello spettatore italiano il dolore per il progressivo isolamento e strangolamento dell’Africa Orientale da parte delle truppe britanniche, culminato nella resa del Duca d’Aosta all’Amba Alagi e nella lunga ma vana resistenza del generale Nasi a Gondar. E peggio ancora perché evidenziava che i massimi vertici politici e militari del regime erano entrati avventatamente in guerra, nonostante la nostra grave impreparazione. Ma al tempo stesso quella presenza femminile nella pellicola serviva a connotare positivamente il “costruttivo ed operoso” colonialismo italiano, differenziandolo da quello “rapace e predatorio” degli anglosassoni. La tesi era che grazie al fascismo l’impero italiano era così prospero e ordinato che una giovane donna bianca poteva tranquillamente vivere e lavorare nella lontana Asmara, sentendosi al sicuro e a casa propria come in una qualsiasi città italiana. Come a Roma, a Napoli o a Bengasi (non a caso dal 1939 per volontà di Balbo tutta la Libia era divenuta territorio metropolitano, e gli arabi libici avevano ottenuto formalmente la cittadinanza italiana nel pieno rispetto della loro peculiarità etnica e religiosa). In fin dei conti gli stessi vincitori britannici, una volta occupata Addis Abeba rimasero stupiti e increduli vedendo come il duro lavoro dei nostri umili coloni, avesse trasformata in poco meno di sei anni la capitale etiopica da uno sporco agglomerato di capanne di fango in una moderna e salubre città europea. E furono costretti a mantenere ai loro posti per oltre due anni un gran numero di funzionari e tecnici italiani per la gestione ordinaria e la manutenzione dei servizi pubblici indispensabili a decine di migliaia di residenti bianchi (senza contare strade, ferrovie, fabbriche, scuole e strutture ospedaliere edificate dal regime in tutta l’A.O.I. a vantaggio anche delle popolazioni autoctone). Nulla di comparabile era mai stato fatto dai colonialisti anglosassoni che spadroneggiavano impunemente in gran parte dell’Africa da oltre cent’anni, sfruttando i nativi secondo il rigido dogma vittoriano della superiorità razziale dell’uomo bianco. Semplicemente ai gretti sudditi di Sua Maestà Britannica non era mai venuto in mente che degli europei potessero colonizzare un territorio non per depredarlo ma per andarvi a lavorare in prima persona, come invece avevamo fatto noi.
    3. Il personaggio di Giuliana presenta caratteri particolarmente importanti, anche dal punto di vita sociologico. Come vediamo da numerosi riferimenti sparsi nella pellicola, è di origine napoletana e sua madre vive ancora nella città partenopea (nella realtà l’indirizzo di casa della madre riportato nel telegramma - Chiaia 115 - riveste esso stesso una grande valenza propagandistica dato che è in una zona di Napoli colpita dai primi bombardamenti aerei inglesi). Lei si commuove ascoltando la melodia tradizionale “Funiculì Funiculà” dal carillon regalatole da Filippo, solo perché la associa ai ricordi della sua infanzia, dunque al passato. Ma nel film la sua napoletanità è solo marginale ed incidentale, non concedendo nulla ai consueti stereotipi e luoghi comuni legati al folclore più deteriore. Giuliana è prima di tutto una giovane e moderna donna italiana rivolta al futuro e dunque – implicitamente – fascista. Ciò è spiegabile con la lunga campagna di ingegneria sociale intrapresa dal fascismo per livellare all’interno del regime le differenze sociali e di classe. Tale tentativo fu sostanzialmente un fallimento dovunque, ma ancor più a Napoli, dove da secoli la polarizzazione tra una ridotta aristocrazia parassitaria di stampo spagnolesco-borbonico e una plebe indistinta di disperati, abituati a vivere alla giornata ricorrendo ad ogni espediente lecito o illecito era rimasta immutata – anche sotto il dominio sabaudo – più che in ogni altra zona del nostro meridione. Se il fascismo si era proposto genericamente di creare un uomo nuovo a sua immagine e somiglianza, soprattutto il segretario del P.N.F. Achille Starace, nella seconda metà degli anni trenta si illuse di poter sradicare i caratteri – secondo lui deteriori – della città partenopea, vietando o reprimendo tutti quegli aspetti folcloristici della vita sociale che a parer suo portavano il disprezzo e la commiserazione degli stranieri. Egli voleva tutelare l’immagine della nuova Italia fascista, che dopo la guerra d’Abissinia e le sanzioni internazionali si pretendeva fosse esclusivamente di indole operosa e guerriera, sprezzante dell’ozio e della vita comoda. L’intento vagheggiato era omologare rapidamente Napoli