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Discussione: Besprizorni in grigioverde con CSIR ed ARMIR.

  1. #1
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    Besprizorni in grigioverde con CSIR ed ARMIR.

    Soldati con le sciabole sguainate scortavano una decina di piccoli besprizornye. Camminavano rabbrividendo per il freddo, trotterellando coi piedi seminudi…
    Fedor Bogorodskij

    Torme di bambini abbandonati, pittoreschi e coperti di stracci vanno a zonzo, corrono, stanno seduti per le strade, sono i besprizornye, che vivono di aria e di sventura.
    Joseph Roth

    L’unica soluzione per lo Stato è sterminarli tutti.
    Ily’a Erenburg

    Ora resta da domandarsi se Stalin servendosene come paracadutisti vuol approfittare dei besprizorniki per vincere la guerra o se vuol approfittare della guerra per sbarazzarsi dei besprizorniki.
    Indro Montanelli

    A differenza degli alleati tedeschi i soldati italiani non sono proprio capaci di fare gli ammazzabambini.
    Lamberti Sorrentino
    __________


    Avvertenza.
    Nella lingua russa besprizornyi (al plurale besprizornye) e besprizorn (al plurale besprizorniki) hanno come significato letterale senza [bez] controllo/sorveglianza/tutela [prizor]. A partire dalla rivoluzione bolscevica del 1917 entrambi i termini vennero usati estensivamente ad indicare i milioni di bambini senza fissa dimora, orfani e abbandonati che sopravvivevano nelle città, nei villaggi e nelle campagne dell’Urss grazie all’accattonaggio, al furto e alla prostituzione. Desiderando trattare per sommi capi le vicende dei bambini di strada russi aggregati allo C.S.I.R./A.R.M.I.R. durante la 2^g.m. nel testo seguente ho scelto di utilizzare il corrispondente termine in lingua italiana besprizorni, che anche se ormai desueto al giorno d’oggi, è stato ampiamente usato nelle opere di giornalisti scrittori e storici italiani nella prima metà del novecento.

    I bambini perduti della rivoluzione bolscevica.
    Il fenomeno dell’abbandono minorile era pressoché sconosciuto nella Russia zarista, dove un bambino rimasto solo non avrebbe avuto difficoltà ad essere adottato da una famiglia o ospitato in strutture apposite sia di stampo laico che religioso, grazie alla forte religiosità e al secolare senso di solidarietà umana presente anche nelle classi più umili del popolo russo. Quella dei besprizorni è dunque una vicenda prettamente sovietica e per spiegarne l’origine bisogna partire dall’inizio. Quando durante la 1^g.m. le propaggini più occidentali dell’impero di Nicola II° vennero progressivamente occupate dagli austro-tedeschi, un gran numero di profughi civili di ogni etnia e religione provenienti da Polonia, Estonia e Curlandia cercò scampo dal nemico trasferendosi ad est. Già allora tra di loro si trovavano moltissimi minori non accompagnati, fatti partire dalle famiglie verso zone sicure o sfuggiti ai genitori nella concitazione e nel caos dello sfollamento. Nonostante le gravi carenze organizzative della arretrata struttura statale zarista, le cui scarse risorse erano quasi totalmente assorbite dallo sforzo bellico, questi sfollati di guerra vennero rapidamente e fraternamente accolti, alloggiati, curati e sfamati. Ciò fu reso possibile grazie all’ampia collaborazione fra la croce rossa, la chiesa ortodossa e quella cattolica, le comunità ebraiche e musulmane, le associazioni umanitarie e di volontariato, i sindacati, le associazioni di categoria ed un gran numero di sodalizi, enti, società commerciali e privati cittadini operanti sul territorio imperiale. Alle pubbliche donazioni di fondi, indumenti e generi alimentari contribuirono tutti gli strati della società (nobiltà, borghesia, artigiani, contadini). Come conseguenza nessun profugo di guerra soffrì veramente la fame, almeno sino all’ottobre 1917. Con l’instaurazione violenta di quella dittatura del proletariato che lo stesso Lenin definì «un potere illimitato basato sulla forza e non sulla legge», il valore della vita umana crollò definitivamente. Come conseguenza indiretta dell’abolizione delle strutture caritative pre-esistenti, disprezzate espressioni di oscurantismo clericale e umanitarismo borghese, i bambini profughi finirono in strada a mendicare e molti di essi morirono d’inedia. Furono solo i primi di una lunghissima schiera. Contestualmente allo sterminio dei nemici di classe, già dal 1917 i bolscevichi si applicarono scientemente nel tentativo di scardinare l’istituzione familiare. Il divorzio fu incoraggiato, bastava compilare e spedire al coniuge una apposita cartolina postale prestampata. Adulterio, bigamia, incesto, omosessualità e aborto vennero depenalizzati. Arresti, fucilazioni, deportazioni di massa e trasferimenti dei coniugi in luoghi di lavoro molto distanti tra loro provocarono la dispersione di un gran numero di famiglie. A ciò si aggiunse la guerra civile che provocò oltre 16 milioni di morti tra il 1918 e il 1922, privando definitivamente milioni di bambini dai loro genitori. A quell’epoca lo stesso governo comunista stimò in non meno di 7 milioni il numero dei bambini abbandonati vaganti sul territorio sovietico.
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  2. #2
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    Tentativi di recupero, tra repressione e propaganda
    Accattonaggio, mercato nero, furto e prostituzione erano gli unici mezzi di sostentamento dei besprizorni. L’accattonaggio era il primo – e più facile mezzo di sussistenza dei bambini abbandonati – ma c’erano numerose alternative. Poiché dopo aver abolito l’impresa privata lo stato sovietico si dimostrò incapace di garantire un sufficiente rifornimento di beni di consumo, la popolazione per sopravvivere dovette contare quasi esclusivamente sul mercato nero illegale, tutta una rete di piccoli commerci gestita dalla criminalità organizzata degli urka o ladri legali, tollerati di fatto dal regime. In questa situazione un gran numero di besprizorni vendevano in strada cibo, fiori ed ogni genere di chincaglieria. Anche organizzazioni statali come il monopolio del tabacco e l’associazione della stampa sovietica ricorrevano ai besprizorni come manodopera a basso costo per vendere in strada sigarette e giornali. Alcuni lavoravano come facchini nelle stazioni ferroviarie trasportando valigie o carichi pesanti, altri tenevano il posto alla gente nelle lunghe file per il pane, divenute una costante nella vita delle città. Sciami di giovanissimi accattoni e borsaioli affollavano stazioni ferroviarie, mercati, cinema e teatri. Piccoli ladri svaligiavano giornalmente le abitazioni private. Al fine settimana e durante le festività religiose i besprizorni si accampavano fuori dalle chiese e dai cimiteri, per chiedere l’elemosina ai fedeli. Durante l’inverno una onda incessante di giovani senzatetto cercava di sfuggire ai rigori del clima affollandosi nei locali pubblici. Le dispute territoriali fra gruppi rivali di besprizorni venivano risolte in furibonde risse a colpi di bastone o di coltello. Decine di migliaia di bambini, maschi e femmine, incapaci di elemosinare o di rubare finirono sul mercato del sesso. Molti vendevano il proprio corpo in cambio di cibo o di un letto dove passare la notte al caldo. Besprizorni riunitisi in bande di dieci o quindici individui tendevano agguati ai passanti derubandoli dei loro averi. Non solo vecchi, donne e bambini, ma persino uomini sani e robusti erano perennemente soggetti al rischio di venire derubati in strada e nella peggiore delle ipotesi, accoltellati o picchiati a morte. Le costanti attività illegali e la vita di strada portarono i besprizorni a contatto col sottobosco della criminalità adulta e i più capaci di loro ne impararono i metodi, andando a formare una nuova generazione di urka. Le dipendenza da alcool e tabacco era comune fra i besprizorni e quando nella prima metà degli anni venti il consumo di cocaina si diffuse nelle maggiori città la rete degli spacciatori risultò composta generalmente da minori al di sotto dei 12 anni, che di solito erano anche consumatori. Di fronte a quello che era ormai diventato un gravissimo problema sociale di ordine pubblico, i bolscevichi proclamarono al mondo la loro volontà di eliminare definitivamente la piaga dei bambini abbandonati salvandoli dalla strada e redimendo quella che consideravano «la prima generazione della rivoluzione» destinata secondo la propaganda ad ereditare le meravigliose conquiste della società comunista (1). Nutrire, vestire ed educare una significativa parte della gioventù del paese si dimostrò un programma sin troppo arduo. Le agenzie governative crearono una rete di orfanotrofi socialisti, destinati ad allevare le nuove generazioni. Inizialmente esaltato dal trionfo della rivoluzione, il regime bolscevico era determinato a rimpiazzare la famiglia borghese con asili socialisti e istituzioni amministrate dallo stato, al fine di comunistizzare sin dalla culla le nuove generazioni (negli anni venti la pedagogia sovietica era famigerata almeno quanto la psichiatria sovietica lo sarebbe stata negli anni settanta). IlNarkompros (Commissariato del Popolo all’Educazione) si assunse la responsabilità primaria di raccogliere i besprizorni in orfanotrofi, comuni di lavoro e centri di accoglienza che avrebbero dovuto fornire loro alloggio, educazione, avviamento al lavoro e indottrinamento politico, al fine di strappare il maggior numero di bambini alla strada. Ma al di la delle iniziative propagandistiche, risorse e strutture non furono mai disponibili in misura sufficiente. Di conseguenza il numero dei besprizorni redenti fu molto inferiore alle aspettative. Soprattutto a causa della vita randagia che erano costretti a condurre ai margini della società, essi erano naturalmente ostili all’ideologia comunista e nonostante le continue retate effettuate nelle strade dalla Milizia, non appena possibile fuggivano dagli orfanotrofi. Inoltre era la natura stessa del potere sovietico a creare sempre nuove leve di orfani e diseredati.

