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Discussione: I disordini di Catania del 14 dicembre 1944.

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    I disordini di Catania del 14 dicembre 1944.

    Catania, 14-12-44. Rivolta dei “Non si parte”e incendio del Palazzo degli Elefanti.

    Propongo in questa sede un breve sunto della relazione “alle superiori autorità” sui disordini avvenuti il 14 dicembre 1944 a Catania, e culminati nel saccheggio e nell’ incendio del Palazzo del Municipio – conosciuto anche come Palazzo degli Elefanti – storica sede comunale. Fu redatta a poche ore dai fatti dal C.L.N. locale sulla base di una inchiesta condotta collegialmente da quattro esponenti dei partiti politici antifascisti: l’ avv. Vincenzo Schilirò (DC), l’ avv. Domenico Albergo (PSI), l’ avv. Ugo Sebastiano Casalaina (PCI), il prof. Francesco Geraci (PLI). E’ necessario però premettere che il tono generale del testo è pesantemente dispregiativo nei confronti dei manifestanti, definiti “ragazzacci”, “ragazzaglia”, “brutti ceffi”. Ciò non è dovuto soltanto all’ ostilità politica dei partiti antifascisti verso i renitenti, ma va spiegato in dettaglio inquadrandolo nella prospettiva storica dell’ Italia cobelligerante. Anzitutto il fatto che un rapporto ufficiale fosse redatto da membri del C.L.N. e non dai funzionari di polizia o dalla prefettura rappresenta una anomalia spiegabile dal tentativo dei partiti antifascisti di connotarsi agli occhi degli angloamericani come unici rappresentanti del popolo italiano, in aperta opposizione alle autorità del debole governo sabaudo ricostituitosi al sud fra mille difficoltà. A differenza di quanto accadeva nel nord, ancora travagliato dalla guerra civile, la composizione dei C.L.N. nelle regioni meridionali invase dagli angloamericani prima dell’ armistizio o da essi “liberate” successivamente all’ 8 settembre 1943, (ma che non avevano certamente vissuto episodi di resistenza armata contro i nazisti), non vedeva la presenza di partigiani, né tantomeno di proletari. Si trattava del riemergere di esponenti della vecchia classe politica prefascista, tutto un notabilato locale composto da privilegiati (piccola nobiltà, proprietari terrieri, intellettuali o liberi professionisti), che dopo il 1922 era generalmente andato in quiescenza, accontentandosi di vivere di rendita, sempre riverito dai “cafoni” che ne coltivavano i latifondi. A questi bisogna aggiungere un gruppo composito di individui, spesso ex- funzionari statali o piccoli burocrati compromessi a vario livello col regime durante il ventennio, che all’ arrivo degli alleati si erano autonominati capipopolo di partitini e movimenti improvvisati, accampando imprecisati meriti antifascisti e chiedendo a gran voce posti e prebende, nel tentativo di ritagliarsi un ruolo di potere nel nuovo assetto politico. Trattandosi poi della Sicilia, non bisogna dimenticare il gran numero di mafiosi tornati in auge e imposti dagli americani in posizioni di responsabilità in tutta l’ isola. Questa variegata fauna politica, seppur fra tante diversità, era accomunata dall’ ambizione per il potere e dal desiderio di continuare a “mangiare bene” appoggiandosi ai nuovi padroni yankee. Chi invece in Sicilia non mangiava bene - anzi non mangiava affatto - erano il popolo minuto, la plebe, la massa dei lavoratori agricoli, gli studenti e la piccolissima borghesia impiegatizia impoverita dalla guerra. Nel 1944 tutto il meridione conobbe una fame quasi a livelli di carestia indiana, dato che gli alleati requisivano per uso proprio tutta la produzione agricola del territorio (oppure – ed era in pratica la stessa cosa – la compravano con le inflazionatissime Am-lire prive di valore reale) e il sistema degli ammassi agricoli statali, era collassato insieme al fascismo nonostante il tentativo di Badoglio di ripristinarlo, aprendo così la strada alla borsa nera di massa. A questo punto è comprensibile come, di fronte all’ arroganza degli occupanti, all’ impotenza delle autorità regie e alle ambizioni dei politicanti antifascisti, una parte crescente della popolazione non sentendosi rappresentata da nessuno abbia potuto per disperazione, seguire con fede quasi messianica i progetti politici più singolari e velleitari, che però promettevano tutti la fine della guerra e della fame e una prosperità degna del regno del bengodi. Sia che si trattasse della rivoluzione proletaria, dell’ indipendentismo separatista o della nostalgica restaurazione del fascismo, lo scontento delle masse meridionali fu univoco: un rabbioso rifiuto della situazione esistente e l’ indisponibilità ad ulteriori sacrifici e sofferenze, qualunque fosse l’ autorità che li richiedeva. In quest’ ottica l’ imposizione più odiata era proprio la coscrizione dei giovani nel nuovo esercito cobelligerante, tanto che durante le decine e decine di rivolte dei “Non si parte” che travagliarono la breve vita del “Regno del Sud” nel 1944/45, si videro spesso comunisti, neofascisti e separatisti lottare uniti contro le forze dell’ ordine. Ecco il testo sui fatti di Catania.
