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Discussione: Il volo dell' i-etio

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    Il volo dell' i-etio

    PREMESSA

    Se tutta la storia coloniale italiana è ricca di vicende interessanti e in gran parte sconosciute al grande pubblico, nei soli sette anni di vita dell’ effimero Impero italiano altrimenti noto come A.O.I. si concentrarono quant’ altri mai eroismi, viltà e sofferenze bastevoli a comporre ben più di un poema epico. Tra il 1935 e il 1941 nei nostri territori oltremare si svolsero innumerevoli episodi ai limiti dell’ incredibile, che se fossero avvenuti in altre latitudini e sotto altre bandiere sarebbero stati certo esaltati da libri a grande tiratura ed eternati nei films hollywoodiani. Ma per aver visto protagonisti degli italiani, e per di più italiani colpevoli di aver vissuto nel deprecato “ventennio fascista” dunque due volte reprobi, quei fatti sono stati sepolti sotto il colpevole silenzio che spetta ai vinti. Perché una cosa è certa, l’ unico nostro crimine non fu tanto aver perso una guerra mondiale, ma soprattutto averla persa – e male – di fronte a una coalizione di vincitori niente affatto angelici, assai più di noi carichi di responsabilità morali, dalle mani sporche di sangue innocente e bramosi di spartirsi il dominio del mondo. Come ebbe a dire una volta lo scrittore Giovannino Guareschi: “in una guerra di pazzi i più pazzi vinsero i più pazzi”. Resta comunque innegabile che nonostante luci ed ombre, l’ avventura africana non rappresentò un avvenimento centrale solo nelle vite di molte decine di migliaia di soldati e coloni e delle loro famiglie. Un intero popolo, povero di risorse ma ricco di braccia, proiettò sul sogno dell’ espansione coloniale le proprie speranze di evoluzione morale, palingenesi sociale e benessere economico, affidandosi è il caso di dirlo, in maniera totalitaria alla guida della dittatura mussoliniana tanto più in quanto forze ostili della politica e dell’ economia mondiale tentavano in vari modi di sabotarne gli sforzi. Gli storici di ogni tendenza concordano ormai nel riconoscere che furono proprio le intimidazioni delle grandi potenze imperialiste e colonialiste, Gran Bretagna, Francia e Belgio che da soli dominavano con pugno di ferro i 9/10 delle terre emerse, a rinsaldare la determinazione degli italiani, al di là delle differenze di classe e delle diverse idee politiche, come mai era avvenuto in passato, e purtroppo non sarebbe più avvenuto negli anni successivi. La guerra d’ Abissinia (o conflitto italo-etiopico) fu senza dubbio l’ apice del consenso trasversale al Regime in nome della dignità nazionale, abolendo le distanze tra ricchi e poveri, intellettuali e analfabeti, fascisti e antifascisti, italiani della penisola ed italiani all’ estero. In quel frangente il nostro paese mise in campo il meglio di sé in quanto tipo umano e valori morali. E forse non è un caso che in colonia combatterono, vissero e lavorarono individui generalmente migliori dell’ italiano medio, con conseguenze visibili sulle popolazioni locali, incredule dinanzi allo spettacolo di conquistatori che invece di darsi al saccheggio sostituivano il fucile con la vanga e il piccone, con un fervore di realizzazioni per loro sino ad allora inimmaginabile. Quando nel 1941 gli inglesi occuparono l’ A.O.I. il nemico stesso rimase sbalordito di fronte a prospere città di tipo europeo, nella quale coloni italiani e popolazioni indigene erano perfettamente e pacificamente integrati, in un territorio dotato di vaste opere pubbliche e floride imprese private, create dal nulla dal sudore della fronte degli italiani in meno di sette anni. Nulla di paragonabile esisteva nelle colonie africane di Sua Maestà Britannica, che da oltre due secoli sfruttavano spietatamente le popolazioni locali. Tanto che alla fine anche gli sprezzanti britanni dovettero soprassedere (temporaneamente) all’ espulsione degli italiani dall’ Etiopia. Tra i selvaggi predoni sciftà tornati a imperversare al seguito del redivivo Tafari protetti dalle baionette inglesi, nessuno era in grado di far funzionare i moderni macchinari necessari alla vita di una città del 20° secolo, qual’ era ormai diventata Addis Abeba sotto l’ amministrazione italiana. Macchinari impiantati con tanta fatica e innumerevoli sforzi dai nostri connazionali, che infatti in quelle terre a lungo rimasero, e in molti. Il volo dell’ I-ETIO va giustamente a comporre un tassello del grande mosaico della epopea dimenticata degli italiani d’ Africa, e merita ricordo e considerazione anche in tempi grigi e incerti come quelli odierni.


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    L’ I-ETIO VOLA VERSO LA PATRIA