alle grandi città industriali del nord, soprattutto realizzandovi industrie belliche e impianti legati alla sua doppia natura di importante porto militare e commerciale, trasformando così una plebe di lazzari nullafacenti in schiere di docili operai. Da ciò la violenta repressione dell’accattonaggio, del vagabondaggio e della prostituzione nelle zone limitrofe al porto, il silenzio totale sulle degradanti condizioni di vita degli abitanti dei bassi, il tentativo di sradicare definitivamente il dialetto imponendo l’uso in pubblico di una lingua italiana neutra e priva di inflessioni, le sanzioni contro i disoccupati, la progressiva tendenza a scoraggiare il turismo straniero in città – particolarmente quello anglosassone – e a ridurre drasticamente il numero delle guide turistiche e controllandone l’attività, eliminando l’uso diffusissimo di chiedere mance per cantare canzoni napoletane o ballare la tarantella in strada. I pulcinella, i pazzarielli, i posteggiatori (tradizionali suonatori di chitarra o mandolino) erano malvisti e osteggiati, in quanto ritenuti lesivi della dignità e dell’onore nazionale al pari del vero e proprio accattonaggio. Quanto alle molteplici forme di religiosità popolare intrise di isterica superstizione e legate al presunto scioglimento del sangue di San Gennaro, esse sfuggirono alle censure solo perché il vescovo di Napoli avvertì Starace che eliminandole si sarebbe rischiata una rivolta popolare. Questa tendenza, che potremmo definire di normalizzazione e italianizzazione forzata della società napoletana, ebbe effetti rilevanti sulla cinematografia di regime degli anni 30 e 40. L’uso del dialetto nelle pellicole era ristretto a pochi popolarissimi attori dialettali come i De Filippo o Totò, ma solo in innocue commediole ambientate nel deprecato passato prefascista e preferibilmente sotto il dominio borbonico. Quando i film erano ambientati nella Napoli contemporanea, vi si mostravano solo le moderne aree residenziali in stile razionalista o le zone industriali in piena attività, evitando con cura quartieri degradati o ambientazioni pittoresche: niente Vesuvio, niente pizza e niente mandolino. E naturalmente niente camorra. Anche i personaggi, seppure di estrazione popolare, erano costretti a parlare un perfetto italiano. In conseguenza di ciò Giuliana, perfetto contraltare dell’eroe fascista Filippo interpretato da Amedeo Nazzari, diviene un esemplare della donna italiana nuova, cresciuta nel clima del regime. Tale taglio netto con il passato dovuto alla suddetta impostazione ideologica è evidente già nella scelta dell’attrice chiamata ad interpretarla, la bionda e longilinea Vivi Gioi, anche esteticamente agli antipodi rispetto allo stereotipo della bellezza mediterranea. Giuliana è una donna moderna, almeno per quanto il fascismo allora concedeva alla modernità, visto anche l’atteggiamento ondivago e contraddittorio del regime nei confronti dell’emancipazione femminile. In effetti ha potuto studiare e laurearsi in chimica, materia allora generalmente ritenuta non adatta alle donne, come tutti gli argomenti tecnico/scientifici. Ovviamente si presume come dato di fatto implicito che abbia passato la trafila nelle organizzazioni femminili fasciste nell’ambito della O.N.B./G.I.L. e sia stata iscritta al G.U.F. in quanto studentessa universitaria. Pur non mostrandola esplicitamente, la sua adesione al partito unico è molto probabile, e in ogni caso dato il suo comportamento, si adegua con profonda convinzione alla ideologia fascista. Giuliana è una donna libera, indipendente, desiderosa di dare il suo contributo alla Patria, non teme la guerra e affronta coraggiosamente il pericoloso volo aereo verso Bengasi. Appena laureata si è trasferita in A.O.I. ma non passivamente, magari come moglie di un militare, funzionario o colono, dunque obbligata a seguire il coniuge dovunque decida di stabilirsi. E’invece partita per la nuova colonia volontariamente, per insediarvisi in modo stabile e vivere del proprio lavoro. Ed all’Asmara è impiegata come ricercatrice in un importante istituto (che dal nome sembra essere di origine statale o parastatale). Comunque ha un ruolo di grande responsabilità e fin dalle prime battute dimostra di saper trattare gli uomini su una base paritaria e non sentirsi in una posizione subordinata. Da perfetta donna italiana, determinata e talvolta testarda, il vivere per anni fra uomini nel duro ambiente coloniale, se le ha fatto prendere il vizio del fumo, l’ha preservata da ben altri vizi imputati dal regime fascista alle dissolute