    - - - Aggiornato - - -

    Le carestie come arma di sterminio di massa
    Sin dall’inizio la carestia di stato venne cinicamente usata dal potere sovietico come arma di sterminio di massa contro tutte le popolazioni contadine recalcitranti, ma specialmente contro l’Ucraina, da sempre considerata la più refrattaria e nazionalista delle repubbliche sovietiche (negli anni della guerra civile il potere a Kiev passò di mano almeno 13 volte) e dunque soggetta a ricorrenti purghe nel tentativo di russificarla a forza, alterandone la demografia mediante l’eliminazione fisica di gran parte dei suoi abitanti (2). Nel 1921/22, per ordine di Lenin appositi reparti armati requisirono con la forza ai contadini ben 550.000 tonnellate di grano e una quantità imprecisata di altri generi alimentari. Il risultato fu una tremenda carestia che costò oltre 5 milioni di morti e rischiò di portare al tracollo lo stato sovietico. In quell’occasione Lenin fu costretto dalle circostanze ad accettare per la prima ed ultima volta aiuti alimentari dai paesi capitalisti, ammettendo malvolentieri in territorio sovietico delegati di numerose agenzie umanitarie e ciò spiega perché la grande carestia del Volga fu la più conosciuta all’estero, nonché la sola documentata fotograficamente da cittadini stranieri (3). In seguito la collettivizzazione forzata delle terre decisa da Stalin nel 1929 ebbe conseguenze altrettanto catastrofiche. Secondo documenti della N.K.V.D. nel solo 1930 ebbero luogo in tutta l’Urss più di 14.000 rivolte popolari, sollevazioni armate o manifestazioni di massa contro il potere sovietico, cui parteciparono oltre 2 milioni e ½ di contadini. In altri casi le popolazioni rurali accettarono solo formalmente di aderire al decreto di collettivizzazione, salvo poi macellare tutto il bestiame grosso e minuto: mucche, buoi, cavalli, maiali, galline, oche. In grandi tavolate gli abitanti di interi villaggi si ingozzarono letteralmente di cibo pur di non lasciar nulla agli attivisti del partito, distruggendo così il 60% del patrimonio zootecnico nazionale. La spietata repressione che ne seguì fu attuata ricorrendo a contingenti di cavalleria, artiglieria, carri armati, aeroplani e gas asfissianti. Inizialmente si arrestarono, deportarono o uccisero solo i capifamiglia, poi tutti i membri maggiorenni dei nuclei familiari, infine divenne abitudine fucilare in massa anche i bambini rimasti orfani, poiché nessun estraneo avrebbe osato prendersi cura di loro. Al genocidio dei kulaki (considerati ricchi solo perché possedevano una mucca o la loro isba aveva una finestra in più o assumevano braccianti stagionali durante la mietitura) fece seguito una nuova carestia, dato che in molte zone non vi erano più agricoltori esperti a seminare i campi. Nella sola Ucraina morirono di fame oltre 5 milioni di persone tra cui moltissimi bambini. Nelle fertili regioni del Kuban, del Don, del Volga e nel Kazakistan vi furono altri 2 milioni di morti (ma Stalin parlandone con Churchill a Yalta nel 1945 ammise che il totale delle vittime ammontava ad almeno 10 milioni). Molti genitori abbandonarono i figli, altri li portarono a mendicare in città, altri ancora si limitarono ad ucciderli. I casi di cannibalismo, già riscontrati nel 1921/22, divennero dieci anni dopo frequentissimi, rappresentando un vero fenomeno di massa che diede vita al noto luogo comune dei comunisti che mangiavano i bambini. Vi fu perfino chi giunse a profanare le tombe per cibarsi dei cadaveri e i cimiteri erano sorvegliati da guardie armate. Secondo una popolare barzelletta dell’epoca, in Urss morire era facile, il difficile era restare sepolti. Ancora nel 1941, nel solo campo di detenzione delle isole Solovki, scontavano l’ergastolo oltre duemilacinquecento cannibali condannati durante la grande carestia. In realtà le requisizioni forzate che durarono sino al 1933 erano indispensabili al governo sovietico per immagazzinare grandi quantità di cereali destinate all’esportazione in cambio di valuta pregiata. Nel tentativo di riportare l’ordine fu vietato ai contadini di spostarsi nelle città in cerca di cibo. Con la legge del 7 agosto 1932 ogni furto o danneggiamento di una proprietà socialista era diventato punibile con 10 anni di reclusione o con la pena di morte. Nel primo anno della sua entrata in vigore, oltre 125.000 contadini sorpresi a spigolare dopo la mietitura vennero imprigionati ed oltre 50.000 uccisi. I campi coltivati erano cintati con filo spinato e circondati da terrapieni su cui vigilavano guardie armate iscritte al partito. Si veniva passati per le armi sul posto per il furto di cinque spighe di grano o di una patata. In quel periodo vari metodi di eliminazione furono applicati per liberare le strade delle città dalle bocche inutili (ovvero chiunque fosse estraneo all’apparato di partito, inclusi nemici di classe, mendicanti, prostitute, ciechi, handicappati, cantastorie, poeti girovaghi, alcolizzati, anziani non autosufficienti, fedeli e clero ortodosso, adepti di sette religiose, stranieri irregolari, contadini affamati, kulaki in fuga e bambini abbandonati). Durante la carestia staliniana in pochi mesi a Stavropol morirono in 20.000, a Krasnodar in 40.000, a Kharkov in 120.000, tanto che il console italiano presente in città descrisse esplicitamente la situazione in un rapporto ufficiale inoltrato al governo fascista ma secretato per volontà di Mussolini, che aveva tutto l’interesse a mantenere i buoni rapporti commerciali esistenti tra Italia e Urss.
    Da una settimana sono stati mobilitati dei dvornik in grembiule bianco, che girano la città, raccolgono i bambini e li portano al più vicino posto di polizia. […] Verso mezzanotte cominciano a trasportarli con i camion alla stazione merci di Severno-Donec. Colà vengono concentrati anche i bambini che vengono raccolti nei villaggi, che vengono trovati nei treni, le famiglie dei contadini, gli individui più vecchi, che vengono rastrellati durante il giorno nella città. Vi sono dei sanitari […] che fanno la cernita. Quelli che ancora non sono gonfi e presentano qualche garanzia di potersi rimettere, vengono inviati alle baracche della Cholodnaja Gora, dove entro capannoni, su paglia, agonizza una popolazione di circa ottomila anime, in grandissima parte bambini. […] I gonfi vengono avviati con un treno merci verso la campagna, e abbandonati a 50-60 km. dalla città, ove presto muoiono di fame e di freddo.
    Mentre negli anni trenta in tutta l’Urss milioni di contadini morivano d’inedia, nelle città si faceva la fame e il pane era razionato. Per il comune cittadino nel paradiso sovietico restavano totalmente introvabili a patto di non comperarli in dollari nei Torgsin (negozi speciali riservati alla nomenclatura del partito e agli stranieri) un gran numero di merci e manufatti tra cui libri, candele, cemento, abiti, carbone, maniglie e serrature, materiale elettrico, carburante, vetro, utensili da cucina, fiammiferi, metallo, semi di cipolla, carta da scrivere e da imballaggio, benzina, gomma, sale, sapone e spago. Gli unici generi non soggetti al razionamento erano i fiammiferi ed i semi di girasole. Ma nello stesso periodo si allestivano villaggi “Potemkin” creati appositamente per ingannare i visitatori stranieri con finti segni di floridezza. Tali villaggi ostentavano abbondanza di cibo, bestiame, ogni genere di beni di consumo. Gli abitanti erano robusti braccianti e floride mandriane pronti ad inneggiare alle strabilianti conquiste della rivoluzione (in realtà agenti della N.K.V.D. di entrambi i sessi, specialmente nutriti ed istruiti per la bisogna). Persino gli alberi non avevano radici, ma venivano piantati in solchi scavati lungo le strade poche ore prima dell’arrivo delle delegazioni occidentali in visita guidata.
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  3. #3
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    La “legalità sovietica” contro i besprizorni
    L’anno 1935 segnò una nuova ondata di persecuzioni politiche in Urss e ciò ebbe conseguenze nefaste anche per i besprizorni, dato che di fronte all’evidente fallimento delle politiche volte al loro recupero sociale si passò ad una vasta campagna repressiva. Un decreto del 7 aprile di quell’anno equiparò i bambini sopra i 12 anni agli adulti, rendendoli passibili di tutte le misure della giustizia penale, pena di morte inclusa. Tale misura voluta espressamente da Stalin, mirava ad accelerare legalmente l’eliminazione della moltitudine di orfani inselvatichiti e allo sbando creati dalla dittatura. Dunque un gran numero di minori vennero rinchiusi in centri correzionali, spediti nei Gulag o fucilati. Il suddetto decreto metteva ufficialmente i minori, al pari degli adulti, nelle mani degli specialisti del N.K.V.D. che con i loro ben collaudati metodi di tortura sapevano estorcere a chiunque le confessioni più inverosimili. Si riporta a titolo di esempio il caso di un bambino di soli dieci anni colto a rubare patate, che dopo una intera notte di interrogatori ammise sotto tortura «di essere entrato a far parte di una organizzazione terroristica antisovietica al soldo dei capitalisti e dei fascisti» da ben sette anni (ovvero da quando di anni aveva solo tre). Ovviamente fu condannato a morte e fucilato. Prima del 1937 non vi erano speciali direttive su come trattare i figli dei nemici del popolo incarcerati o fucilati (parliamo di circa settecentomila bambini che avevano perso i genitori nelle grandi purghe staliniane). In quell’anno il Politburo decise che i figli dei nemici del popolo andavano riuniti in normali orfanotrofi dipendenti dal Narkompros ma a gestirli doveva essere personale del N.K.V.D. appositamente addestrato. Secondo l’ideologia comunista le tendenze criminali erano un fattore ereditario, dunque gli orfanotrofi servivano soprattutto a «prevenire il formarsi di idee controrivoluzionarie suscettibili di contaminare la società». Di fatto gli orfanotrofi divennero prigioni per bambini, dove si praticavano il culto della personalità e la delazione politica, come ovunque in Unione Sovietica. Anche in mancanza di ordini espliciti i figli dei nemici del popolo erano pesantemente discriminati e di frequente venivano picchiati, derubati, affamati o violentati dal personale degli orfanotrofi. Veniva sottratto loro anche il cognome essendo iscritti nei registri con false generalità. Ogni minima disobbedienza era considerata una insurrezione controrivoluzionaria e duramente repressa. Se giudicati socialmente pericolosi potevano essere inviati senza processo nelle colonie per delinquenti minorili gestite dalla N.K.V.D. e comunque i minori al di sopra dei 15 anni erano di solito condannati a 5 anni di detenzione nei Gulag per detenuti adulti in quanto membri della famiglia di un traditore della madrepatria. E’dunque evidente che non si riuscì mai a debellare il fenomeno dei besprizorni perché sempre nuove masse di bambini abbandonati si avvicendavano a causa delle continue persecuzioni contro innumerevoli classi sociali.
    Le ricorrenti ondate repressive scatenate dal regime sovietico tra la rivoluzione d’ottobre e la 2^ g.m. sono sintetizzabili come segue:


    • Guerra civile, rappresaglie e terrore rosso nel 1918/21.
    • Carestia di Lenin nel 1921/22.
    • Collettivizzazione forzata e sterminio dei kulaki nel 1929/33.
    • Carestia-terrore di Stalin nel 1933.
    • Processi politici e purghe contro società civile, intellettuali, burocrazia, partito e forze armate nel 1936/38.
    • Repressione e deportazione delle popolazioni non sovietiche annesse dopo il patto Ribbentrop-Molotov (romeni della Bessarabia, estoni, lettoni, lituani, finlandesi della Carelia, abitanti della Polonia orientale) nel 1939/41.
    • Invasione nazista (Operazione Barbarossa) e vittime di guerra a partire dal 22 giugno1941.
    • Trasferimento forzato dei civili ad est in base alla strategia della “terra bruciata” nel 1941.
    • Deportazione di popolazioni ritenute filo-asse (tedeschi del Volga, italiani di Crimea, tatari di Crimea, calmucchi, ceceni, ingusci, circassi, balcari, greci, bulgari, armeni, turchi mescheti, curdi e chemscini) nel 1941/44.



    __________

    Dalla strada alla guerra

    Nonostante che il dittatore georgiano fosse stato incensato per oltre un decennio dalla propaganda di regime come protettore dei bambini sovietici – lo slogan più diffuso era “Grazie compagno Stalin per la nostra meravigliosa infanzia” – quando nel 1941 le armate tedesche penetrarono come il burro le difese dell’Armata Rossa occupando vaste porzioni di territorio (4) si imbatterono in molte centinaia di migliaia, forse milioni, di minori non accompagnati. Maschi e femmine di età variabile tra pochi mesi e 17 anni, sopravvivevano di elemosine e piccoli furti aggirandosi senza meta nelle città e nelle campagne. Fin da subito l’atteggiamento dei nazisti verso i besprizorni non fu certo amichevole. Se generalmente li ritenevano un peso inutile ed un ostacolo alle operazioni militari poiché vagavano senza alcun controllo, il fatto che fossero privi di documenti li rendeva fortemente sospetti di spionaggio. Per iniziativa dei comandi locali venivano sbrigativamente allontanati dalle retrovie del fronte, spesso deportati e a volte fucilati. A questo proposito bisogna però ammettere che i sospetti di spionaggio non erano del tutto immotivati, dato che la Stavka – l’alto comando militare sovietico – infiltrava abitualmente tra le masse di profughi civili giovanissimi d’ambo i sessi per compiere missioni di spionaggio, sabotaggio e terrorismo oltre le linee. Generalmente si trattava di adolescenti sovietici iscritti alla organizzazione giovanile comunista Komsomol, oppure bambini spagnoli portati in Urss alla fine della guerra civile, ma anche besprizorni selezionati tra i più asociali e inclini alla violenza, addestrati in appositi collegi gestiti dal N.K.V.D. o dall’Armata Rossa. Poiché tali missioni di disturbo erano senza ritorno, i besprizorni considerati irrecuperabili dal potere sovietico risultavano spendibili senza rimorsi e venivano lanciati allo sbaraglio nelle retrovie nemiche (di questi paracadutisti bambini ne parlò ripetutamente anche il grande Indro Montanelli negli articoli pubblicati sul Corriere della Sera nel 1941 come corrispondente di guerra dal fronte russo). Di conseguenza seppur tardivamente, dal 1943 l’atteggiamento degli occupanti nazisti cambiò in modo significativo e l’Abwehr – l’intelligence militare tedesca – sostenne apertamente l’opportunità di servirsi per le attività di spionaggio dei besprizorni minorenni, ad imitazione di quanto fatto sino ad allora dai sovietici.

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    Besprizorni in U.R.S.S. fino al 1945
    Se ciò accadeva nelle regioni occidentali conquistate dai nazisti e lungo una linea del fronte che nel 1943 si estendeva da Leningrado alle montagne del Caucaso passando per Stalingrado, la maggior parte dei besprizorni rimasti in territorio sovietico – ed erano molti milioni – non se la passavano meglio. Oltre 200.000 di questi bambini furono obbligati a lavorare nelle fabbriche di materiale bellico con turni massacranti senz’altra retribuzione che un tozzo di pane. Altri vennero arruolati a viva forza per riempire gli spaventosi vuoti che si aprivano nell’Armata Rossa. La maggior parte di loro però continuò a sopravvivere di espedienti, diventando manovalanza dalla criminalità comune postbellica. Ancora nei primi mesi del 1945 la Smersh (il servizio di controspionaggio campale del N.K.V.D. aggregato all’esercito) in aggiunta ai suoi compiti istituzionali dovette occuparsi anche di radunare e rimpatriare a forza orde di ragazzi di strada. Costoro erano giunti illegalmente nella Prussia Orientale per poi dilagare, seguendo l’avanzata delle truppe sovietiche, al solo scopo di derubare i civili tedeschi. Nonostante quei territori fossero semi-spopolati e in rovina dopo le distruzioni, i massacri e gli stupri di massa perpetrati dalle truppe di prima linea dell’Armata Rossa, ai besprizorni venuti dalle plaghe più profonde della Siberia e degli Urali – dove c’era penuria di tutto – le case abbandonate dai più poveri tra i contadini del Reich dovettero sembrare quelle di grandi capitalisti. Indumenti, calzature, biancheria, tagli di stoffa, orologi, macchine fotografiche, strumenti musicali, macchine da cucire, stoviglie, posate, sementi, utensili da lavoro, cibi in scatola, alcolici, sapone, medicine, lampadine, cavi elettrici, tegole, mattoni e persino i vetri delle finestre finivano nei capaci fagotti dei giovani saccheggiatori, alimentando un fiorente mercato nero in patria gestito da criminali adulti.
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  4. #4
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    Con gli italiani al Fronte Russo 1941/1943
    Quando nel 1941 il primo contingente delle nostre truppe - il C.S.I.R. del generale Messe - giunse in territorio sovietico, le popolazioni civili in genere si accorsero subito della profonda differenza tra italiani e germanici. I besprizorni apprezzarono soprattutto l’umanità dei nostri soldati e la propensione a condividere con loro il proprio rancio. Ben presto non vi fu reparto che non avesse le proprie piccole mascotte al seguito, sempre disposte a fornire piccoli servizi in cambio di pane. Il passo successivo fu naturale, ed avvenne in maniera spontanea. Poiché nelle prime settimane era accaduto spesso che nostre autocolonne, cercando di intendersi a gesti coi contadini locali avessero rischiato di finire oltre le linee sovietiche, qualcuno fra gli autieri ebbe l’idea di servirsi di quegli orfanelli come guide e interpreti. Resi scaltri dalla vita randagia, pratici dei luoghi, in grado di apprendere l’italiano più rapidamente di quanto i nostri soldati potessero padroneggiare il russo e mortalmente ostili al comunismo, i più grandicelli e affidabili tra i besprizorni furono rivestiti di uniformi grigioverdi senza stellette ed aggregati ufficiosamente ai vari reparti, seguendone la sorte fino all’ultimo. Da poche centinaia, queste “guide indigene” divennero migliaia l’anno successivo all’arrivo dell’A.R.M.I.R. tanto che alla fine essi erano presenti ovunque, dal fronte del Don ai più lontani comandi tappa nelle retrovie. Le drammatiche condizioni di vita dei besprizorni furono anche mostrate apertamente all’opinione pubblica italiana grazie ad alcuni reportage fotografici dal fronte russo, apparsi nel 1941/42 sulla rivista illustrata Tempo a firma del corrispondente di guerra Lamberti Sorrentino. Il giornalista prese coraggiosamente posizione contro la condotta di guerra dei tedeschi. Naturalmente i nazisti se la legarono al dito e dopo l’armistizio rinchiusero Sorrentino in un Lager, ma sopravvisse fortunosamente al conflitto e nel dopoguerra militò attivamente nel Pci. In seguito al collasso del fronte durante l’offensiva invernale sovietica “Piccolo Saturno” e la conseguente drammatica ritirata che vide tante sofferenze ed eroismi da parte dei nostri militari, tra gli scampati dalla sacca c’erano ancora un piccolo numero di besprizorni, che scelsero di seguire gli italiani al momento del rimpatrio. Erano bambini e ragazzi in massima parte di etnia russa, bielorussa o ucraina, ma tra loro c’era anche qualche asiatico.