    Tutto ebbe inizio nel 1938, quando la società romana “Poggi & Baccherini” decise di investire una quota consistente delle proprie disponibilità economiche nel business del trasporto aereo privato tra i vari centri dell’ Impero. All’ uopo vennero acquistati sei esemplari nuovi di fabbrica dell’ aereo da trasporto Ca.148. Tale velivolo era stato realizzato su iniziativa personale di Gianni Caproni che, coadiuvato da Agostino Caratti e dall’ ufficio tecnico, decise di sviluppare ulteriormente l’immediato predecessore, il Ca.133 (meglio conosciuto col popolare soprannome di “caprona”), intervenendo sul progetto per migliorarne aerodinamica e prestazioni. Il nuovo trimotore grazie all’ avanzamento di circa un metro del posto di pilotaggio, aveva una migliore visibilità e maggior spazio in fusoliera, con la porta di carico arretrata oltre il bordo d’uscita alare ed il carrello d’atterraggio irrobustito. Al momento dell’ acquisto il primo velivolo ricevette la sigla identificativa I-POGG, derivata dal nome della ditta e gli altri cinque le sigle I-TERE, I-LUIG, I-EDVI, I-ROSA, I-NERI palesemente ispirate ai nomi femminili Teresa, Luigia, Edvige, Rosa e Nerina. Imbarcati smontati nella stiva della nave Ircania, i Ca.148 raggiunsero dunque il porto di Assab, in Eritrea, ove vennero rapidamente approntati. Frattanto però la compagnia romana aveva mutato ragione sociale da “Poggi & Baccherini” ad “Aviotrasporti S.A.” rendendo così necessaria una nuova omologazione dei velivoli, che adottarono rispettivamente le sigle I-GOGG, I-TESS, I-LANG, I-ETIO, I-SOMA, I-NEGH sulla sgargiante livrea bicolore. Il servizio passeggeri fu operativo dal 28 ottobre 1938 sulle rotte Massaua – Addis Abeba e Assab – Addis Abeba. La presenza in Africa Orientale della piccola compagnia aerea privata risultò però fin da subito sgraditissima all’ “Ala Littoria”, che in quanto compagnia di bandiera operava in regime di monopolio nelle nostre colonie africane. In breve alti costi, scarsa frequenza, concorrenza del trasporto su gomma, nonché una sottile opera di boicottaggio da parte dei dirigenti della compagnia rivale, che lamentavano una perdita di introiti dovuta all’ inutile duplicazione delle tratte, costrinsero la “Aviotrasporti ” a cessare definitivamente l’attività. Nel marzo del 1940 i velivoli vennero rilevati dall’ “Ala Littoria S.A.” adottandone le insegne e il caratteristico color crema. Nel giugno dello stesso anno, con l’entrata in guerra dell’ Italia furono militarizzati e ricevettero le M.M. da 60477 a 60482 operando a consumazione in logoranti missioni di trasporto alle dipendenze del Comando Aeronautica A.O.I. (anche se solo nel febbraio 1941 vennero prese ufficialmente in carico dall’ Amministrazione Militare). Le vicende dell’ unico velivolo superstite, la M.M. 60480, già I-ETIO, sono a dir poco romanzesche. Il 7 giugno 1941 l’aereo lasciò Gimma, ormai prossima a capitolare, rifugiandosi insieme a due Fiat CR. 42 a Gondar ove la resistenza proseguiva strenuamente. Qui il Ca.148 effettuò almeno tre rifornimenti al presidio isolato di Uolchefit. Opportunamente mimetizzato e nascosto nella boscaglia ai margini del campo di Gondar, in seguito ai mitragliamenti aerei nemici il velivolo fu dato ripetutamente per distrutto, ma sempre rimesso in condizioni di volo grazie agli strenui sforzi del personale aeronautico, che si avvaleva di parti di ricambio recuperate fra i rottami. Ciò gli valse di essere citato nella canzone degli avieri italiani di Gondar , intitolata “Gli Azzurri Gondarini” (da me in precedenza postata nella apposita sezione del forum). Avvicinandosi il momento della resa il comandante della piazzaforte assediata, generale Nasi, autorizzò il tentativo di rientrare in Italia nonostante le scarse probabilità di riuscita per le pessime condizioni dell’aeromobile, le distanze enormi, la sfavorevole situazione di guerra. In fondo già nel mese di aprile tre Savoia Marchetti SM. 73 (I-NOVI, I-ARCO, I-VADO) erano già rimpatriati dall’ A.O.I. con un volo similare e non meno avventuroso, ma si trattava di mezzi assai più prestanti e adatti a compiere lunghi voli.
    Il Ca. 148, al quale erano stati cancellati i contrassegni militari ripristinando in fusoliera e sotto le ali la sigla civile e il tricolore dell’ “Ala Littoria” decollò alle ore 1,30 del 15 giugno sotto un incombente maltempo e con la radio in avaria. Sia l’ equipaggio (sottotenente Lusardi, tenente Caputo, marconista Di Biagio, motoristi Barilli e De Caro) che i passeggeri (sottotenenti Folcherio e Volpe, già della 410^ Sq. Autonoma C.T.) erano muniti di regolare passaporto nonché di documenti civili, ad evitare l’internamento durante i necessari scali in territorio neutrale. Atterrati alle 8,15 all’ aeroporto di Gedda, località sulle rive del mar Rosso con valenza di porto per la Mecca, fu necessario sostarvi a lungo per riparare un cilindro del motore destro ed ottenere gli indispensabili rifornimenti di benzina e lubrificante. Frattanto l’ invasione britannica di Siria e Libano, territori fedeli alla Francia di Vichy, rese impossibile fare scalo a Beirut come progettato in origine. Fu dunque studiata una rotta alternativa verso le isole italiane dell’ Egeo, che prevedeva una tappa intermedia nella località costiera di Buscir, nel neutrale Iran. Ma nelle settimane seguenti anche questo paese subì una occupazione militare congiunta da parte di truppe inglesi e sovietiche, cosa che vanificò nuovamente i progetti dei valorosi aviatori. Ormai l’ ultima speranza di tornare in patria era azzardare un volo diretto fino al primo aeroporto libico in mano italiana, quello di Derna. Per raggiungere l’ obiettivo, il vecchio ed esausto trimotore avrebbe sorvolato oltre 2.200 chilometri di territorio nemico, in gran parte desertico! Col coraggio della disperazione ci si preparò al grande salto. A malincuore si dovettero abbandonare in territorio saudita i due passeggeri, per disporre all’ interno della fusoliera serbatoi di fortuna indispensabili a coprire la grande distanza. La lunga permanenza del velivolo all’aperto, esposto a sabbia e salsedine, nonché il timore di sabotaggi da parte di agenti britannici (la legazione inglese tentò con ogni mezzo di ostacolare la partenza del trimotore), obbligò al totale smontaggio e revisione dei motori, che vennero accuratamente puliti in ogni loro parte. Altra difficoltà fu l’ approvvigionamento del carburante necessario, dato che le autorità locali concessero soltanto 400 dei 1.000 litri di benzina necessari. Barilli risolse brillantemente il problema, fabbricando una miscela avio composta da benzina automobilistica, benzolo e alcool nelle giuste proporzioni. Alle ore 17,10 del 9 ottobre 1941 il Ca.148 decollò appesantito da 4.100 litri di carburante avventurandosi a 80 metri di quota lungo la costa araba. Solo dopo due ore fu possibile salire un poco, sempre con la radio di bordo guasta. A mezzanotte nel sorvolare la valle del Nilo, l’aereo mise in allarme una prima volta la contraerea nemica e l’equipaggio devette rompere i finestrini per non essere intossicato dalle esalazioni di carburante. Alle ore 4,45 l’ I-ETIO, giunto su Tobruk occupata dagli inglesi fu nuovamente inquadrato dal fuoco delle mitragliere inglesi, incassando parecchi colpi che – pur senza fare vittime a bordo – misero fuori uso il motore centrale. Col carburante quasi esaurito, fu gettato fuori dalla carlinga ogni carico superfluo, serbatoi ausiliari compresi. Tanto bastò perché gli ultimi minuti di volo planato sopra il deserto ad appena 50 metri di quota, permettessero di atterrare entro le nostre linee, 70 km a sud di Ain el Gazala. Erano le ore 6,25 del 10 ottobre 1941. Solo dopo altre 36 terribili ore di marcia nel deserto sotto il sole cocente, l’equipaggio venne soccorso da una sbalordita pattuglia tedesca e le nostre autorità aeronautiche si allertarono per recuperare l’ aereo immobilizzato nel deserto e sorvegliato dal comandante Lusardi. Il 12 ottobre il glorioso velivolo giunse a Derna ove furono sostituiti il motore centrale e l’apparecchio radio. La mattina del 19 ottobre l’I-ETIO decollò verso l’Italia giungendo felicemente a Roma alle ore 14,15. L’ atterraggio all’ aeroporto del Littorio venne immortalato dagli operatori dell’ Istituto Luce. L’ epico volo ebbe vasta risonanza sui media italiani e Domenico Lusardi fu solennemente decorato per la sua impresa con la Medaglia d’ Oro al Valore Aeronautico. Del destino dell’ I-ETIO si interessò lo stesso Mussolini, richiedendo che il trimotore fosse preservato. L’ idea del dittatore era di fargli compiere a ritroso il volo da Roma a Gondar per celebrare il ritorno dell’ Africa Orientale sotto la nostra sovranità dopo l’ auspicata – ma sempre più improbabile – vittoria finale. La Regia Aeronautica invece fu di diverso avviso e ritenendone ormai troppo usurata la cellula, lo affidò alla società A.V.I.S. di Castellammare di Stabia affinchè fosse trasformato in velivolo per le scuole paracadutisti. L’ I-ETIO guadagnatosi meritatamente un posto nella storia coloniale, si ritagliò quindi anche un ruolo nella storia del paracadutismo italiano, divenendo il primo prototipo della variante Ca. 148 P, ordinata in 100 esemplari. Secondo alcune fonti però, a causa dell’ armistizio la produzione totale sarebbe stata solamente di otto velivoli, alcuni dei quali prestarono certamente servizio come aerei da trasporto nella Luftwaffe e nell’ aeronautica italiana cobelligerante.