donne straniere. Giuliana non è fatua e vuota come le americane, non è una adultera seriale come le francesi, e neanche è mascolinizzata come le inglesi. Tiene gelosamente alla sua virtù conformemente alla morale fascista, non per gretto timore dello stigma sociale, ma nella consapevole attesa di voler trovare l’uomo della sua vita, che presto scoprirà essere proprio Filippo. Ma anche in questo caso la giovane donna ha un atteggiamento attivo, non passivo. E quando Filippo la esorta a restare in casa per evitare molestie da parte della soldataglia inglese, il disgusto di lei si tramuta visibilmente in rabbia. Ad un approccio sessuale sgradito da parte dei nemici saprebbe certo reagire e difendersi fino alle estreme conseguenze, anche a costo della vita. Lei stessa taglia corto al riguardo, dicendo che non è facile infastidirla. Anche in questo caso si tratta di una velata allusione a fatti drammaticamente reali avvenuti in quel periodo anche a Bengasi. Ben prima delle donne ciociare violate bestialmente dalle truppe coloniali golliste nel 1944, le prime ad essere “marocchinate” furono nel 1940/41 centinaia di donne italiane di ogni età e ceto, oggetto di violenza sessuale da parte di soldati bianchi – australiani e britannici – nelle città e nei villaggi della Cirenaica occupata. E solo in pochi casi padri e mariti riuscirono a difenderle o ad opporsi alla soldataglia armata che nottetempo faceva irruzione nelle case private. Tali stupri erano diretti esclusivamente contro le italiane, poiché il comando britannico aveva proibito per motivi politici ogni contatto tra i propri soldati e le donne arabe. Vi furono perfino casi di capitribù libici fedeli all’Italia, che ogni notte nascondevano le mogli e figlie dei coloni nei loro villaggi indigeni, vegliando armati per proteggerne l’onore. Dopo la temporanea riconquista di quei territori da parte delle truppe italo-tedesche, le autorità italiane diedero ampia pubblicità ai molti crimini di guerra commessi dal nemico ai danni della popolazione civile, ma degli stupri di massa si parlò ben poco, comprensibilmente per non urtare la morale dell’epoca e l’immagine posticcia degli italiani come popolo pseudo-ariano razzialmente superiore. Tornando al film, anche osservandone l’aspetto religioso, appare chiaro che Giuliana è credente, ma a differenza di altre figure femminili presenti nel film (la signora Berti, la moglie del colono veneto, la prostituta Fanny, le suore ospedaliere, le vecchie beghine nel rifugio) che ondeggiano tra l’indifferenza, la disperazione e la superstizione, piuttosto trova nella fede la forza di resistere alle avversità che la guerra le scaraventa addosso, ma sempre confidando nella vittoria finale. Giuliana parla un italiano perfetto senza inflessioni dialettali e con l’ingegner Filippo passa naturalmente dal Voi al Tu man mano che la confidenza tra i due cresce, conformemente ai dettami linguistici imposti dal regime. E anche il corteggiamento fra i due, seppur pulito e pudico come imponeva la morale di allora (oltre che la censura), è un rapporto alla pari, schietto, scevro di orpelli ipocriti e sovrastrutture borghesi, ma fatto di frasi brevi e dirette. Anche il fidanzamento ufficioso tra i due, alla benevola presenza dei coinquilini del palazzo, riunitisi a consumare insieme il magro pasto, è austero come si conviene in tempo di guerra in una città alla fame e occupata dal feroce nemico albionico. Le sigarette (rigorosamente nazionali) contenute nella scatola-carillon sono un pegno d’amore ben più prezioso e gradito di un anello con brillante.


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    ELEMENTI DI VEROSIMIGLIANZA IN BENGASI: PAI, VVUU, AMBIENTAZIONI
    La necessità di rende la pellicola il più possibile credibile portò a un grande coinvolgimento di varie organizzazioni di regime e statali, in primo luogo del Ministero dell’Africa Italiana e della forza di polizia coloniale da essa dipendente, ovvero la P.A.I. che mise a disposizione personale della sua scuola di Tivoli e le autoblinde AB 41 della colonna Romolo Gessi (travestite da blindo Morris britanniche mediante sovrastrutture di legno). Gli agenti nazionali ed i motociclisti moto-mitraglieri della P.A.I. appaiono specialmente durante l’esodo dei civili dalla città e l’arrivo delle avanguardie inglesi. Essi sono ben riconoscibili dallo specifico gibernaggio in cuoio marrone, dalle cordelline azzurre sulla spalla destra, e soprattutto dal mitra Beretta MAB 38 A con pugnale-baionetta ripiegabile, ostentato visibilmente in tutte le sequenze.