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    Besprizorni in Italia 1943/1945
    Arrivati al Brennero via treno, giunsero con gli scampati della grande ritirata nei campi contumaciali allestiti in Alto Adige, trascorrendovi un periodo di isolamento. Alcuni tra i ragazzi più grandi manifestarono l’intenzione di aggregarsi ai Cosacchi dello Squadrone di Campello (del quale parleremo in seguito) e furono avviati a una scuola militare del Regio Esercito. Gli altri vennero affidati a istituti professionali retti da religiosi a Roma e nell’Italia settentrionale, affinchè potessero imparare un mestiere. Dopo l’armistizio alcuni catturati in divisa italiana vennero deportati in Germania insieme agli IMI, ma per la maggior parte si arruolarono (più o meno volontariamente) nei reparti tedeschi, nella R.O.A. di Vlasov o fra i Cosacchi di Krasnov in Carnia. Qualcuno finì persino nelle FF.AA. della Repubblica Sociale Italiana. Infatti un paio di besprizorni che l’8 settembre 1943 si trovavano ancora a Verona presso i ferrovieri del Nucleo Tradotte Est appena rientrati dal fronte orientale, si arruolarono nel Btg. Bersaglieri Volontari “Benito Mussolini”. Altri furono cooptati dalle reti spionistiche tedesche e fasciste con incarichi di varia natura. A Roma nel 1944 tra i delatori di Don Giuseppe Morosini ci fu un adolescente ucraino di nome Piotr che lavorava come agente provocatore per le SD. Pochissimi entrarono nella resistenza o finirono nel giro della criminalità comune italiana. Però durante la R.S.I. alcuni besprizorni erano ancora ospitati nell’Istituto Artigianelli Don Orione di Venezia e seguivano un corso per apprendisti tipografi. Nell’inverno 1944/45 furono filmati dagli operatori del Cinegiornale Luce, che da Roma aveva trasferito la sua sede nella città lagunare. Questi ragazzi russi apparvero in un cinegiornale e in un servizio fotografico del settimanale L’Illustrazione Italiana.
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  5. #5
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    Rimpatri forzati e repressione staliniana
    Seppur uscita vincitrice dal conflitto, al termine della Grande Guerra Patriottica l’Urss lamentava 25 milioni di morti e 25 milioni di senzatetto (aveva ancora sul suo territorio ben 2 milioni e 500 mila besprizorniki vaganti). Erano andati distrutti 70.000 villaggi, 1.700 città, 32.000 fabbriche, corrispondenti ad oltre 1/3 della ricchezza nazionale. Tutto il confine occidentale era reso insicuro dal “banditismo”. Questa definizione generica indicava le guerriglie anticomuniste animate da nazionalisti baltici, ucraini, caucasici, polacchi, elementi del R.O.A. e sbandati tedeschi che continuarono a battersi contro il potere sovietico ben oltre il 1956 (5). Il paese era sconvolto da una gravissima carestia mai ammessa dagli organi governativi. Malnutrizione e condizioni di vita sfociarono in ripetute epidemie di colera, vaiolo e peste. Nel 1945 fu redatto il quinto piano quinquennale, che aveva l’obiettivo di re-industrializzare il paese ripartendo praticamente da zero, anche grazie all’enorme bottino di materiali e nuove tecnologie fatto ai danni della Germania nazista. Ma la necessità di mantenere una economia di potenza militare per tenere sotto controllo i paesi occupati dell’Europa orientale ed allo stesso tempo fronteggiare gli Stati Uniti nella nascente guerra fredda, privilegiarono in percentuale sempre crescente il complesso militare-industriale a discapito dei bisogni della popolazione. Ciò provocò un gap con le nazioni capitaliste occidentali, destinato ad ampliarsi progressivamente sino a diventare incolmabile. Al momento del crollo del comunismo nel 1991 il paese era regredito a livelli di povertà, malnutrizione, malattia e mortalità infantile degni del terzo mondo, tanto che l’Unione Sovietica veniva definita spregiativamente come un Alto Volta coi missili. Nonostante tali enormi problematiche nel 1945/46 sforzi sovrumani vennero fatti per rimpatriare su ordine diretto di Stalin tutti i cittadini sovietici comunque presenti all’estero. Prigionieri di guerra e collaborazionisti, cosacchi e uomini di Vlasov, deportati politici e sinceri comunisti, ex-SS ed ebrei sopravvissuti ai campi di sterminio, profughi di guerra e lavoratori coatti nelle fabbriche del Reich, nonché moltissimi valorosi combattenti nelle file dei movimenti partigiani europei. Tutti indistintamente furono rimpatriati a forza con l’ottusa e volenterosa collaborazione delle forze armate britanniche e statunitensi nonché dei rispettivi governi, ansiosi di blandire lo “Zio Joe”. Solo i più politicamente compromessi furono uccisi appena varcato il confine sovietico. Gli altri finirono nell’Arcipelago Gulag, accomunati nello stesso destino a centinaia di migliaia di eroici reduci dell’Armata Rossa, colpevoli solo di aver visto le reali condizioni di vita della popolazione nelle nazioni occidentali. Il paranoico Stalin nella sua patologica insicurezza temeva – non a torto – che l’inevitabile paragone tra il paradiso sovietico e gli stati capitalisti portasse al diffondersi tra la popolazione civile e i soldati di istanze libertarie, come accaduto nella Russia zarista con la congiura militare dei Decabristi. Alcuni dei besprizorni ancora presenti in Italia furono rimpatriati a forza dagli angloamericani insieme alle migliaia di sovietici collaborazionisti catturati in uniforme tedesca sul fronte italiano rinchiusi in vari campi di concentramento specifici, il più grande dei quali fu il PWE 338 di Coltano (Pisa) che aveva una estensione di 423mila metri quadri. Altri si imboscarono grazie a famiglie amiche o alla chiesa cattolica e nel 1948 chiesero la naturalizzazione italiana oppure raggiunsero le comunità di emigrati russi in esilio all’estero.
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  6. #6
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    Altre presenze sovietiche in Italia

    Cosacchi
    Nel 1942 presso il Comando della 8^ Armata Italiana in Russia fu creato un reparto a cavallo arruolando volontari cosacchi e denominato “Banda Campello” dal nome del suo comandante, il maggiore di cavalleria Ranieri di Campello. L’unità raggiunse la forza di alcune centinaia di uomini riuniti in una sotnja, equivalente nella tradizione cosacca ad uno squadrone. Visti i favorevoli risultati ottenuti dai volontari come esploratori e informatori al servizio dell’Ufficio Informazioni dell’A.R.M.I.R. era stato previsto di formare due Rgt. cosacchi (uno di cavalleria ed uno di fanteria) reclutando in loco altri 2.000 uomini, previa autorizzazione dell’alleato germanico e dell’Atamano cosacco del Don. L’offensiva sovietica del dicembre 1942 vanificò tale progetto e la “Banda Campello” seguì le truppe italiane in ritirata, condividendone il destino. Quando nel marzo 1943 Campello fu rimpatriato per ferite l’unità assunse la denominazione di “Gruppo cosacco Savoia” e il comando fu assunto dal capitano Giorgio Stavro Santarosa. Il reparto, ridotto a 200 uomini, una volta giunto in Italia nel giugno di quell’anno fu accasermato a Maccacari (VR) dove si provvide a riorganizzarlo e riequipaggiarlo integrandovi superstiti di altre formazioni ausiliarie russe, russi bianchi naturalizzati italiani e volontari tratti dalla colonia di cosacchi zaristi rifugiatasi in Albania sin dagli anni venti. Si tentò anche di reclutare volontari tra i russi anticomunisti presenti nella Francia meridionale, occupata militarmente dalla 4^ Armata del generale Vercellino, ma con pochi risultati a causa dell’ostruzionismo da parte dei tedeschi e del governo francese di Vichy. A fine agosto la denominazione dell’unità fu cambiata in “Banda irregolare cosacca” ordinata su un Comando italiano, un Comando cosacco subordinato e tre sotnje cosacche, per un totale di 257 cavalieri, inclusi i 14 del Comando italiano, ma le cose procedevano a rilento. L’armistizio colse il reparto in procinto di essere trasferito in Albania alle dipendenze della 9^ Armata come unità antiguerriglia, ma ancora privo dei mitra Beretta promessi in sostituzione dei Ppsh 41 sovietici. A seguito di ripetute richieste di disarmo avanzate dai tedeschi tra il 9 ed il 12 settembre, il comandante Stavro Santarosa prima di decidere il da farsi convocò secondo l’uso tradizionale cosacco la rada, assemblea democratica di tutti i cosacchi in armi. Ascoltato il parere dei sottoposti, il 13 settembre l’ufficiale dispose lo scioglimento e la dispersione temporanea del Gruppo, ritirandosi poi nella sua tenuta di Cormons (GO) seguito solo dall’attendente cosacco. A quel punto i volontari presero strade diverse. Un plotone passò in blocco ai tedeschi che lo trasferirono sul fronte di Cassino, dove fu completamente annientato. Altri cosacchi combatterono a fianco dei partigiani, ma la maggior parte finirono per unirsi alle truppe dell’Atamano Krasnov, trasferitesi in Carnia nel 1944. Al termine del conflitto, alcuni dei sopravvissuti chiesero la cittadinanza italiana motivando la richiesta con l’aver prestato servizio nel nostro esercito.
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    Ausiliari ucraini
    Il giornalista italiano Arnaldo Cappellini, corrispondente di guerra al seguito dell’A.R.M.I.R. per Il Secolo Sera e L’Illustrazione Italiana dal luglio 1942 al gennaio 1943, ricordò nel dopoguerra una sua visita al campo di prigionia allestito dal XXXV C.d’A. (ex- C.S.I.R.) a Karynskaia nel settembre 1942, dove tra i prigionieri erano stati ripristinati il saluto e il regolamento di epoca zarista (mentre il rancio era identico a quello delle truppe combattenti italiane). Cappellini scrisse che lavorando sei ore al giorno in aziende agricole nei dintorni “le pattuglie di prigionieri russi vengono avviate al lavoro al comando di sottufficiali, sotto la scorta di soldati ucraini al nostro servizio”. Secondo il giornalista le guardie ucraine in questione, dipendenti dall’ufficio informazioni del Corpo d’Armata, avevano in dotazione fucili russi e vestivano “l’uniforme grigioverde nostra con al bavero mostrine azzurro-giallo come la bandiera nazionale ucraina e sulla bustina il tridente di San Vladimiro”. L’affermazione del giornalista è apparentemente stupefacente, considerato che nell’Ucraina occupata i nazisti avevano proibito tali simboli sin dal 1941. Il movimento anticomunista ucraino guidato dal leader nazionalista Stepan Bandera agiva in U.R.S.S. sino dagli anni trenta grazie alla sua organizzazione terroristico-militare U.P.A. (Esercito di Liberazione Ucraino), operante al confine tra la Galizia polacca e l’Ucraina sovietica. La U.P.A. crebbe nel decennio successivo sino ad assumere le dimensioni di un piccolo esercito partigiano, dotato di armi pesanti, centinaia di autocarri e alcuni mezzi corazzati catturati ai sovietici o recuperati sui campi di battaglia nel 1941. Inizialmente collaborativi con i tedeschi, quando fu chiaro che questi non avrebbero mai concesso l’indipendenza sperata, gli uomini di Bandera si rifugiarono di nuovo nel folto delle foreste, combattendo una lunga guerriglia contemporaneamente contro comunisti e nazisti, sino al 1945. Oggetto della spietata repressione staliniana nel secondo dopoguerra, alcuni nuclei isolati di combattenti ucraini rimasero in armi, sostenuti sporadicamente dai servizi segreti inglesi e americani almeno sino al 1956, quando gli ultimi di loro esfiltrarono a cavallo attraverso centinaia di chilometri di territorio sovietico, polacco e cecoslovacco per unirsi agli insorti anticomunisti ungheresi. Al termine dei combattimenti a Budapest i pochi ucraini superstiti si diressero nuovamente ad ovest, rifugiandosi in Austria. Stepan Bandera, prima sfruttato dai nazisti in chiave antisovietica, poi arrestato e deportato in Germania e infine esule nella Repubblica Federale Tedesca sotto la protezione degli americani, fu assassinato a Monaco di Baviera nel 1959 da un agente del K.G.B.
    Pochi sanno però che entrando con il C.S.I.R. in territorio ucraino nel 1941 il generale Messe fece prendere segretamente contatto coi dirigenti locali della U.P.A. spiegando loro che:

    • L’Italia a differenza della Germania non aveva mire espansionistiche sul territorio ucraino.
    • Il Fascismo vedeva con simpatia la lotta anticomunista del movimento nazionalista di Bandera.
    • Dopo il crollo del regime bolscevico il Corpo d’Armata italiano sarebbe celermente rimpatriato, lasciando all’U.P.A. tutte le armi di p.b. ed eventuali scorte di magazzino intrasportabili.

    Il risultato fu una sorta di “non belligeranza” tra italiani e nazionalisti ucraini. Noi non li molestavamo e loro in cambio proteggevano le nostre retrovie, avvisandoci delle mosse dei partigiani comunisti. A un certo punto giungemmo anche a fornir loro apparati radio e codici cifrati per le comunicazioni (tutto ciò naturalmente alle spalle degli alleati tedeschi, proprio come accadde in Jugoslavia coi Cetnici). Probabilmente è dovuta a ciò la presenza di nazionalisti ucraini in uniforme alle dipendenze dell’Ufficio “I” come descritto da Cappellini. Non è certo se qualche nazionalista ucraino sia giunto in Italia con le nostre truppe. Certamente i più rimasero in loco, continuando la guerriglia contro i sovietici.

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    Civili collaborazionisti
    Secondo il sistema istituito dai tedeschi nei territori sovietici occupati dal 1941, ogni centro abitato aveva un suo sindaco collaborazionista obbligato a rispondere agli occupanti. Tale sindaco secondo l’uso zarista era chiamato borgomastro nelle città e starosta nei villaggi. Si trattava abitualmente di uomini molto anziani, formatisi prima della rivoluzione. Ogni centro abitato aveva uno o più “polizei” o poliziotti russi, autorizzati a portare le armi e contraddistinti da una fascia bianca sugli abiti civili. Per questo ruolo di controllo del territorio e contrasto alla resistenza erano scelti in genere uomini giovani, prigionieri di guerra di tendenze anticomuniste, privati cittadini che avevano sofferto a causa del potere sovietico o che avevano scontato pene detentive nei Gulag. Nelle zone che ricadevano sotto l’autorità dell’A.R.M.I.R. starosta e poliziotti locali avevano rapporti stretti e cordiali con il controspionaggio militare e le sezioni campali dei CC.RR. italiani. Probabilmente i civili russi più compromessi tentarono anch’essi di trovare una via di scampo insieme alle loro famiglie durante la grande ritirata italiana ma non ci sono evidenze che essi siano stati evacuati in Italia ed è improbabile dato il caos creatosi in quelle circostanze. Forse solo qualche “polizei” o interprete in servizio all’Ufficio “I” raggiunse l’Italia e si aggregò in seguito ai cosacchi di Campello. C’è comunque da dire che non c’era bisogno di essere particolarmente collaborazionisti per subire le prevedibili ritorsioni: gli ordini draconiani emanati da Stalin nel 1941 consideravano traditori passibili della pena di morte tutti i cittadini sovietici che restassero a qualsiasi titolo in territorio occupato dal nemico. Appena dopo il conflitto il paranoico dittatore georgiano vagheggiò persino lo sterminio totale di ucraini, bielorussi e baltici (da lui considerati in blocco come popoli traditori) e la loro sostituzione con popolazioni russofone ma ne fu dissuaso solo perché tali popolazioni erano troppo numerose.

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    Prigionieri di guerra
    In base agli accordi italo-tedeschi sulla condotta bellica al fronte russo, solo un ristretto numero di prigionieri di guerra sovietici fu trasportato in Italia prima della grande ritirata del gennaio 1943 e molti di essi dopo l’armistizio si unirono ai partigiani italiani. Altri prigionieri considerati affidabili e di tendenze anticomuniste, contraddistinti da un bracciale bianco, restarono a lavorare come manovalanza nelle immediate retrovie italiane sotto sorveglianza dei Carabinieri. Lavoravano nei campi, tagliavano legname e immagazzinavano carbone per l’inverno. Raccoglievano e riparavano armi ed automezzi di preda bellica, erano conducenti di carrette a traino animale troike e slitte (a seconda della stagione). Affiancavano i militari italiani nei depositi e nei magazzini della sussistenza, aiutavano nella panificazione e nella preparazione del rancio. Mentre i tedeschi miravano programmaticamente allo sterminio per fame e malattie del maggior numero possibile di prigionieri di guerra slavi, considerati inferiori secondo le teorie razziali naziste, gli italiani concedevano ai prigionieri lo stesso rancio dei loro soldati (alcolici esclusi), sigarette e cartoline bilingue per comunicare con le famiglie (nonostante l’Urss non avesse mai ratificato la convenzione di Ginevra). I tentativi di fuga furono molto rari e durante la ritirata gruppi di prigionieri si aggregarono volontariamente a reparti italiani chiedendo di poterne condividere le sorti, spesso traendoli in salvo dall’accerchiamento. Alcuni di questi semiliberi sulla parola giunsero infine in Italia e furono aggregati alla sopracitata “Banda irregolare cosacca”. Alquanto singolare è invece la vicenda di alcune decine di prigionieri di guerra sovietici che accettarono di collaborare col Regio Esercito e nell’estate del 1943 vennero riuniti in un piccolo e confortevole campo di prigionia a Taormina sorvegliati da pochi Carabinieri Reali. Si trattava di artiglieri e carristi che avrebbero dovuto addestrare le nostre divisioni e brigate costiere all’uso di armamenti sovietici di p.b. fornitici dall’alleato germanico per difendere le coste della Sicilia in vista di un probabile sbarco angloamericano. Cannoni pesanti, medi e controcarro furono caricati insieme a numerose torrette di carri armati su tre convogli che attraversarono il Brennero diretti verso il sud insieme a sottufficiali istruttori tedeschi. Il primo treno raggiunse Messina e fu distrutto in stazione da un bombardamento americano. Il secondo treno non riuscì ad attraversare lo stretto e tornò indietro, il terzo rimase nell’Italia centrale in seguito alla caduta di Mussolini il 25 luglio. Quanto ai prigionieri russi, essi rimasero inoperosi e indisturbati a Taormina fin quando gli angloamericani, impadronitisi della Sicilia, li rimpatriarono via mare in Urss.

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    Cittadini sovietici di origine italiana
    Vi furono alcuni casi nei quali prigionieri di guerra o civili sovietici dei territori occupati si rivolsero alle nostre autorità militari sostenendo di essere sudditi italiani o discendenti di sudditi italiani giunti a vario titolo nella Russia zarista prima della rivoluzione e chiedendo di essere rimpatriati in Italia. Si trattò di un numero esiguo di casi e spesso questi italo-russi o presunti italiani non parlavano neanche più la nostra lingua ed avevano solo il loro cognome a provare le loro affermazioni. Tali casi dovettero certamente venire vagliati con estrema cautela dalle competenti autorità. Non ho notizia se e quanti di questi individui ottennero documenti italiani e furono autorizzati a trasferirsi nel Regno prima del gennaio 1943. Certamente molto pochi. Mi limiterò dunque a fornire notizie sui vari gruppi di italiani presenti in territorio sovietico.