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    DA GONDAR A ROMA IN 120 GIORNI

    Tira tira, la morale sarà sempre quella del proverbio: « gallina vecchia fa buon brodo », oppure quella dell'adagio contadino: « fidati dei vecchi che hanno sempre ragione ». La storia nostra — che ebbe definizione o conclusione in un arrivo immortalato, almeno per qualche tempo, dal giornale Luce, e che cominciò all’ Asmara tra la fine del marzo scorso e i primi d’ aprile quando la città capitolò sotto la pressione nemica — sembra dimostrare appieno sia l'importanza dei proverbi, sia l’ utilità di « provare» in ogni caso, tentare a qualunque costo. E’ la storia di alcuni uomini e di un aeroplano solo (ma vecchio — e perciò giudizioso), un « CA. 133 »: il sottotenente Domenico Lusardi col suo equipaggio (tenente Clodomiro De Caro, secondo pilota; tenente Nicola Caputo, sergente maggiore motorista Renzo Barilli, e sottocapo di marina Emilio Di Biagio, marconista), addetto al trasporto degli « S. 79 » dall’ Italia a Gondar in un suo viaggio locale dovette fermarsi all’ Asmara. La città era agli sgoccioli della possibile resistenza, e dovendola sgombrare piuttosto che farla di*struggere vanamente, le forze militari l’ abbandonavano. Lusardi e il suo equipaggio a bordo di un vecchio « CA 133 », fuggono dalla città martoriata e seguono la sorte delle truppe; eccoli a Gondar prima, e quindi ad Addis Abeba, a Dessiè; eccoli a Gimma. L’ aeroplano resiste ad ogni volo, ad ogni carico; è l’ unico del suo tipo che sia rimasto nell’ Africa Italiana, e si fa onore; la sua divisa è di essere sempre presente e di rispondere sempre di «sì» Dal campo di Alomatè ai piedi dell'Amba Alagi, Lusardi e i suoi uomini riforniscono per tre volte la colonna Maraventano che opera nella regione del monte Aboté a cento chilometri a nord della Capitale. Per due tre volte incontrano i caccia nemici; il « Caproni » è disarmato (« le nostre armi restano sempre le nubi ») e solo scampo è fuggire in quota nei banchi di nuvole; i nemici giocano o vorrebbero giocare col vecchio ma giudizioso « CA » come il gatto col topo; però il topo è furbo, è esperto: Lusardi lo guida da un banco all'altro, da un gradino all’ altro di nuvole, in fuga — sì, perché la benzina «era sempre contata » e occorreva sempre tenersi sulla direttrice giusta — ma fuggire voleva dire assicurare i rifornimenti ai soldati. E tutto andava bene. Sempre da Alomaté viene fatto il rifornimento di Sifani nella Dancalia, nella fossa dancala paurosamente calda asfissiante; anche questo viaggio va bene, e dicono gli aviatori che un santo era dalla loro parte: « appena noi partiti giungevano cacciatori e bombardieri inglesi a mitragliare e spezzonare il campo. Per noi, perdere il « CA » voleva dire perdere per lungo tempo ogni speranza di fare il nostro mestiere di aviatori ». La serie di voli di rifornimenti ai presidi isolati finisce con una capotata nel pantano: il « CA » si mette sull’ attenti, ma è stato bravo, l’ unica avaria è un’ elica rotta che facilmente si può sostituire. Il tempo è passato duramente; ecco Lusardi coi suoi uomini a Gimma. Finché è possibile, vengono ripetute le azioni precedenti; ma Gimma è per cadere, siamo al 7 giugno; e sul campo sono rimasti due « C.R. 42 » e il « CA 133 » di Lusardi. Poiché Gondar resiste e sembra voglia resistere a lungo, il comando d’ Aeronautica decide di inviare gli apparecchi a Gondar, e la mattina del 7 giugno partono. Lusardi con gli altri arriva; si tratta di pochi giorni di sosta attivi e intensi. Subito inizia una serie di voli di rifornimento al presidio di Uolchefit circondato dai nemici. Giorno per giorno la piazza di Gondar si sforniva un poco per rifornire i presidi isolati e dar modo di continuare la resistenza. Il « CA » concede tutto quello che gli è possibile dare; dal 31 marzo al 15 giugno si raddoppia, si prodiga si può dire che gli crescano le forze dopo ogni eccesso; eppure la sua autonomia è limitata ad un massimo di cinque sei ore di volo, e quando, sovraccarico e armato, nemmeno può giungere a tanto; e la sua velocità di crociera non supera i 170 chilometri orari viaggiando a carico normale. Ma è disarmato, è vecchio, è ritenuto quasi inutile; e quasi a premiarlo delle sue prestazioni, il governatore Nasi ricompensa l’ equipaggio dello sforzo compiuto, e fiducioso che i giovanotti avrebbero compiuto i miracoli attesi, chiesta all’ eccellenza Cavallero l’ autorizzazione per il viaggio di ritorno, concede di partire, di ritornare in Italia; o almeno di tentare ogni cosa per tornare in Italia in volo. È l’ una di notte, l’ una e mezzo, del 15 giugno; siamo sul campo di Gondar. La partenza è stata mantenuta segreta, ma qualcosa è propalato come luce da uno spiraglio; arrivano alla spicciolata ufficiali e soldati, tutti hanno una lettera, un plico da consegnare perché sia consegnato o spedito all’ arrivo in Italia. Ecco anche il colonnello dei bersaglieri Riccardi con una lettera del generale Nasi. Ecco i civili e i militari che consegnano missive, che hanno biglietti con sopra numeri telefonici: bisognerà parlare con Milano, Roma, Genova, Pescia, Firenze, Reggio