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    Nel film appaiono brevemente comparse con le uniformi di un corpo assai meno conosciuto, quello delle Guardie Comunali di Bengasi (ovvero del corpo dei vigili urbani indigeni), creato nel 1939 in conseguenza della cittadinanza italiana concessa ai sudditi libici su impulso di Italo Balbo, allora governatore della Libia. Una guardia si vede a inizio film in mezzo alla folla di comparse italiane e indigene che in una strada della città ascoltano il bollettino di guerra italiano diffuso da un altoparlante. Il figurante di colore indossa sahariana kaki con bottoni dorati e colletto chiuso di colore nero. Pantaloni kaki con fasce mollettiere. La tipica “tachia” libica rossa con fiocco nero e caricata dal fregio metallico coronato della città di Bengasi. Un secondo figurante con uniforme identica (ma con pantaloni lunghi kaki e scarpe basse) compare in seguito nell’ufficio del Podestà e dopo il prescritto saluto romano annuncia l’arrivo di soldati nemici latori di un messaggio del comando inglese. In una altra sequenza, nella quale il Podestà si rivolge ai una delegazione di libici prima dell’occupazione della città, fra le autorità fasciste in borghese spicca un ufficiale in sahariana kaki e cinturone, ma senza fregi al colletto (niente stellette o fasci). Costui impersona il comandante italiano delle Guardie Comunali e lo ritroviamo infatti in un altro fermo immagine all’arrivo del generale inglese per il passaggio dei poteri. Nell’inquadratura a sinistra del Podestà – in borghese e a capo scoperto – c’è un ufficiale dei CC.RR. con la caratteristica fiamma sulla bustina, a destra il suddetto ufficiale delle Guardie Comunali, con un berretto alto caricato dello stemma metallico con corona, identico a quello delle guardie indigene. Ovviamente tali peculiari fregi erano stati reperiti in Italia dalla produzione del film, presso le stesse ditte fornitrici che li avevano realizzati.
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    Cammelli, muli e cavallini visti in alcune sequenze del film provenivano dal piccolo zoo della Mostra d’Oltremare di Napoli dove nel 1940 erano stati accuratamente ricostruiti villaggi e stili di vita delle varie popolazioni dell’Impero – inscenando perfino una caccia al giagiuaro – con la partecipazione di figuranti indigeni appositamente portati in Italia con le loro famiglie (costruendo addirittura una chiesa copta e una moschea all’interno del recinto della mostra). Se sono molto note le vicende dei circa cento Lancieri Vicereali P.A.I. eritrei, etiopi e somali, venuti a prestare servizio d’onore alla mostra e bloccati a Napoli dalla guerra – che tra il 1941 e il 1943 furono utilizzati come comparse di colore in moltissimi film di propaganda – spesso si dimentica che allo stesso scopo giunsero nella città partenopea anche militari e civili libici con famiglie al seguito, nonché sudditi greco-ortodossi e turco-musulmani del Dodecaneso e addirittura qualche cinese dal nostro possedimento di Tien Tsin.
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    Nel film tutte le vetture private, i bus color giallo-crema del trasporto pubblico e il vecchio autocarro che si ribalta durante il bombardamento aereo provocando la morte del piccolo Sandro Berti, portano le particolari targhe automobilistiche del tipo adottato dalla motorizzazione civile nelle nuove quattro provincie d’oltremare costituite nel 1939. Quelle di Bengasi erano a 4 cifre, precedute dalla parola Libia e dalla lettera B.