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    « Il giorno 14 dicembre 1944, ci furono in Catania dimostrazioni iniziate da studenti universitari per protestare contro il richiamo alle armi delle classi 1922, 1923 e primo quadrimestre del 1924. I manifestanti portavano cartelloni con la scritta Non partiremo. Nella mattinata, dinanzi al distretto militare – contro il quale si tentò l’ assalto – trovò la morte un giovane sarto della classe 1923, a mezzo di un ordigno esplosivo. Sempre nella mattinata, fu saccheggiata, in parte, la sede dell’ associazione combattenti, da dove fu asportata e fatta a brandelli la bandiera nazionale; fu incendiato l’ ufficio Leva e fu anche saccheggiata la sede dell’ Unione giovanile Italia, in via Manzoni. Nelle ore pomeridiane furono saccheggiati e incendiati: il palazzo municipale, che andò completamente distrutto; il palazzo di Giustizia; il palazzo del Banco di Sicilia con gli annessi locali dell’ Esattoria comunale e l’ agenzia delle Imposte in via Ventimiglia.
    (…)
    Per ordine del Sindaco, verso le ore 13 fu chiuso il portone d’ ingresso di piazza Duomo. Tra le ore 13 e le 14, si presentò al municipio, e conferì col capo gabinetto del sindaco dottor Puglisi una commissione di studenti per chiedere al sindaco stesso l’ invio di una corona e di vigili ai funerali che si sarebbero dovuti svolgere all’ indomani per le vittime (*) del distretto. Venne data risposta assicurativa e fu fatto notare che era stato chiuso il portone in segno di lutto. Il comandante dei vigili urbani maggiore Musumeci, nonché diversi vigili dichiararono che nel corpo di guardia, nelle ore pomeridiane del 14 dicembre, vi fossero circa 12 agenti; altri invece dichiararono che i vigili fossero in numero maggiore, e precisamente circa venti. La verità è che i vigili presenti erano invece 28, dei quali diversi – cioè Vasta, Foti, De Benedetto, Castro, Cannizzaro, Fiorito e Bellia – per quanto di servizio in altri punti della città, avendo appreso che i dimostranti si avviavano al municipio, si recarono al corpo di guardia per mettersi a disposizione dei superiori; altri, Maugeri, Scardaci e Sgroi, arrivarono poco dopo appiccato il fuoco. Verso le ore 15,30 riversandosi i dimostranti (da due a quattrocento, in massima parte ragazzacci) in piazza Duomo, venne comandato un gruppo di vigili a stazionare dinanzi al portone della detta piazza. Arrivata la folla nella piazza, e fermatasi avanti la fontana dell’ Elefante e nei pressi del palazzo comunale, lato ovest, venne avvicinata dal comandante Musumeci, il quale, rivolgendosi al caporione (identificato in seguito nello studente Padova) per chiedere cosa intendesse fare presso la Casa comunale, estranea ai motivi per cui nella mattinata si era dato origine al turbamento dell’ ordine pubblico, ebbe chiesto in coro che venissero consegnate le armi dei vigili. Alla risposta recisamente negativa, iniziarono atti ostili contro i vigili, culminati in una fitta sassaiola contro il palazzo municipale; in seguito a ciò i vigili vennero fatti entrare nell’ interno. Dopo avere fatto chiudere lo sportello del portone, il comandante si recò dal sindaco, che stava nel suo ufficio assieme a diversi assessori, e riferitogli quanto avveniva in piazza, gli domandò ordini sul da fare. Ed egli – dice il Musumeci – senza avermi chiesto alcunché, mi rispose: Telefoni alla questura per avere rinforzi! La qual cosa fu fatta ma con risultato negativo. Dopo la sassaiola, venne lanciato contro il portone un ordigno esplosivo, ma non cedendo, venne abbattuto con gli spintoni di un grosso trave. Dal di dentro