Calabria, dire che si sta bene, che si spera di andare avanti fino in fondo. Per quanto la partenza fosse stata tenuta nascosta, i piloti raccolgono dodici chili di posta. Gli addii e gli arri*vederci, gli auguri e i mille saluti; e il « CA » parte. E’ una partenza difficile, l’ apparecchio è stato attrezzato a superare le normali 5 - 6 ore di volo, il carico supera quello omologato di circa sei quintali (32 in*vece di 25 - 26); il campo non è illuminato, è in quota dove, cioè, difficile è il sostentamento per l'aria rarefatta. Gli uomini più tardi, ripensando alla partenza. dichiareranno tutti di essere stati fin dal principio sicuri di sé; ma sanno però che il viaggio è fitto di difficoltà, di grandi pericoli, sanno soltanto che partono, non sanno dove andranno a finire anche se una mèta esiste. Partono nel buio fitto. Necessità molteplici di viaggio impongono che questa gente viaggi in abiti civili, con regolari passaporti. Volano sui quattromila metri, incontrano temporali, nubi, piovaschi. Ma l’ altopiano etiopico è sorvolato, superano il territorio nemico, l’ Asmara occupata; ed ecco finalmente il mare, con la sua dolce monotonia. Un grande balzo avanti è compiuto, il motore dei « CA » macina regolarmente i suoi giri; a bordo tutto bene, solo la radio di bordo non funziona. Il mare dall’ alto è quieto e silenzioso, rasserena gli animi, promette serenità.
    Il vecchio « Caproni » alle 8,15 raggiunge Gedda nell’ Arabia Saudita senza preavviso. L’ atterraggio si giustifica come obbligato « per forza maggiore ». Ma le autorità arabe internano l’ equipaggio per contravvenzione alle disposizioni che vietano di atterrare in quel territorio senza autorizzazione preventiva. Per centodieci giorni, in una casa presso l' aeroporto, Lusardi e i suoi uomini, covano tutti l'ira più profonda e le meditazioni più nere. Le autorità arabe vanno molto lentamente; la - loro burocrazia supera qualunque parodia, la legazione italiana cerca di sciogliere dal letargo le autorità locali; finalmente l’ autorizzazione a partire e la benzina necessaria arrivano. Lusardi prepara il nuovo viaggio e prepara insieme l’ apparecchio per la tappa nuova. Il « CA » conoscerà la Siria, e farà un viaggetto fino a Beyrut; e intanto vengono effettuati lavaggi ai motori e una revisione completa. Siamo all’ antivigilia della partenza, la Siria cade nelle mani inglesi. La via di partenza è preclusa. Ire, bestemmie necessarie per riprendere fiato, ma Lusardi prende in esame una rotta nuova; il «CA» andrà non più in Siria, ma nell’ Iran — esattamente a Buchir. Gedda - Buchir è un gran volo, ma l’ apparecchio saprà resistere; gli uomini ne sono sicuri. Tutto è pronto; poche ore prima della partenza anche l’ Iran è occupato dagli inglesi. La seconda via è preclusa; ma il desiderio che hanno i nostri uomini di tornare nei ranghi dei combattenti supera le difficoltà che si mostrano e si ripetono. Non resta per il vecchio « CA 133 » che tentare la rotta di Sollum: è il punto più vicino a Gedda ed è distante oltre 1800 chilometri. E non si sa più se l’ apparecchio stavolta potrà dare quanto fino a questo momento ha dato; tre mesi all' aperto, al vento alla sabbia alla salsedine marina l’ hanno minato. E mancano i necessari serbatoi supplemen*tari, e non si hanno mezzi per adeguarsi alle necessità. Il volo più lungo che avrebbe potuto compiere il « CA » si valutava sui 1400 chilometri, e ora tutto studiato si trattava di andare verso Derna, oltre 2.000 chilome*tri. No, il viaggio è impossibile, non è più nemmeno il caso di parlarne. Ma invece se ne riparla, anzi si parla solo del viag*gio; nella casa dove gli aviatori sono chiusi, internati, non si ragiona che del viaggio prossimo, se ne ragiona come se dovesse avvenire l’ indomani. Le parole hanno svolto, hanno allungato i sentimenti, hanno mutato l’ opinione prima sulla impossibilità di compiere il gran*de volo. A metterlo in parole, vederlo ridotto in frasi, il viaggio, il lunghissimo viaggio pare meno difficile, è sempre grandemente difficile, ma è già nel piano delle possibilità, entra nello spirito come cosa fattile, rimediabile.
    Occorre aumentare l’ autonomia del « Ca*proni » a quattordici ore; è difficile, ma si rimedia; arrivano finalmente gli ottenuti cinque serbatoi supplementari; e nello stesso tempo si provano i motori per assicurarsi dei medesimi. Tutto è pronto. Siamo al 31 settembre, la partenza è fissata per il 4 ottobre. Ma tutto non è pronto. In questi pochi giorni vengono riveduti definitivamente i tre motori; la salse*dine e la sabbia hanno prodotto nuove incrostazioni, qua è da riordinare, là da rivedere, pulire, smerigliare le valvole, lavare le tubature, i cilindri. Ma il tempo della partenza passa, e si arriva all’ 8 ottobre. Il « CA » finalmente è in ordine. Domani si parte!