    GLI ITALIANI DI CRIMEA
    La presenza stabile di italiani in Ucraina e nella penisola di Crimea ha una lunga storia che rimonta ai tempi della Repubblica di Genova e di Venezia. Un flusso migratorio italiano giunse più di recente a Kerč all’inizio dell’Ottocento. Nel 1820 in città abitavano circa trenta famiglie italiane provenienti da varie regioni. Il porto di Kerč era regolarmente frequentato da navi italiane ed era stato aperto anche un consolato del Regno di Sardegna. Uno dei viceconsoli, Antonio Felice Garibaldi, era lo zio di Giuseppe Garibaldi. Fra il 1820 e la fine del secolo giunsero in Crimea nel territorio di Kerč, emigranti italiani provenienti soprattutto dalle località pugliesi di Trani, Bisceglie e Molfetta allettati dalla promessa di buoni guadagni e dalla fertilità delle terre e dalla pescosità dei mari. Erano soprattutto agricoltori, uomini di mare (pescatori, commercianti, capitani di lungo corso) ed addetti alla cantieristica navale. La città di Kerč si trova infatti sull’omonimo stretto che collega il Mar Nero col Mare d’Azov. Ben presto si aggiunse una emigrazione più qualificata, con architetti, notai, medici, ingegneri e artisti. Nel 1840 gli italiani - tutti cattolici in una zona prevalentemente ortodossa con una piccola minoranza musulmana rappresentata dai tatari - progettarono e costruirono a loro spese una chiesa cattolica, detta ancora oggi “la chiesa italiana”. All’inizio del Novecento c’era ancora un parroco italiano cacciato dopo la rivoluzione, quando la chiesa fu chiusa e trasformata prima in una palestra e poi in un deposito di masserizie. Famiglie italiane erano presenti anche a Feodosia (l’antica colonia genovese di Caffa), Simferopoli, Odessa, Mariupol e in alcuni altri porti russi e ucraini del Mar Nero, soprattutto a Novorossijsk e Batumi. Secondo il Comitato statale ucraino per le nazionalità, nel 1897 gli italiani sarebbero stati l’1,8% della popolazione della provincia di Kerč, percentuale passata al 2% nel 1921; alcune fonti parlano specificatamente di tremila o cinquemila persone. Alla vigilia della prima guerra mondiale a Kerč c’erano una scuola elementare, una biblioteca, una sala riunioni, un club e una società cooperativa, tutti luoghi d’incontro per la nostra comunità che era molto unita e che in pochi decenni era diventata una delle più agiate della città. Il giornale locale Kerčenskij Rabocij in quel periodo pubblicava regolarmente articoli in lingua italiana. Con l’avvento del comunismo alcune famiglie fuggirono in Italia via Costantinopoli, gli altri furono perseguitati con l’accusa di simpatizzare per il fascismo. A metà degli anni venti, i comunisti italiani rifugiatisi in Urss furono inviati a Kerč per “rieducare” a forza la minoranza italiana. Furono loro a decidere la chiusura della chiesa, a sostituire i maestri di scuola con personale fedele al partito, a infiltrarsi nella comunità italiana per coglierne i malumori e riferire tutto alla polizia segreta OGPU/NKVD. Nel quadro della collettivizzazione forzata delle campagne voluta da Stalin, nel 1930 gli italiani furono obbligati a creare il kolchoz agricolo “Sacco e Vanzetti” guidato da Marco Simone, un italiano di Kerč che aveva da subito aderito al comunismo; coloro che non vollero farne parte furono obbligati ad andarsene lasciando ogni avere o furono arrestati. A seguito di ciò, nel censimento del 1933 la percentuale degli italiani risultava scesa all’1,3% della popolazione della provincia di Kerč. Infine, tra il 1935 e il 1938 le purghe staliniane fecero sparire nel nulla molti italiani, arrestati con l’accusa formale di spionaggio in favore dell’Italia fascista e attività controrivoluzionarie. Nel 1942 a causa dell’avanzata della Wehrmacht in Ucraina e in Crimea, le minoranze nazionali presenti sul territorio finirono deportate con l’accusa di collaborazionismo seguendo l'infelice destino della minoranza tedesca, già deportata ad agosto 1941 all’inizio dell’Operazione Barbarossa. La deportazione della minoranza italiana iniziò il 29 gennaio 1942 e chi era sfuggito a un primo rastrellamento fu catturato e deportato tra l’8 e il 10 febbraio 1942. L’intera comunità, compresi i rifugiati antifascisti che si erano stabiliti a Kerč, venne radunata e costretta a mettersi in viaggio verso i Gulag. A ciascuno di loro fu permesso di portare con sé non più di 8 chilogrammi di bagaglio. Il convoglio attraversò i territori di Russia, Georgia, Azerbaigian, Turkmenistan, Uzbekistan e Kazakistan: via mare da Kerč a Novorossijsk e poi via terra fino a Baku, fu quindi attraversato il Mar Caspio fino a Krasnovodsk ed infine i deportati giunsero in treno sino ad Atbasar, per essere poi dispersi nella steppa tra Akmolinsk e Karaganda, dove furono accolti da temperature polari fra i 30 e i 40 gradi sotto zero che li decimarono. Lo stretto di Kerč e il Mar Caspio furono attraversati con navi sulle quali gli italiani erano confinati nella stiva, una di esse affondò. A causa della lentezza con cui procedevano i convogli il viaggio durò fino a marzo e quasi metà dei deportati, tra cui tutti i bambini, morì durante il viaggio. Ulteriori vittime si ebbero nelle terre abitate dai Cosacchi per i maltrattamenti subiti. Si calcola che forse sopravvisse solo il 20% dell’intera popolazione. I pochi sopravvissuti rientrarono a Kerč solo dopo il 1956, sotto Krusciov. Alcune famiglie si dispersero sul territorio dell’ex Unione Sovietica, negli attuali stati di Kazakistan e Uzbekistan e nella Repubblica dei Comi in Russia. In conseguenza della deportazione forzata voluta da Stalin le nostre truppe non ebbero occasione di incontrare gli italiani di Crimea. Essi ammontano oggi a circa cinquecento persone, anche se un censimento vero e proprio non è mai stato fatto. La maggior parte di loro risiede a Kerč, dove nel 2008 si è costituta l’associazione “C.E.R.K.I.O.” (Comunità degli Emigrati in Regione di Krimea - Italiani di Origine) con i seguenti obiettivi:


    1. Salvaguardia e promozione della lingua e cultura italiana, attraverso corsi gratuiti.
    2. Riconoscimento da parte delle autorità ucraine dello status di minoranza perseguitata e deportata, sia per ristabilire la verità storica sia per poter usufruire di alcuni vantaggi di tipo economico riservati alle vittime del comunismo dal governo ucraino.
    3. Consolidamento dei rapporti istituzionali con l’Italia.
    4. Ricostruzione dell’albero genealogico degli italiani di Crimea, reso estremamente difficoltoso dal fatto che durante la deportazione a tutti gli italiani vennero sequestrati i documenti di identità e molti superstiti, pur parlando italiano, sono impossibilitati a dimostrare le proprie origini.


    Purtroppo la successiva invasione da parte delle forze armate russe e la riannessione forzata della penisola di Crimea nella Federazione Russa, nonché l’aperto sostegno militare garantito da Putin ai cosiddetti secessionisti nella regione del Donbass (in realtà una vere e proprie quinte colonne di Mosca, composte da russofoni inviati già in epoca sovietica ad insediarsi nelle zone minerarie dell’Ucraina orientale, ritenute di particolare interesse strategico) hanno ostacolato le iniziative degli italiani di Crimea, considerati dal nuovo potere locale come filo-ucraini e dunque politicamente sospetti.

    EMIGRANTI ITALIANI IN SIBERIA
    Negli ultimi venti anni dell’ottocento ebbe luogo un forte fenomeno migratorio particolarmente dal Veneto (allora una delle regioni più povere d’Italia) ma anche da Trentino, Istria e Dalmazia verso la Siberia, sostenuto dalla volontà del governo zarista di iniziare lo sfruttamento di quel vastissimo territorio ricco di risorse naturali, sino ad allora utilizzato principalmente per esiliarvi criminali e detenuti politici. Poiché nonostante venissero loro concesse grandi agevolazioni, i sudditi dello Zar erano restii ad insediarsi volontariamente in quei luoghi inospitali, si favorì la colonizzazione da parte di immigrati italiani, che talvolta giungevano con le famiglie al seguito. I veneti erano sudditi dei Savoia, i trentini gli istriani e i dalmati degli Asburgo, dunque i russi distinguevano gli emigranti di lingua italiana tra “regnicoli” ed “imperial-regi” a seconda della loro nazionalità. Per la maggior parte si trattava di cacciatori, boscaioli e minatori che si stabilirono in località isolate dell’entroterra sfidando la natura ostile per procurarsi le preziose materie prime: legname, carbone, argento. Ad essi si aggiunsero in seguito carpentieri, ebanisti, pellicciai e commercianti, stanziati soprattutto nel porto di Vladivostok e in altre località costiere. Negli anni dieci tali emigranti si erano conquistati un posto importante nella società siberiana, ma in seguito alla 1^g.m. e agli sconvolgimenti dovuti alla rivoluzione ed alla successiva Guerra Civile la maggior parte di loro scelse di rimpatriare in Italia al seguito del Corpo di spedizione anticomunista italiano in Siberia. Ma alcuni che vivevano in zone isolate o avevano sposato donne russe non vollero o poterono rientrare in Italia, seguendo nel bene e nel male la sorte del popolo russo e venendo alla fine naturalizzati sovietici. Ciò spiega perché alcuni soldati delle truppe siberiane sul Don si rivolgevano ai nostri Alpini in dialetto veneto, in quanto figli o nipoti di quegli emigranti.

    EX-PRIGIONIERI AUSTROUNGARICI DI LINGUA ITALIANA
    Un gran numero di soldati austroungarici cadde prigioniero delle truppe zariste nei primi anni della 1^g.m. e tra essi moltissimi sudditi di lingua italiana della duplice monarchia. Trentini, giuliani, istriani e dalmati erano considerati particolarmente infidi in quanto sensibili all’irredentismo italiano, dunque già nel 1914 furono mobilitati e inviati a combattere i russi in Galizia, il più possibile lontano dal confine col Regno d’Italia. Dispersi anche in prigionia nelle varie regioni dell’impero zarista, furono generalmente impiegati nei lavori agricoli e trattati relativamente bene anche perché col procedere del conflitto un gran numero di essi chiese di poter rientrare in Italia per combattere sotto il tricolore. Allo scoppio della guerra civile vennero trattenuti dal nuovo governo bolscevico e visti con crescente sospetto. Molti di loro furono fatti esfiltrare in treno verso la Cina da ufficiali dei CC.RR. e raggiunsero il possedimento italiano di Tien-Tsin da dove proseguirono verso l’Italia. Altri dopo un breve addestramento furono inquadrati nei Battaglioni Neri e inviati in Siberia al seguito del Corpo di spedizione italiano anticomunista a sostegno dei russi bianchi. Alcuni di quelli rimasti in Russia aderirono all’ideologia comunista e si arruolarono volontari nell’Armata Rossa combattendo contro i bianchi. Negli anni venti un intero reparto a cavallo era formato da ex-prigionieri austroungarici di lingua italiana. Congedati nel 1923 costoro non poterono rientrare alle loro case ma appena passata la frontiera vennero confinati in Sardegna per una lunga “quarantena politica” voluta dal fascismo nel timore che potessero propagare i germi della rivoluzione. Ancora nel 1940 il ricordo di questi combattenti comunisti era perpetuato all’interno dell’Armata Rossa da una divisione di fanteria della riserva che – per quanto totalmente composta da russi – portava il nome onorifico “Proletari Italiani”. Detto ciò, a prescindere dalle questioni ideologiche, alcuni ex- prigionieri irredenti rimasero comunque in Urss e misero su famiglia nei piccoli villaggi dove erano giunti per lavorare la terra. Gli Alpini nel 1942 si imbatterono in alcuni di loro e nelle loro famiglie.
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  7. #7
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    NOTE:


    1. Tra l’inizio degli anni venti e la metà degli anni trenta la volontà del regime comunista di risolvere il fenomeno dei besprizorni dipingendo in termini ottimistici i tentativi di ricuperarli alla società sovietica ebbe come conseguenza secondaria lo sforzo creativo di numerosi artisti ed intellettuali. Sull’argomento vennero scritti centinaia di romanzi, reportage giornalistici, saggi socio-pedagogici. Il pittore moscovita Fedor Bogorodskij ritrasse i bambini di strada in un famoso ciclo di dipinti. Nel 1931 il regista Nikolaj Ekk girò il film Un biglietto di viaggio per la vita (storia del ragazzo di strada Mustafà che redento dal lavoro in una comune diventa un perfetto cittadino sovietico). Dal 1935 la svolta repressiva voluta da Stalin portò alla progressiva eliminazione fisica di molti fra quelli che si erano avevano scritto o si erano interessati pubblicamente dei besprizorni nel decennio precedente. Lo stesso Jyvan Kyrla (1909-1943) il giovane protagonista del film di Ekk, fece una brutta fine. Figlio di un kulak picchiato a morte dai comunisti, era sopravvissuto per alcuni anni in strada unendosi ai besprizorni. Nonostante il ruolo di Mustafà lo avesse lanciato come attore dandogli grande popolarità in Unione Sovietica, nel 1938 fu arrestato dalla N.K.V.D. e deportato in Siberia. Morì di stenti in un Gulag. Per volontà del dittatore georgiano i besprizorni divennero da allora ufficialmente uno dei molti tabù della società sovietica.






    1. Le carestie artificiali per piegare (mediante il monopolio delle fonti di approvvigionamento di cibo) le popolazioni recalcitranti al volere dei regimi comunisti non furono un fenomeno esclusivo dell’Unione Sovietica leninista e staliniana. Infatti tale uso venne largamente esportato nei paesi satelliti come strumento di lotta rivoluzionaria e repressione politica. E’ stato storicamente provato che con modalità e tempi diversi gravi carestie furono volutamente provocate dai regimi comunisti a danno dei loro stessi popoli in Cina, Albania, Etiopia e Corea del Nord.



    1. Fra il 1921 e il 1923 all’immane sforzo umanitario in favore delle popolazioni affamate e in particolar modo dei bambini, parteciparono tra gli altri l’American Relief Administration, il Comitato Francese per il Soccorso all’Infanzia, l’organizzazione umanitaria britannica Save the Children, il Vaticano, enti caritativi di varie confessioni protestanti anglosassoni (inclusi Battisti, Avventisti e Mennoniti), associazioni laiche di stampo politico e sindacale, nonché la Croce Rossa Internazionale e quelle di svariate nazioni europee. La missione della Croce Rossa Italiana operò da maggio a settembre del 1922 nella città di Caricyn (rinominata Stalingrado nel 1923 ed oggi conosciuta come Volgograd) venendo ritirata in seguito all’ascesa al potere del fascismo con la Marcia su Roma del 28/10/1922.



    (4) Gli strepitosi successi militari ottenuti dai tedeschi sul fronte russo nelle fasi iniziali della campagna (1941/42) sono da addebitarsi in gran parte alla carenza di ufficiali preparati nelle file dell’Armata Rossa, letteralmente falcidiata dalle purghe di Stalin nella seconda metà degli anni trenta. Gli effetti negativi di tale situazione si erano visti sul campo già durante la disastrosa guerra russo-finlandese del 1939/40. In tale occasione pochi e male armati combattenti finnici grazie alla loro determinazione ed alla perfetta conoscenza del terreno tennero testa per mesi agli invasori sovietici, sgominando ripetutamente forze preponderanti per numero e mezzi ma prive di comandanti esperti.
    Secondo dati ufficiali pubblicati sulla Pravda nel 1987 per volontà di Michail Gorbaciov, durante la grande purga delle forze armate ordinata da Stalin negli anni 1936/1938 sarebbero stati uccisi o deportati gran parte dei responsabili militari formatisi durante o dopo la rivoluzione, come evidenziato dalla seguente tabella.
    _______
    Marescialli dell’Unione Sovietica: 3 su 5
    Comandanti d’Armata: 13 su 15
    Ammiragli di marina e Ammiragli di 1° grado: 8 su 9
    Comandanti di Corpo d’Armata: 50 su 57
    Comandanti di Divisione: 154 su 186
    Commissari politici d’Armata: 16 su 16
    Commissari politici di Corpo d’Armata: 25 su 28
    Commissari politici di Divisione: 58 su 64
    Vicecommissari alla Difesa: 11 su 11
    Membri del Soviet militare Supremo: 98 su 108
    _______

    (5) Il KGB non smise mai di dare una caccia spietata ai “Fratelli della Foresta” i combattenti anticomunisti baltici rifugiatisi nelle foreste nel 1944. L’ultimo di loro – ancora armato e alla macchia ma ormai anziano – dopo essere sfuggito per anni alla caccia degli organi repressivi sovietici grazie al tacito sostegno della popolazione locale ed aver rifiutato le ripetute offerte di amnistia, morì nel folto delle foreste estoni nel 1980 – l’anno delle Olimpiadi di Mosca – ufficialmente di morte naturale. Il suo cadavere fu ritrovato casualmente da alcuni boscaioli.
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  8. #8
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    Ritorno sulla discussione perchè l'unica foto da me reperita di Besprizorni in divisa italiana a causa del supporto era come vedete molto degradata e poco leggibile.
    Posto altre foto dello stesso gruppo di bambini tratte dal libro L'ARMATA SCOMPARSA di Arrigo Petacco.
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  9. #9
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    Altre presenze sovietiche in Italia

    Cosacchi
    Nel 1942 presso il Comando della 8^ Armata Italiana in Russia fu creato un reparto a cavallo arruolando volontari cosacchi e denominato “Banda Campello” dal nome del suo comandante, il maggiore di cavalleria Ranieri di Campello. L’unità raggiunse la forza di alcune centinaia di uomini riuniti in una sotnja, equivalente nella tradizione cosacca ad uno squadrone. Visti i favorevoli risultati ottenuti dai volontari come esploratori e informatori al servizio dell’Ufficio Informazioni dell’A.R.M.I.R. era stato previsto di formare due Rgt. cosacchi (uno di cavalleria ed uno di fanteria) reclutando in loco altri 2.000 uomini, previa autorizzazione dell’alleato germanico e dell’Atamano cosacco del Don. L’offensiva sovietica del dicembre 1942 vanificò tale progetto e la “Banda Campello” seguì le truppe italiane in ritirata, condividendone il destino. Quando nel marzo 1943 Campello fu rimpatriato per ferite l’unità assunse la denominazione di “Gruppo cosacco Savoia” e il comando fu assunto dal capitano Giorgio Stavro Santarosa. Il reparto, ridotto a 200 uomini, una volta giunto in Italia nel giugno di quell’anno fu accasermato a Maccacari (VR) dove si provvide a riorganizzarlo e riequipaggiarlo integrandovi superstiti di altre formazioni ausiliarie russe, russi bianchi naturalizzati italiani e volontari tratti dalla colonia di cosacchi zaristi rifugiatasi in Albania sin dagli anni venti. Si tentò anche di reclutare volontari tra i russi anticomunisti presenti nella Francia meridionale, occupata militarmente dalla 4^ Armata del generale Vercellino, ma con pochi risultati a causa dell’ostruzionismo da parte dei tedeschi e del governo francese di Vichy. A fine agosto la denominazione dell’unità fu cambiata in “Banda irregolare cosacca” ordinata su un Comando italiano, un Comando cosacco subordinato e tre sotnje cosacche, per un totale di 257 cavalieri, inclusi i 14 del Comando italiano, ma le cose procedevano a rilento. L’armistizio colse il reparto in procinto di essere trasferito in Albania alle dipendenze della 9^ Armata come unità antiguerriglia, ma ancora privo dei mitra Beretta promessi in sostituzione dei Ppsh 41 sovietici. A seguito di ripetute richieste di disarmo avanzate dai tedeschi tra il 9 ed il 12 settembre, il comandante Stavro Santarosa prima di decidere il da farsi convocò secondo l’uso tradizionale cosacco la rada, assemblea democratica di tutti i cosacchi in armi. Ascoltato il parere dei sottoposti, il 13 settembre l’ufficiale dispose lo scioglimento e la dispersione temporanea del Gruppo, ritirandosi poi nella sua tenuta di Cormons (GO) seguito solo dall’attendente cosacco. A quel punto i volontari presero strade diverse. Un plotone passò in blocco ai tedeschi che lo trasferirono sul fronte di Cassino, dove fu completamente annientato. Altri cosacchi combatterono a fianco dei partigiani, ma la maggior parte finirono per unirsi alle truppe dell’Atamano Krasnov, trasferitesi in Carnia nel 1944. Al termine del conflitto, alcuni dei sopravvissuti chiesero la cittadinanza italiana motivando la richiesta con l’aver prestato servizio nel nostro esercito.
    __________________

