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Discussione: La Canzone del Monte Nero

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    La Canzone del Monte Nero

    LA CANZONE DEL MONTE NERO




    Spunta l’alba del sedici giugno,
    comincia il fuoco l’artiglieria,
    il Terzo Alpini è sulla via
    Monte Nero a conquistar.


    Monte Nero, monte rosso,
    traditor della vita mia,
    ho lasciato la casa mia
    per venirti a conquistar.


    Per venirti a conquistare
    ho perduto tanti compagni
    tutti giovani sui vent’anni:
    la loro vita non torna più.


    E il colonnello che piangeva
    nel veder tanto macello:
    « Fatti coraggio Alpino bello,
    che l’onore sarà per te ».


    Arrivati a trenta metri
    dal costone trincerato,
    con assalto disperato
    il nemico fu prigionier.


    Ma Francesco l’ Imperatore
    sugli Alpini mise la taglia,
    egli premia con la medaglia
    e trecento corone d'or…


    A chi porta un prigioniero
    di quest'arma valorosa
    che con forza baldanzosa
    fa sgomenti i suoi soldà.


    Ma l’Alpino non è vile
    tal da darsi prigioniero:
    preferisce di morire
    che di darsi allo straniero.


    O Italia, vai gloriosa
    di quest'arma valorosa
    che combatte senza posa
    per la gloria e la libertà.


    Bell’ Italia, devi esser fiera
    dei tuoi baldi e fieri Alpini
    che ti danno i tuoi confini
    ricacciando lo stranier.
    ____________________


    Il 15 giugno 1915 i battaglioni Exilles, Pinerolo, Susa e Fenestrelle del 3º Reggimento Alpini comandato dal colonnello Donato Etna, con una ardita azione notturna occuparono la cima del Monte Nero, nelle alpi Giulie. L’ impresa fu citata dalla stampa internazionale come esempio di brillante azione bellica ma ebbe un costo assai elevato in termini di vite umane. Questa canzone fu scritta e musicata dagli stessi alpini superstiti, tra cui Giuseppe Malandrino detto Ciabot, originario di Rivoli (TO). Al riguardo è necessario premettere che il testo è reperibile in rete in varie versioni declinate al singolare o al plurale (in quest’ ultimo caso probabilmente per esser cantato dai cori alpini). Ve ne sono nell’ italiano corretto ma arcaico del periodo bellico o in versione più marcatamente dialettale, con parole tronche e largo uso di punti esclamativi. Quello da me riportato è la versione apparsa su vari organi di stampa in occasione della morte di Ciabot. Altro fatto da tenere ben presente è che già durante la 1^ g.m. il testo diffuso tra le truppe e divenuto subito popolarissimo, fu oggetto di manipolazione a fini propagandistici dai superiori comandi, specie nella parte che si riferisce all’ imperatore austriaco Francesco Giuseppe. Considerata l’ epoca era forse inevitabile e comunque non inficia il valore di testimonianza antiretorica di una canzone nata spontaneamente dalle sofferenze dei nostri soldati.
    Ritengo necessario aggiungere qualche dato sulle circostanze nelle quali venne composto il testo e sulla personalità dell’ alpino Giuseppe Malandrino. Nella notte tra il 15 e il 16 giugno 1915 il plotone esploratori del Btg. Exilles guidato dal tenente Alberto Picco, ebbe l’ incarico di avanzare allo scoperto lungo le balze entro cui il nemico si era appostato. Mentre una compagnia del reggimento impegnava gli austriaci con attacchi diversivi, gli uomini del tenente Picco riuscivano a inerpicarsi inosservati sotto le posizioni avversarie. Calata la notte, gli alpini andarono all’ assalto della quota 2246, conquistandola con sanguinosi combattimenti all’ arma bianca che si protrassero fino all’ alba. Picco giunse in cima assieme ai pochi superstiti del suo reparto, già gravemente ferito da due pallottole nemiche e morì dissanguato fra le braccia del caporalmaggiore Giuseppe Malandrino. Quest’ ultimo a quell’ epoca era già un esperto veterano, avendo partecipato alla guerra di Libia del 1911. Alto, statuario, baffuto, di temperamento saldo e coraggioso, era considerato unanimemente il più bell’ alpino del 3° Reggimento. Volontariamente chiese di far parte degli esploratori, cui erano demandati i compiti più rischiosi ben oltre la normale vita di trincea, guadagnandosi alcune medaglie per il suo ardimento. Ma presto gli vennero a noia. “Le medaglie datele al tenente. A me invece, date una licenza premio…” diceva spesso ai suoi superiori. Possiamo solo ipotizzare che i sanguinosi scontri cui dovette partecipare per senso del dovere, avessero stimolato in lui il rigetto della retorica bellica e un grande pudore riguardo ai propri meriti personali. Ciabot infatti era uno spirito sensibile e poetico. Dotato di uno spontaneo talento canoro, durante le pause nei combattimenti girava per le trincee con la sua chitarra, eseguendo per i compaesani le canzoni tradizionali, cosa che lo rese molto popolare in tutto il reparto. Se è certo che il testo della Canzone del Monte Nero nacque spontaneamente fra gli alpini esausti, sulla cima appena conquistata, è altrettanto vero che fu proprio Ciabot a imprimere alle parole un tono di malinconica nenia, ispirandosi a una canzone d’ amore ascoltata sulla piazza della nativa Rivoli da un cantastorie girovago, che aveva per lamentoso ritornello le parole « Villenero, dove sei? ». A prescindere dalla canzone però, i fantasmi di quella tragica giornata del 1915 e il ricordo del tenente Picco morto fra le sue braccia accompagnarono Giuseppe Malandrino per il resto della vita. Congedato nel 1918, aprì una tabaccheria e condusse una vita relativamente tranquilla al suo paese, dove spesso venivano a cercarlo gli antichi commilitoni in vena di nostalgie. Allora Ciabot, piantati in asso i clienti si rifugiava con le “penne nere” in qualche osteria vicina, abbandonandosi ai ricordi, al canto e al vino. Ma delle sue imprese di guerra non si fece mai stupidamente vanto, come se nel fondo del suo animo fosse presente un amaro scontento che neanche il vino riusciva a tacitare. Oggi definiremmo quel confuso malessere inespresso come stress post-traumatico dovuto all’ abbrutimento della trincea, alla consapevolezza di esser vissuto per anni con la morte accanto, alla dura necessità di uccidere per non essere ucciso. Ma in quei tempi, quando agli uomini non era concesso mostrare le proprie emozioni, certe malinconie si attribuivano a un bicchiere di barbera di troppo. Solo una volta ricordando uno dei sanguinosi scontri cui aveva partecipato, Ciabot esplicitò platealmente la sofferenza che si portava dentro. Fu improvvisamente assalito da un furore muto e tremendo contro se stesso e afferrata una accetta fece a pezzi il suo vecchio cappello alpino, riducendolo in strisce sottili. Distrutto il prezioso cimelio, ne raccolse i resti e si abbandonò per la prima volta ad un pianto dirotto.
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