    La storia non può pigliare in considerazione questa vigilia che da un solo lato, quello sentimentale. E’ in piccolo una ripetizione della vigilia sul campo di Gondar. Resta fissato luogo di arrivo Derna, a 2.170 chilometri; e caricati altri 200 litri di benzina supplementare da automobile mescolata con un poco di alcole e benzolo, il carico del « CA » si presenta come nel seguente specchio: Benzina 4100 litri peso kg. 3.075; olio di ricino kg. 315; equipaggio kg. 375; apparato R.T. kg. 85; serbatoi supplementari olio e benzina, kg. 170; impianti tubazioni ecc. kg. 22; viveri kg. 15; Posta (Gondar e Gedda) kg. 39; bagaglio dell’ equipaggio e truss kg. 11.
    Con un totale di 4.107 chili Lusardi e il « CA » partono. L’ equipaggio trattiene il respiro. Prima di mettersi in rotta, viene costeggiata per circa 45 minuti la costa araba, e questo serve quasi di volo di prova. E’ il giorno 9 ottobre, la partenza è avvenuta alle 17,10 ora di Roma, con dieci quintali oltre il massimo con*sentito. La partenza ha avuto necessità di manovra, le ruote non volevano staccarsi; ma finalmente il « CA » si è trovata in aria, sospeso. Gli uomini hanno rivissuto le ore e l’ ansie dei primi aeronauti, i palpiti e gli esperimenti di trent’ anni e quarant’ anni fa, al tempo del pionerismo, quando un aeroplano impiegava venti minuti, un'ora anche per sollevarsi un metro, ricadere, saltare, volare per dieci metri. Ma l’ apparecchio non prende quota, il peso è tale che per circa un’ ora si mantiene a cento metri d'altezza. Alle 18 Lusardi si mette in rotta per Derna e già il Mar Rosso sembra assorbire il lento rumore dell'avventura. E’ buio presto, la rotta viene seguita sugli strumenti di bordo; bisogna assolutamente seguire la rotta come è stata studiata, senza più alcuna modifica. Il marconista avverte che la radio non funziona. Il « CA » e i suoi uomini sono del tutto isolati, in territorio nemico. L’ apparecchio ora si è alzato, vola finalmente in quota dopo essersi alleggerito della benzina consumata. A mezzanotte viene superato e sorvolato il Nilo, fatti segno a debole fuoco contraereo. E’ un viaggio che pretende di superare le fascette dei libri gialli: « non vi farà dormire ». E a bordo non si dorme; il tempo scorre grigio ma scorre; è lento ma passa; alle 3,30 viene sorvolata l’ oasi di Scegga; e, volando quindi sulle nubi a quota 3,500, alle 4,45 l'aereo è fatto segno a violento disordinato fuoco contraereo. Lusardi pensa di essere sulla verticale di Tobruch, e in base a tale supposizione si allontana verso nord, per ripiegare poco più tardi a ovest e riprendere la costa. Il tempo passa, il cielo muta colore; alle 5,30 il motorista avverte che resta solo mezz’ ora di carburante. Lusardi da questo momento diventa padrone della situazione, e decide di superarla. Scende al disotto delle nubi, e riconosce a 800 metri il porto di Tobruch; dalle banchine aprono contro il « CA » fuoco violentissimo; e Lusardi per evitarlo si abbassa oltre le colline della piazzaforte. Eccolo a 150 metri da terra, al riparo dal fuoco delle banchine, ma non basta, altre batterie si incendiano contro di lui, contro il vecchio « Caproni », e l’ apparecchio è colpito in più parti, e anche il motore centrale è colpito. Lusardi simula un atterraggio, il fuoco cessa. A quota inferiore ai trenta metri riaccende i motori, il centrale non risponde; ma occorre superare anche questa sorpresa amara, e il « Caproni » si allontana a due motori verso il sud mentre si riprende il fuoco delle batterie. Il motorista si è intanto accorto che la benzina manca, e con intuizione rapida, coadiuvato dall'equipaggio, smonta i serbatoi supplementari e travasa i residui di carburante per eliminare il peso dei vuoti che lancia fuori del « CA ».
    Altro quarto d' ora di volo senza fuoco antiaereo; quindi Lusardi punta verso il nord per avvicinarsi alla costa. Siamo agli sgoccioli, non c’ è più benzina; a cinquanta metri le ultime pulsazioni dei due motori, e poi il lento volo planato. La storia o piuttosto la cronaca non tiene conto dei saluti, degli abbracci dei diversi « ci siamo » esclamati dagli aviatori giunti a terra. Il « CA » aveva compiuto tutto quello che era possibile. Erano a 30 chilometri a sud di El Gazala, alle 6,25 del mattino. Ora occorreva che qualcuno si recasse a cercare aiuti. Il motorista e il marconista partono, hanno per guida due indigeni che non si sono meravigliati di vedere arrivare gente dal cielo. Il giorno passa nell’ attesa, nel caldo. Il mattino seguente un trasporto arriva con a bordo tutto quello che è necessario, olio e benzina, un ufficiale e un sottufficiale montatore; e le avarie del fuoco contraereo vengono riparate sul posto. Il 12, Lusardi e i suoi ripartono per Derna a bordo del loro trimotore. Ma ormai la storia è alla fine, e sembra ripetersi di tappa in tappa: saluti, evviva, domande, mille domande insieme e poche risposte per volta. Un telegramma del Sottosegretario per l'Aeronautica (« 5a Aerosquadra per il Tenente Lusardi ») 177 Prego esprimere Tenente Lusardi e suo equipaggio mio vivo compiacimento per brillante volo compiuto. Saluto l’arrivo del « Caproni ». Da Derna dopo qualche giorno di sosta e riposo è ripreso il volo per Brindisi. Il 19 ottobre alle 5 del mattino, e alle ore 10,45 l’ equipaggio è a Brindisi; ma non si tratta di una tappa, ora bensì di una breve sosta. Alle 17,40 Lusardi e i suoi uomini sono al campo del Littorio, atterrano.