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    Le strade di Bengasi ricostruite a Cinecittà appositamente per il film, furono rese il più possibile simili alle originali grazie a foto scattate nella città libica. Di un certo numero di edifici non furono realizzate solo le facciate posticce, ma strutture complete in muratura e cemento, che pur sprovviste di allacci elettrici e idrici, sopravvissero alla realizzazione del film e addirittura al conflitto, e che quando nel 1944 i vincitori americani trasformarono Cinecittà in un campo profughi, ospitarono profughi di guerra almeno fino al 1947. Inoltre furono ricreati dagli scenografi i tipici portici murati trasformati in rifugi antiaerei improvvisati, aggiungendo insegne di alberghi e negozi realmente esistenti, e perfino la pubblicità del noto birrificio BIRRA CIRENE. Sulla fiancata di un vecchio autocarro Fiat visibile durante l’esodo della popolazione si può leggere la scritta BIGONI ANTONIO - AUTOTRASPORTI, ditta anche essa operante nella città prima della guerra. La stessa accuratezza fu riservata anche agli ambienti ricostruiti in interni, dato che sui muri del rifugio antiaereo erano apposte scritte DIVIETO FUMARE e manifesti con i regolamenti dell’U.N.P.A. per la protezione antiaerea. Nella mensa affollata mensa popolare organizzata dal Podestà campeggiano sullo sfondo il ritratto incorniciato del re Vittorio Emanuele e quello, tratto da un calendario, del principe Umberto.
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    ALTRE PARTICOLARITA’


    1. Se il frame del colono mestamente abbracciato al figlioletto vi ricorda qualcosa non è un caso, l’uomo posò come modello alcuni mesi dopo l’uscita del film per il manifesto di propaganda per l’anniversario della fondazione dell’A.O.I. (un impero nel frattempo da noi definitivamente perduto), che sotto lo slogan RITORNEREMO! riproponeva lo stesso atteggiamento protettivo tra un adulto e un bambino.
    2. Un altro frame molto interessante è quello del graduato di fanteria che, per sfuggire agli inglesi, chiede ospitalità con quattro commilitoni nella casa chiusa. Il militare, con ogni evidenza di origine meridionale, porta sulla bustina g.v. una medaglietta sacra, ovviamente fuori ordinanza. E non sappiamo quanto portata per autentica devozione o per superstizione scaramantica. Sorge anche il dubbio che, vista la drammatica impreparazione dei comandi superiori che condusse al disastro le truppe italiane durante la prima offensiva britannica (Operazione Compass), il militare abbia ritenuto più saggio affidare la propria salvezza personale durante la caotica ritirata nel deserto a una infallibile potenza ultraterrena, piuttosto che alla fallibilissima catena di comando gerarchica capeggiata da Graziani.
    3. Come in ogni pellicola di ampio respiro con un gran numero di comparse e più unità di ripresa, anche in BENGASI inevitabilmente compaiono piccoli errori e discrepanze non eliminate in montaggio, che mostrano cose e persone che non avrebbero dovuto essere inquadrate dall’obiettivo della cinepresa. Quella più evidente è la presenza in un frame dell’esodo dei civili ad inizio film, di un membro della troupe cinematografica (indicato dalla freccia rossa) che con un rudimentale megafono dirige i movimenti di massa delle comparse. L’uomo è stato con tutta probabilità inquadrato per sbaglio ed è rimasto nel girato definitivo. Altra incongruenza minore è quella di un palazzo visto più volte nel corso del film, ma una volta danneggiato dal bombardamento finale degli inglesi e ripreso da una angolazione di poco diversa, si rivela essere solo una facciata, sostenuta posteriormente da una intelaiatura di legno.


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    CHISSA' A QUALE DI QUESTI ALBERI CI IMPICCHERANNO?

  9. #39
    Utente registrato L'avatar di storiaememoriagrigioverde
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    Prossimo argomento: come nel film sono descritti i libici con cittadinanza italiana speciale concessa nel 1939 e la colf libica di casa Berti.
    CHISSA' A QUALE DI QUESTI ALBERI CI IMPICCHERANNO?

  10. #40
    Utente registrato L'avatar di storiaememoriagrigioverde
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    DJAMILA,L’UNICA DONNA LIBICA IN BENGASI
    Come già detto in precedenza il film BENGASI è pervaso sotto traccia da un fortissimo sentimento proto-femminista, a cominciare dalla dedica inserita nei titoli di testa, dove vengono riconosciute apertamente alle donne italiane le sofferenze e i lutti dovuti alle vicende belliche. Nella pellicola risulta evidente che nonostante lapropaganda eroica voluta dal regime fascista, i protagonisti maschilisono solo personaggi di contorno ormai svirilizzati rispetto alledonne che – nessuna esclusa – di fronte al trauma della sconfittamilitare e dell’occupazione britannica sono costrette probabilmenteper la prima volta nella loro vita a prendere l’iniziativa,trasformandone in positivo il carattere e forgiandoloimpensabilmente. Ciò accade a tutte le donne italiane che appaiononel racconto corale, dalla fatua consorte ungherese del capitanoBerti alla giovane dottoressa in chimica Giuliana; dalla prostitutaredenta Fanny alla vecchia moglie del colono veneto. Perfino le suoreospedaliere di Bengasi subiscono una evoluzione patriottica nelcorso del film e davanti alle sofferenze della popolazione civileitaliana organizzano una mensa popolare. Ma esse sono tutte bianche edunque solidali con i colonizzatori italiani (loro padri, fratelli,mariti o figli) e con le relative autorità politico-militari. E’il caso dunque di esaminare accuratamente anche l’evoluzionecaratteriale del personaggio della cameriera Djamila, unica donnamusulmana autoctona presente in una pellicola totalmente ambientatanella città libica.