alcuni vigili avrebbero voluto agire, anche facendo uso delle pistole di cui erano tutti armati, ma fu loro proibito, e raccomandato dal comandante, dal brigadiere Guglielmino e dall’ avv. De Felice, di non fare uso delle armi e di mantenersi calmi. Entrata dopo un primo momento di esitazione, la ragazzaglia nell’ atrio del palazzo, e non trovando alcuna resistenza, fu guidata dallo studente separatista ispicese Salvatore Padova, già arrestato, il quale impartiva ordini e proibiva che venissero asportati fuori oggetti e libri, dovendo, invece, gli stessi venire bruciati si riversò negli uffici del pianterreno ed iniziò senz’ altro la distruzione di quanto in essi si trovava. Quasi contemporaneamente, il sindaco comm. Ardizzoni, dopo essersi liberato da diversi dimostranti che l’ avevano fermato ai piedi dello scalone, assieme all’ usciere Di Martino, uscì dal portone di piazza Università. Allontanatosi il sindaco, anche il comandante, i vigili e gli assessori si allontanarono, e i dimostranti, tra i quali non mancavano brutti ceffi, rimasti padroni assoluti del Palazzo, si dettero a saccheggiare ogni cosa sin quando non furono anch’ essi cacciati dal fuoco, che dal pianterreno, non venendo contrastato da alcuno, investì lestamente tutto il Palazzo. Furono avvertiti i pompieri, ma gli stessi – recativisi verso le ore 16,30 con una pompa, che rimase prima inerte per l’ opposizione dei dimostranti, e poi si ad dimostrò insufficiente – si allontanarono verso le ore 17,30 per ritornare dopo la mezzanotte, quando il fuoco aveva avvolto anche l’ ultimo piano, tutto distruggendo. Alla contestazione rivolta al comandante sig. Musumeci sul numero dei vigili presenti (28 in tutto), lo stesso ha testualmente risposto: A proposito della domanda fattami sul numero degli agenti che si trovavano in quel momento dentro il corpo di guardia, debbo fare rilevare che, quand’ anche fossero stati a mia disposizione tutti i vigili urbani, io non avrei, a norma del Testo unico della legge di pubblica sicurezza 18 giugno 1931 n. 773, potuto usare la forza contro i dimostranti se non dietro ordine dell’ ufficiale di pubblica sicurezza o, in mancanza di questo, del sindaco, stante che la mia qualifica è quella di agente della polizia giudiziaria. Sopraggiunti i dimostranti, quando essi cominciarono a far leva sul portone dopo aver lanciato una bomba a mano, io e altri avremmo voluto fare uso della pistola, ma ci fu vietato, con la raccomandazione di stare calmi e di non agire. Il comandante – è pacificamente ammesso – andò diverse volte al primo piano dove si trovava il sindaco, per riferire e chiedere ordini. Senonché, fu raccomandata la calma e dato l’ ordine di chiedere rinforzi alla questura; e quando il portone fu abbattuto, e fu cominciata la devastazione e l’ incendio, tutti gli agenti, ognuno per proprio conto – aggiungono a chiusura del racconto i vigili presenti nel palazzo municipale – ci allontanammo, non potendo isolatamente reagire, essendo rimasti sbandati e inoperosi per ordini superiori. E’ convinzione della commissione che una qualsiasi esortazione delle autorità che si trovavano nel palazzo municipale, ovvero una qualsiasi parvenza di resistenza da parte dei vigili avrebbe fatto allontanare la ragazzaglia ed evitato la distruzione dello storico palazzo. E’ doloroso doverlo rilevare, ma non se ne può fare a meno: i grandi assenti nella giornata del 14 dicembre furono proprio le autorità e la forza pubblica, che intervennero soltanto nella tarda serata. Si è sicuri di non errare affermando che ove un qualsiasi servizio di pubblica sicurezza nella luttuosa giornata, specie nelle ore pomeridiane, si fosse disposto, non ci sarebbero stati né saccheggi né incendi. Si deve infatti, alla risolutezza di due soldati di guardia, che non fuggirono, se al distretto non successero devastazioni né incendi, e se, nelle ore pomeridiane, i dimostranti – pur essendoci stato nella mattinata un morto – non pensarono affatto di ritornare in piazza San Domenico, dove, se si fosse trattato veramente di ira, sovraeccitazione popolare, si sarebbero sicuramente riversati ».