    LORENZO BONACCORSI



    NOTA AL TESTO – Nel lungo articolo dedicato da “L’Ala d’Italia” al volo dell’I-ETIO sono evidenti almeno tre imprecisioni.
    In primo luogo il velivolo di cui vengono narrate le vicissitudini non è un Caproni Ca.133, bensì un suo derivato, il Ca.148. L’I-ETIO fu indicato come Ca.133 non certo per errore ma al solo fine di identificare un velivolo molto diffuso e ben noto all’ opinione pubblica italiana per la sua partecipazione alla conquista dell’Etiopia, tanto da essere soprannominato “Il monoplano dell’Impero”.
    In secondo luogo alla partenza da Gondar l’I-ETIO trasportava , oltre il personale nominato nell’articolo, due piloti della 410^ squadriglia autonoma. Ce ne fornisce testimonianza un pilota dello stesso reparto Antonio Giardinà, in una lettera del 23 luglio 1941 da Gondar al capitano Corrado Ricci, rimpatriato in precedenza: “Il sottotenente Folcherio e Volpe, col sottotenente Lusardi, il tenente Caputo e altri sono partiti da qui col Ca. 148 e fermati a Gedda.” Quando durante la permanenza nel paese arabo, si rese necessario per il ritorno in Italia un volo senza scalo sino a Derna, i due ufficiali rinunceranno volontariamente per lasciare posto ai serbatoi supplementari di carburante. Identificatisi dalle autorità come militari, finiranno in campo di concentramento, prima in Arabia Saudita e quindi in Sudan. Queste circostanze vennero taciute per non compromettere le relazioni diplomatiche tra l’ Italia e l’ ancora neutrale Arabia Saudita.
    In terzo luogo il testo riduce a 30 i km percorsi dall’ equipaggio nel deserto e sottacendo la presenza di militari tedeschi dell’ Afrikakorps nella zona di Derna. La motivazione è facilmente comprensibile, per motivi propagandistici l’ eroico volo doveva essere fino alla fine totalmente italiano, per non essere ancora una volta sminuiti dalla presenza del potente ma incombente alleato.
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    LA TESTIMONIANZA DEL TENENTE PILOTA NICOLA CAPUTO SUL VOLO DELL’ I-ETIO.