    ___
    Bisognatener conto che nonostante la decantata cittadinanza italianaspeciale concessa dal 1939 ai sudditi libici su impulso delgovernatore Italo Balbo, essi rimanevano cittadini di seconda classedestinati a convivere pacificamente accanto alla popolazione italianama a non mescolarsi con essa, principalmente a motivo della religioneislamica, tanto da essere soggetti non al codice civile italiano ma aspeciali tribunali religiosi autorizzati dal regime, che peròregolavano le controversie tra cittadini libici secondo i dettamidella Sharia. Dunque anche tra i libici più affidabili e favorevolialla modernizzazione portata dalla presenza italiana, come isottufficiali indigeni delle FF.AA. o i dipendenti nativi degliapparati burocratici coloniali, la figura femminile rimasestrettamente legata ai dettami coranici, rinchiusa nelle quattro muradella casa paterna o del marito, e comunque velata e lontana daglisguardi degli “infedeli” italiani. Nei pochi mesi intercorsi trala concessione della cittadinanza e l’entrata in guerradell’Italia, il PNF organizzò però un proprio clone libico subase tribale per iscrivervi e controllarvi i capotribù fedeli e icapofamiglia come embrione di rappresentanza politica in vista dellafutura integrazione dei libici negli organi di rappresentanzapolitica fascista e del sistema bicamerale italiano, basato sullaCamera (dei Fasci e delle Corporazioni) e sul Senato del Regno. A suavolta l’ONB creò nella quarta sponda una copia libica della GIL,la Gioventù Musulmana del Littorio – della quale tra gli altrifece parte anche il giovane Muammar Gheddafi – e che invece del feznero aveva come copricapo la tachia bianca. Viste le forti resistenzedi carattere religioso e patriarcale l’attività dei fascifemminili in favore delle neo-cittadine libiche fu forzatamenteridotta al minimo, ma vi furono alcuni corsi di primo soccorso edeconomia domestica volti a formare aiuto infermiere e collaboratricifamiliari, la partecipazione fu però per forza di cose assairidotta.
    ____
    Altroelemento importante da considerare è il fatto che al momento dellarealizzazione di BENGASI la priorità era dare dei sudditi libici unaimmagine di totale fedeltà alla monarchia ed al regime, cosa che inquel momento non rispondeva totalmente alla realtà. Nel film vediamoritratti numerosi cittadini libici – tutti uomini – più o menoinseriti a vario titolo nella vita della città “italiana” ericonoscibili grazie all’abito tradizionale o alla tachia bianca orossa, generalizzata come copricapo islamico, ma tutti apertamentefedeli ai colonizzatori italiani e ostili agli occupanti britannici.

    • Le Guardie Comunali indigene di Bengasi pattugliano in uniforme la città insieme alla PAI, ascoltano il notiziario EIAR dagli altoparlanti mescolati alla folla di italiani, prestano servizio nel palazzo del Comune.
    • I civili libici assistono all’esodo dalla città degli abitanti italiani aiutandoli fattivamente e auspicandone il ritorno o quantomeno osservano dignitosamente l’ingresso degli occupanti britannici senza prendere parte per questi ultimi.
    • L’iconica scritta CI STARETE POCO E CI STARETE MALE viene tracciata in sfida agli inglesi su un muro di Bengasi, non da un italiano ma da un giovane balilla libico.
    • Durante la cerimonia del passaggio dei poteri tra italiani e britannici il Podestà raduna nel suo ufficio i capi tribali ed altri notabili indigeni (alcuni in abiti europei) assicurando il rapido ritorno della sovranità italiana. Tutti lo salutano romanamente, ma a parlare per tutti è poi l’Imam, l’autorità religiosa islamica riconoscibile dal peculiare turbante bianco. Egli si esprime senza mezzi termini a favore degli italiani con la frase: “Non dimenticheremo mai, Signor Podestà, quello che l’Italia ha fatto per noi”.