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    Superfluo ogni altro commento, resta però da notare che Carlo Ardizzoni (ultimo sindaco prefascista della città negli anni ’20 riportato al potere dagli alleati), il 18 dicembre, riunita in seduta straordinaria la Giunta, in apertura di seduta riferì sull’ accaduto, al fine da autoassolversi da ogni responsabilità: « Come sapete, il 14 scorso, doveva riunirsi la Giunta municipale per trattare notevoli e delicati argomenti di rilievo dell’ economia cittadina – esordisce il sindaco Ardizzoni –. Improvvisamente si manifestò l’ irruzione di una turba di ragazzi e di elementi torbidi diretti verso la sede del Comune, che fu circondata, fatta oggetto di sassaiola, per poi forzare tutte le entrate, anche a mezzo di bombe a mano e di grossi pali. Invano il sindaco invocò per telefono l’ intervento delle autorità –prefettura, questura, RR.CC. – e dei vigili del fuoco. Alla caserma dei RR.CC. gli fu risposto che erano disponibili appena un maresciallo e pochi militi. Forzati gli ingressi del Comune, a lui e ai pochi assessori che erano presenti per l’ imminente seduta, non rimaneva che uscire dal palazzo. Per quanto da evidenti manifestazioni fosse chiaro che i più cercavano la persona del sindaco, egli potè uscire senza essere conosciuto. Qualsiasi forma di resistenza alla violenza, se non organizzata con mezzi adeguati, sarebbe rimasta inefficace e sfruttata come pretesto per legittimare la reazione. E’ certo una macchia d’ infamia per la furia devastatrice del più cospicuo patrimonio storico, civile e spirituale della città. Il sindaco si pose subito in comunicazione telefonica col Ministero dell’ Interno, dichiarando il proposito di lasciare il suo ufficio in segno di protesta per l’ assoluto difetto di qualsiasi forma di tutela nel quale la città, le sue istituzioni, le sue memorie furono abbandonate ». Alla relazione del sindaco fa seguito una vivace discussione alla quale partecipano tutti gli assessori e attraverso cui traspare la tensione del momento. L’ onta di quanto accaduto – sostengono alcuni – ricade su tutti coloro che, dentro il palazzo, non seppero fronteggiare la situazione. La sede municipale andava difesa a tutti i costi. Ora bisognerà dimettersi. E’ il minimo che si possa fare. In quella situazione – ribattono altri – non era possibile difendere un bel niente. Non si parli di dimissioni, ché si farebbe il giuoco degli avversari politici. Illuminante appare a tal proposito l’ intervento dell’ assessore, avv. La Ferlita, tratta dal verbale redatto in quella occasione sal segretario comunale: « L’ assessore La Ferlita dichiara che non fu presente perchè ammalato, ma dalla narrazione di fatti che potè raccogliere trasse il convincimento che la responsabilità maggiore sia da attribuire ai poteri di polizia. Strana forma di abulia, di collasso, quella che consentì a poche decine di teppisti e a qualche centinaio di ragazzi di distruggere completamente la Casa comunale. L’ opinione pubblica, da lui saggiata, censura però anche gli amministratori comunali. Richiama in proposito qualche episodio