    « Nel giugno del 1941, dopo aver operato su tutti i fronti etiopici, mi trovavo a Gondar assediata e con soltanto tre aeroplani superstiti, di cui due Caproni 133 e un caccia CR 32 unitamente a un gruppo di piloti impossibilitati a continuare l’ attività per mancanza di velivoli.
    Con il sottotenente Lusardi riuscimmo a prendere contatto con il governatore generale Nasi e gli sottoponemmo un nostro programma, dati i mezzi a disposizione, temerario e quasi irrealizzabile: raggiungere con un Caproni l’ Italia e ritornare per portare rifornimenti e aiuti con aerei più adatti. Lo scetticismo del governatore, uomo di grande valore e di ampie vedute, fu vinto dal nostro entusiasmo. Dopo qualche preparativo, il 15 giugno del 1941 decollammo da Gondar con rotta su Gedda in Arabia, per ragioni di autonomia. Colà giunti giustificammo l’ atterraggio a causa di un principio di incendio al motore laterale sinistro, incendio che realmente era avvenuto quando stavamo ancora sul campo di Gondar. Le autorità arabe, verificati i nostri documenti personali, ci internarono nella palazzina dell'aeroporto ove restammo rinchiusi per quasi quattro mesi con quaranta gradi all’ ombra. L’equipaggio del Caproni era così composto: tenente pilota Nicola Caputo, tenente pilota Clodomiro De Caro, sottotenente pilota Domenico Lusardi, sergente maggiore motorista Barilli e sergente telegrafista Di Biase.
    A Gedda esisteva la Legazione d’ Italia diretta dal ministro Sillitti il quale si prodigò con tutte le sue possibilità, per alleviarci le pene della clausura e dopo aver superato le grosse difficoltà prese contatto con Roma e concordò con noi la rotta di partenza Gedda - Sollum: ma il nostro Caproni non aveva autonomia sufficiente a rimanere in volo per circa tredici ore nel corso delle quali avrebbe dovuto percorrere qualcosa come duemilacinquecento chilometri e in una sola tappa. Questa difficoltà non ci scoraggiò e con l’ aiuto dell'autista della Legazione italiana di Gedda riuscimmo a caricare a bordo del velivolo sei comuni fusti di benzina saldati in coppia da usare quali serbatoi supplementari.
    Il Caproni era rimasto per quattro mesi ad abbrustolirsi sulla sabbia del campo con tutte le immaginabili conseguenze sulla sua efficienza. Infatti il bravissimo motorista, che cercammo di aiutare in tutti i modi, dovette procedere al totale smontaggio di tutti i cilindri dei tre motori, con una rudimentale attrezzatura, riuscendo alla fine a farli funzionare. Il 9 ottobre, alle ore 17 locali, decollammo dall'aeroporto di Gedda per il secondo e più difficile tratto del nostro avventuroso viaggio, che iniziò con l'inseguimento dei caccia inglesi ai quali potemmo sfuggire soltanto volando a pelo d’ acqua sul mar Rosso e costeggiando per circa un'ora la costa araba. Elusa la caccia e sopraggiunta la notte, puntammo su Sollum attraversando tutto l’ Egitto, senza alcuna assistenza radio. Verso mezzanotte, nell'attraversare il Nilo, fummo inquadrati dalle fotoelettriche alle quali dovemmo sfuggire, tra le cannonate della contraerea.
    Il viaggio continuò silenzioso, aiutati nella navigazione soltanto dalla stella polare. Eravamo in volo già da dodici ore quando la scorta di carburante incominciò a esaurirsi e pertanto fu necessario, per stabilire la nostra posizione, dirottare verso il mare, perdendo gradatamente quota.
    Al di sotto di noi si stendeva un vasto strato di nubi. Era già l’ alba. Forammo le nubi e trovammo la costa quando eravamo ormai a cinquecento metri di quota, ma sfortunatamente eravamo sul cielo di Tobruch in quel periodo occupata dagli inglesi. Ci accolse improvviso e violento un fuoco infernale. Da terra e dal mare tutte le mitragliere furono puntate contro l’ala tricolore che da sola aveva osato scendere sulla piazzaforte nemica. L’ aria fu percossa, dilaniata dai proiettili che salivano contro la fragile carlinga. Fuoco dovunque, esplosioni che facevano rimbalzare l'apparecchio mettendo lunghi brividi nelle strutture metalliche.
    A quota cento, simulando un atterraggio, le mitragliere tacquero, l’ aeroplano, defilato al loro tiro, si risvegliò, cercò scampo verso il deserto. Nuovo impetuoso fuoco nemico, ma invano!
    Ritornò il silenzio, strano, incredibile, dopo tanto fragore. A pochi metri dal suolo, si riaccendono i motori, ma quello centrale tace. Il motorista alleggerisce il velivolo lanciando giù dal portello i famosi fusti vuoti, ma il carburante è ormai finito e siamo costretti ad atterrare in pieno deserto a circa quaranta chilometri a sud di Ain el-Gazala, esattamente dopo tredici ore di tormentato volo.
    Ma soltanto una parentesi del nostro viaggio era chiusa perché per noi, superato il primo momento di gioia per aver toccato terra amica, si apriva la grande incognita del deserto sconfinato, per ricominciare il calvario verso la costa sospinti dalla volontà di sopravvivere.
    Una marcia faticosa, con alterne decisioni di fermarsi e attendere la morte, ci portò dopo ventiquattro ore di sofferenze inenarrabili a Derna, dove fummo accolti, dato il pietoso stato nel quale eravamo ridotti, dalla diffidenza di un reparto tedesco.
    Riuscimmo a prendere contatto con i nostri di Derna che vennero a prelevarci per condurci al Comando. Accoglienze affettuose, commoventi e trionfali: ristoro, riposo e nuovamente ritorno nel deserto per ricuperare il famoso Caproni, rimetterlo in efficienza e con lo stesso, via con un nuovo balzo a Roma dalla quale alcuni di noi mancavamo da circa sei anni.
    Dopo quindici giorni di riposo, eccomi assegnato al SAS per ricominciare le cavalcate fino alla fine, con la tristezza, quasi ogni giorno, per aver perduto un amico o un collega. »