    • Uno degli uomini segretamente coinvolti nella rete Stay-Behind organizzata dagli italiani a Bengasi è un ex- sottufficiale indigeno del RCTL che ha combattuto a fianco degli italiani, lo stesso arabo che in precedenza ha aiutato a fuggire dagli inglesi il mutilato capitano Berti. Proprio la cattura del libico (che lealmente non tradisce i membri della resistenza fascista) da parte degli MP mette a rischio l’attività della radio clandestina gestita da Berti e spinge l’ing. Filippo a compromettersi, finendo per essere smascherato dal nemico come spia del SIM.




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    Osservandola figura di Djamila (o Giamila come viene chiamata dai coniugiBerti suoi datori di lavoro seguendo l’uso fascista diitalianizzare grafia e fonetica dei nomi stranieri) possiamo notarecome la giovane libica pur trovandosi in una posizione servile neiconfronti della famiglia dell’ufficiale sia relativamente“civilizzata” rispetto alle sue connazionali sottoposte allalegge islamica, probabilmente grazie al prolungato contatto conitaliani benevoli in un ambiente cittadino di tipo europeo. Parlacorrettamente l’italiano (seppure con un forte accento arabo dovutoal fatto che nella pellicola non è doppiata ma parla con la suavoce autentica senza declinare i verbi all’infinito), si prendecura della casa e del piccolo Sandro, possiamo ipotizzare che abbiafrequentato a tale scopo uno dei corsi organizzati dal PNF. Il suonome è certamente musulmano (nonostante la presenza di religiosicattolici in territorio libico fin dal 1911, le conversionidall’Islam furono praticamente nulle) ma ella veste una sobria ecastigata uniforme da cameriera con tanto di cuffia bianca che lasciain parte scoperti i capelli, è solo di poco più coperta rispetto auna qualsiasi cameriera italiana degli anni quaranta. Ma nulla lasciapensare che abbia in qualche modo abiurato i dettami della sua federeligiosa. La sua presenza a servizio dei bianchi che in altrasituazione sarebbe stata fortemente disapprovata dai maschi dellafamiglia di origine è forse riconducibile allo status militare diBerti. Il personaggio interpretato in BENGASI da Fosco Giachetti èinfatti un ufficiale del Regio Corpo Truppe Coloniali del quale corpoall’inizio della pellicola veste l’uniforme. Si ricollegadirettamente al personaggio interpretato dallo stesso attore a metàdegli anni trenta nel film SENTINELLE DI BRONZO, che era uncomandante di Meharisti in lotta coi ribelli senussiti nel desertolibico. Il capitano Berti nella finzione cinematografica di BENGASIha probabilmente partecipato anche al conflitto italo-etiopico comecomandante di truppe coloniali, dato che la sua casa è arredata connumerose prede belliche provenienti dal l’Africa Orientale (variovasellame africano, zanne di elefante, nonché armi tipiche deiguerrieri abissini, tra cui zagaglie, scudi, spade falciformi efucili ad avancarica), venendo poi richiamato nel Regio Corpo TruppeLibiche nel giugno 1940. Visti i precedenti e la diffusa usanza disottufficiali indigeni colpiti a morte di affidare i figli alle curedel loro comandante italiano, possiamo pensare che il padre diDjamila fosse uno dei Meharisti del capitano Berti, è solo unaipotesi ma legittimerebbe la presenza della ragazza nella casadell’ufficiale italiano. Il personaggio di Djamila è interpretatonel film da una giovane – purtroppo ancora non identificata –probabilmente una dei cittadini libici portati a Napoli per la Mostradelle Terre d’Oltremare tenutasi nel 1940 e rimasti bloccati nellapenisola dagli eventi bellici. Molti di costoro parteciparono poicome comparse in film italiani e tedeschi a Cinecittà (come moltialtri africani provenienti dall’A.O.I. e un centinaio di LancieriVicereali indigeni della PAI). Non conosciamo il suo destino allafine del conflitto. Nel film compare brevemente e parla poco, anchese in italiano corretto. Oltre che donna di servizio dei Berti èanche amorevole tata del piccolo Sandro, ed è proprio in unapparentemente innocente scambio di battute col bambino che glisceneggiatori di BENGASI inseriscono un esempio del dualismo insitonella presenza coloniale italiana in Libia. Si tratta di un lampanteriferimento al differente trattamento subito dagli indigeni sottoGraziani / Badoglio (repressione indiscriminata, massacri eimpiccagioni) e sotto Balbo (integrazione, collaborazione, rispettodell’identità islamica). Non sappiamo se lo script intendessesottintendere un certo larvato antifascismo/anticolonialismo o fossesolo una glorificazione postuma della linea politica più accomodantesostenuta dal defunto Gerarca Trasvolatore rispetto ai bagni disangue degli ottusi generali sabaudi. Comunque vale la pena diriportarlo integralmente perché getta un’ombra sullacolonizzazione italiana, ondeggiante tra benevola civilizzazione espietata repressione, mettendo in bocca a un bambino innocente einconsapevole pesanti frasi, probabilmente ascoltate in famiglia:



    Sandro:(RIVOLGENDOSIAL CAP. BERTI)Uh, papà come sei brutto!