del passato, quando, con opportuno e tempestivo intervento, i dirigenti del Comune poterono evitare incresciosi incidenti. La cittadinanza avrebbe preteso che qualcuno, anche senza gesti eroici, ma per solo sentimento di responsabilità, valutata la composizione della folla, avesse cercato di dissuaderla dai propositi di violenza. Egli, personalmente, condivide il comportamento del sindaco, ma in molti ambienti cittadini il sindaco non va esente da rilievi: per la difesa del patrimonio storico, civile e spirituale della città egli doveva affrontare anche il sacrificio personale, occorrendo. E’ inesplicabile che una non vistosa torma di violenti sia rimasta padrona del campo per molte ore, mentre dal Palazzo che custodisce le glorie della città, fino all’ indomani si asportavano oggetti, quadri, elementi anche di valore. Avremmo dovuto tutti collaborare per salvare il salvabile. Il Palazzo bruciò senza che nessuno abbia tentato di mettere in salvo un foglio, un quadro, un oggetto. Abbiamo il dovere di dire al nuovo prefetto che anche noi amministratori abbiamo la nostra parte di torto e che rimettiamo i nostri mandati ». (Prevalsa la proposta dell’ avv. La Ferlita, i mandati furono effettivamente rimessi, ma il nuovo prefetto Vitelli, sentito il parere del C.L.N., respinse le dimissioni, sia del sindaco sia degli assessori).

    Che dire? La vicenda di Catania dimostra l’ incapacità della classe dirigente prefascista riportata al potere dalle circostanze belliche di capire i sentimenti profondi della popolazione, avvertendo il mutamento avvenuto nelle masse meridionali a seguito della disastrosa guerra perduta, dell’ occupazione militare da parte di nemici ricchi e protervi, nonchè dell’ irrimediabile perdita di autorevolezza delle istituzioni sabaude a causa della vergognosa fuga da Roma dopo la proclamazione dell’ armistizio. I notabili locali non rappresentavano altro che loro stessi, ma pretendevano che i “cafoni” rimanessero per sempre classe subalterna, un docile strumento dei “cappelli” come ai tempi dell’ italietta giolittiana. Ma la rabbiosa ostilità delle classi inferiori, seppure espressa in maniera ideologicamente confusa e spesso violenta al limite delle jacqueries medievali, diretta contro le incarnazioni dello Stato più detestate (coscrizione obbligatoria, tasse, tribunali) aveva un preciso significato. Mostrava la volontà di essere finalmente protagonisti del proprio destino. Ciò si vide chiaramente nell’ immediato dopoguerra, quando la scelta referendaria istituzionale e la polarizzazione ideologica della nascente guerra fredda misero al centro del dibattito politico il cittadino-elettore, con un fervore mai visto in precedenza.


    (*)
    Ufficialmente gli scontri di Catania fecero una sola vittima, il giovane sarto citato nel testo, ma testimoni oculari videro numerosi corpi inerti davanti al portone del distretto militare, così si diffuse la voce tra la popolazione che molti morti fossero stati fatti scomparire senza clamore dalle forze dell’ ordine. Tale circostanza si perpetuò anche nella memorialistica postbellica. Confusa è anche la motivazione dell’ esplosione. Le bombe a mano furono lanciate sulla folla dai militari italiani rifugiatisi ai piani superiori dell’ edificio, o furono usate dai dimostranti nel tentativo di scardinarne il portone, come poi accadde poche ore dopo anche a Palazzo degli Elefanti? A tale domanda non fu data mai una vera risposta.
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    "Chissà a quale di questi alberi ci impiccheranno..."

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