    NOTA AL TESTO - Il ricordo di Caputo, raccolto a distanza di quasi trent’ anni dagli avvenimenti narrati, non è esatto. Gli ultimi caccia presenti a Gondar erano due FIAT CR. 42, giunti smontati dall’ Italia. Fu uno di essi a compiere l’ ultima missione operativa della Regia Aeronautica in A.O.I. il 22 novembre 1941, venendo distrutto dal pilota il giorno precedente la capitolazione del presidio. Quanto all’ unico trimotore Caproni, esso come abbiamo già visto, era senza alcun dubbio un Ca. 148. Quanto al S.A.S. citato nel testo, per chi non lo sapesse non si trattava del notissimo reparto speciale britannico, bensì dell’ acronimo dei Servizi Aerei Speciali della Regia Aeronautica, una unità da trasporto su lunghe distanze, che impiegava equipaggi esperti e velivoli già appartenuti alle nostre compagnie aeree commerciali.

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    MOTIVAZIONE DI CONCESSIONE DELLA MEDAGLIA D’ORO AL VALOR AERONAUTICO AL COMANDANTE DELL’ I-ETIO



    Domenico LUSARDI
    nato a Ponte dell’Olio (Piacenza) l’11 maggio 1911
    Sottotenente pilota
    R.D. 23.3.1942, B.U. 1942, disp. 18, pag.838

    Pilota e navigatore di grande perizia in un momento particolarmente critico, affrontava con apparecchio non adatto per lunghi percorsi le insidie di una difficile e lunghissima rotta per raggiungere dalle più lontane subita, le ardue difficoltà incontrate, attrezzava il velivolo caricandolo oltre i limiti di sicurezza pur di raggiungere ad ogni costo la meta. Il suo generoso slancio dopo epico volo veniva coronato dal successo. Dava così prova di grande capacità professionale, di ferrea volontà, di sereno e cosciente ardimento, di profondo e purissimo sentimento patrio.

    Cielo dell’A.O.I. del mar Rosso e del Mediterraneo, 7 giugno – 19 ottobre 1941.

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    TABELLA RIASSUNTIVA DELLE SIGLE CIVILI E MATRICOLE MILITARI ASSEGNATE AI Ca. 148 OPERANTI IN A.O.I. DAL 1938 al 1941 CON LE SOCIETA’ AVIOTRASPORTI S.A. E ALA LITTORIA S.A.










    N/c. 1^ SIGLA CIVILE 2^ SIGLA CIVILE M.M. dal 10/6/1940 NOTE
    4145 I-POGG I-GOGG 60477 Catturato dagli inglesi a Cassala nel febbraio 1941
    4146 I-TERE I-TESS 60478 Distrutto (?)
    4147 I-LUIG I-LANG 60479 Distrutto a Gallabat il 10 novembre 1940
    4148 I-EDVI I-ETIO 60480 Rientrato a Roma il 19 ottobre 1941 assume la M.M. 4148
    4149 I-ROSA I-SOMA 60481 Distrutto ad Addis Abeba il 16 ottobre 1940
    4151 I-NERI I-NEGH 60482 Distrutto (?)




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    FONTI BIBLIOGRAFICHE


    Alegi Gregory - Caproni Ca 133 - La Bancarella Aeronautica - Torino, 2005

    Bandini Franco - Io c’ero - Longanesi - Milano, 1971

    Bonaccorsi Lorenzo - Storia di un “CA 133”. Da Gondar a Roma in 120 giorni - L’Ala d’Italia (a. XXII n. 24) - Roma, 16-31 dicembre 1941

    Brotzu E. / Cosolo G. - Dimensione cielo. Aerei italiani nella II guerra mondiale. Vol. VII trasporto - Edizioni Bizzarri - Roma, 1975
    Ricci Corrado - Vita di pilota - Mursia - Milano, 1976
    Trotta (a cura) - Testo delle motivazioni di concessioni delle Medaglie d’Oro al valor aeronautico - Stato Maggiore Aeronautica / Ufficio Storico - Roma, 1978


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