    Djamila:Dicibrutto al tuo papà? Sei cattivo.
    Sandro:Noio sono buono. Sai papà che Giamila è cattiva?
    Cap.Berti:Davvero?
    Sandro:Si,mi fa impazzire, non mi lascia mai giocare quando voglio io. Ma èvero che ora chiami due guardie e un Carabiniere e la fai arrestare?
    Cap.Berti:Si, mafai il bravo ora… (SI ALLONTANA)
    Sandro:(RIVOLGENDOSI ADJAMILA) Vedi Giamila? Adesso papà chiama due guardie, ti faarrestare e portare in prigione…



    ___



    Dopola tragica morte del piccolo Sandro in seguito a un mitragliamento diaerei inglesi, Djamila resta fedelmente a servizio della sua padrona,in casa della quale durante l’occupazione nemica si radunano aconsumare i magri pasti altri abitanti del palazzo, tra cui ancheGiuliana, stabilitasi nell’appartamento vuoto dell’ing. Filippo(che fa il doppio gioco mostrandosi amico degli inglesi). Ed èsempre Djamila ad accogliere in casa l’inviato della Croce Rossa,venuto ad annunciare che il Capitano Berti ormai prigioniero giace inospedale, mutilato di un braccio. Si tratta di brevi comparsate inmomenti nei quali parla a monosillabi. Ma significativa è anche lasua scomparsa nella versione originale della pellicola. Verso la finedel film le truppe britanniche prima di ritirarsi da Bengasisaccheggiano negozi e case private asportando ogni genere dimasserizie. Quando vede avvicinarsi la soldataglia in cerca di donnee di bottino, Djamila volutamente attira la loro attenzione, escesilenziosamente sul pianerottolo buio chiudendosi alle spalle laporta dell’appartamento, salvando così la signora Berti e le altreitaliane lì rifugiate da una probabile violenza carnale, e segue inemici ebbri di alcol verso un destino non bene specificato. Perderàsolo la sua purezza (il bene più grande per una musulmana) o anchela sua vita? Il film non ce lo dice esplicitamente, essendo lacensura dell’epoca assai restia a esplicitare gli stupri di guerra,ma possiamo dare una duplice interpretazione: Djamila semplicementescompare, forse si sacrifica per mostrare una consapevole adesionedei sudditi libici ai valori dei colonizzatori italiani come volevala vulgata del regime, o forse – cosa ancor più dirompenteall’epoca – compie il suo gesto per una istintiva forma disolidarietà femminile capace di travalicare tutte le barriereetniche e religiose, proteggendo quelle donne italiane con le qualiha fino ad allora condiviso tante sofferenze e che ormai considerasemplicemente sorelle. Mi piace pensare che la motivazione delpersonaggio sia la seconda. Il personaggio di Djamila in seguito allevarie censure politiche subite durante e dopo la guerra è statomolto tagliato, eliminandone totalmente l’epilogo, stessa sortehanno subito altri personaggi libici, espungendo in gran parte leloro dichiarazioni di fedeltà all’Italia per non irritare troppo ivincitori inglesi. Che poi nell’immediato dopoguerra ottennero perqualche anno l’occupazione militare delle basi aeree libiche e losfruttamento dei giacimenti petroliferi portando al potere con unreferendum farsa Idris El Senussi come monarca-fantoccio prono aivoleri di Londra come riconoscimento postumo per la collaborazionecon le truppe britanniche dei briganti-contrabbandieri senussiti,acerrimi nemici degli italiani fin dagli anni venti.
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    CHISSA' A QUALE DI QUESTI ALBERI CI IMPICCHERANNO?

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