    Ausiliari ucraini
    Il giornalista italiano Arnaldo Cappellini, corrispondente di guerra al seguito dell’A.R.M.I.R. per Il Secolo Sera e L’Illustrazione Italiana dal luglio 1942 al gennaio 1943, ricordò nel dopoguerra una sua visita al campo di prigionia allestito dal XXXV C.d’A. (ex- C.S.I.R.) a Karynskaia nel settembre 1942, dove tra i prigionieri erano stati ripristinati il saluto e il regolamento di epoca zarista (mentre il rancio era identico a quello delle truppe combattenti italiane). Cappellini scrisse che lavorando sei ore al giorno in aziende agricole nei dintorni “le pattuglie di prigionieri russi vengono avviate al lavoro al comando di sottufficiali, sotto la scorta di soldati ucraini al nostro servizio”. Secondo il giornalista le guardie ucraine in questione, dipendenti dall’ufficio informazioni del Corpo d’Armata, avevano in dotazione fucili russi e vestivano “l’uniforme grigioverde nostra con al bavero mostrine azzurro-giallo come la bandiera nazionale ucraina e sulla bustina il tridente di San Vladimiro”. L’affermazione del giornalista è apparentemente stupefacente, considerato che nell’Ucraina occupata i nazisti avevano proibito tali simboli sin dal 1941. Il movimento anticomunista ucraino guidato dal leader nazionalista Stepan Bandera agiva in U.R.S.S. sino dagli anni trenta grazie alla sua organizzazione terroristico-militare U.P.A. (Esercito di Liberazione Ucraino), operante al confine tra la Galizia polacca e l’Ucraina sovietica. La U.P.A. crebbe nel decennio successivo sino ad assumere le dimensioni di un piccolo esercito partigiano, dotato di armi pesanti, centinaia di autocarri e alcuni mezzi corazzati catturati ai sovietici o recuperati sui campi di battaglia nel 1941. Inizialmente collaborativi con i tedeschi, quando fu chiaro che questi non avrebbero mai concesso l’indipendenza sperata, gli uomini di Bandera si rifugiarono di nuovo nel folto delle foreste, combattendo una lunga guerriglia contemporaneamente contro comunisti e nazisti, sino al 1945. Oggetto della spietata repressione staliniana nel secondo dopoguerra, alcuni nuclei isolati di combattenti ucraini rimasero in armi, sostenuti sporadicamente dai servizi segreti inglesi e americani almeno sino al 1956, quando gli ultimi di loro esfiltrarono a cavallo attraverso centinaia di chilometri di territorio sovietico, polacco e cecoslovacco per unirsi agli insorti anticomunisti ungheresi. Al termine dei combattimenti a Budapest i pochi ucraini superstiti si diressero nuovamente ad ovest, rifugiandosi in Austria. Stepan Bandera, prima sfruttato dai nazisti in chiave antisovietica, poi arrestato e deportato in Germania e infine esule nella Repubblica Federale Tedesca sotto la protezione degli americani, fu assassinato a Monaco di Baviera nel 1959 da un agente del K.G.B.
    Pochi sanno però che entrando con il C.S.I.R. in territorio ucraino nel 1941 il generale Messe fece prendere segretamente contatto coi dirigenti locali della U.P.A. spiegando loro che:

    • L’Italia a differenza della Germania non aveva mire espansionistiche sul territorio ucraino.
    • Il Fascismo vedeva con simpatia la lotta anticomunista del movimento nazionalista di Bandera.
    • Dopo il crollo del regime bolscevico il Corpo d’Armata italiano sarebbe celermente rimpatriato, lasciando all’U.P.A. tutte le armi di p.b. ed eventuali scorte di magazzino intrasportabili.

    Il risultato fu una sorta di “non belligeranza” tra italiani e nazionalisti ucraini. Noi non li molestavamo e loro in cambio proteggevano le nostre retrovie, avvisandoci delle mosse dei partigiani comunisti. A un certo punto giungemmo anche a fornir loro apparati radio e codici cifrati per le comunicazioni (tutto ciò naturalmente alle spalle degli alleati tedeschi, proprio come accadde in Jugoslavia coi Cetnici). Probabilmente è dovuta a ciò la presenza di nazionalisti ucraini in uniforme alle dipendenze dell’Ufficio “I” come descritto da Cappellini. Non è certo se qualche nazionalista ucraino sia giunto in Italia con le nostre truppe. Certamente i più rimasero in loco, continuando la guerriglia contro i sovietici.

    _____________________
    Civili collaborazionisti
    Secondo il sistema istituito dai tedeschi nei territori sovietici occupati dal 1941, ogni centro abitato aveva un suo sindaco collaborazionista obbligato a rispondere agli occupanti. Tale sindaco secondo l’uso zarista era chiamato borgomastro nelle città e starosta nei villaggi. Si trattava abitualmente di uomini molto anziani, formatisi prima della rivoluzione. Ogni centro abitato aveva uno o più “polizei” o poliziotti russi, autorizzati a portare le armi e contraddistinti da una fascia bianca sugli abiti civili. Per questo ruolo di controllo del territorio e contrasto alla resistenza erano scelti in genere uomini giovani, prigionieri di guerra di tendenze anticomuniste, privati cittadini che avevano sofferto a causa del potere sovietico o che avevano scontato pene detentive nei Gulag. Nelle zone che ricadevano sotto l’autorità dell’A.R.M.I.R. starosta e poliziotti locali avevano rapporti stretti e cordiali con il controspionaggio militare e le sezioni campali dei CC.RR. italiani. Probabilmente i civili russi più compromessi tentarono anch’essi di trovare una via di scampo insieme alle loro famiglie durante la grande ritirata italiana ma non ci sono evidenze che essi siano stati evacuati in Italia ed è improbabile dato il caos creatosi in quelle circostanze. Forse solo qualche “polizei” o interprete in servizio all’Ufficio “I” raggiunse l’Italia e si aggregò in seguito ai cosacchi di Campello. C’è comunque da dire che non c’era bisogno di essere particolarmente collaborazionisti per subire le prevedibili ritorsioni: gli ordini draconiani emanati da Stalin nel 1941 consideravano traditori passibili della pena di morte tutti i cittadini sovietici che restassero a qualsiasi titolo in territorio occupato dal nemico. Appena dopo il conflitto il paranoico dittatore georgiano vagheggiò persino lo sterminio totale di ucraini, bielorussi e baltici (da lui considerati in blocco come popoli traditori) e la loro sostituzione con popolazioni russofone ma ne fu dissuaso solo perché tali popolazioni erano troppo numerose.

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    Prigionieri di guerra
    In base agli accordi italo-tedeschi sulla condotta bellica al fronte russo, solo un ristretto numero di prigionieri di guerra sovietici fu trasportato in Italia prima della grande ritirata del gennaio 1943 e molti di essi dopo l’armistizio si unirono ai partigiani italiani. Altri prigionieri considerati affidabili e di tendenze anticomuniste, contraddistinti da un bracciale bianco, restarono a lavorare come manovalanza nelle immediate retrovie italiane sotto sorveglianza dei Carabinieri. Lavoravano nei campi, tagliavano legname e immagazzinavano carbone per l’inverno. Raccoglievano e riparavano armi ed automezzi di preda bellica, erano conducenti di carrette a traino animale troike e slitte (a seconda della stagione). Affiancavano i militari italiani nei depositi e nei magazzini della sussistenza, aiutavano nella panificazione e nella preparazione del rancio. Mentre i tedeschi miravano programmaticamente allo sterminio per fame e malattie del maggior numero possibile di prigionieri di guerra slavi, considerati inferiori secondo le teorie razziali naziste, gli italiani concedevano ai prigionieri lo stesso rancio dei loro soldati (alcolici esclusi), sigarette e cartoline bilingue per comunicare con le famiglie (nonostante l’Urss non avesse mai ratificato la convenzione di Ginevra). I tentativi di fuga furono molto rari e durante la ritirata gruppi di prigionieri si aggregarono volontariamente a reparti italiani chiedendo di poterne condividere le sorti, spesso traendoli in salvo dall’accerchiamento. Alcuni di questi semiliberi sulla parola giunsero infine in Italia e furono aggregati alla sopracitata “Banda irregolare cosacca”. Alquanto singolare è invece la vicenda di alcune decine di prigionieri di guerra sovietici che accettarono di collaborare col Regio Esercito e nell’estate del 1943 vennero riuniti in un piccolo e confortevole campo di prigionia a Taormina sorvegliati da pochi Carabinieri Reali. Si trattava di artiglieri e carristi che avrebbero dovuto addestrare le nostre divisioni e brigate costiere all’uso di armamenti sovietici di p.b. fornitici dall’alleato germanico per difendere le coste della Sicilia in vista di un probabile sbarco angloamericano. Cannoni pesanti, medi e controcarro furono caricati insieme a numerose torrette di carri armati su tre convogli che attraversarono il Brennero diretti verso il sud insieme a sottufficiali istruttori tedeschi. Il primo treno raggiunse Messina e fu distrutto in stazione da un bombardamento americano. Il secondo treno non riuscì ad attraversare lo stretto e tornò indietro, il terzo rimase nell’Italia centrale in seguito alla caduta di Mussolini il 25 luglio. Quanto ai prigionieri russi, essi rimasero inoperosi e indisturbati a Taormina fin quando gli angloamericani, impadronitisi della Sicilia, li rimpatriarono via mare in Urss.

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    Cittadini sovietici di origine italiana
    Vi furono alcuni casi nei quali prigionieri di guerra o civili sovietici dei territori occupati si rivolsero alle nostre autorità militari sostenendo di essere sudditi italiani o discendenti di sudditi italiani giunti a vario titolo nella Russia zarista prima della rivoluzione e chiedendo di essere rimpatriati in Italia. Si trattò di un numero esiguo di casi e spesso questi italo-russi o presunti italiani non parlavano neanche più la nostra lingua ed avevano solo il loro cognome a provare le loro affermazioni. Tali casi dovettero certamente venire vagliati con estrema cautela dalle competenti autorità. Non ho notizia se e quanti di questi individui ottennero documenti italiani e furono autorizzati a trasferirsi nel Regno prima del gennaio 1943. Certamente molto pochi. Mi limiterò dunque a fornire notizie sui vari gruppi di italiani presenti in territorio sovietico.

    GLI ITALIANI DI CRIMEA
    La presenza stabile di italiani in Ucraina e nella penisola di Crimea ha una lunga storia che rimonta ai tempi della Repubblica di Genova e di Venezia. Un flusso migratorio italiano giunse più di recente a Kerč all’inizio dell’Ottocento. Nel 1820 in città abitavano circa trenta famiglie italiane provenienti da varie regioni. Il porto di Kerč era regolarmente frequentato da navi italiane ed era stato aperto anche un consolato del Regno di Sardegna. Uno dei viceconsoli, Antonio Felice Garibaldi, era lo zio di Giuseppe Garibaldi. Fra il 1820 e la fine del secolo giunsero in Crimea nel territorio di Kerč, emigranti italiani provenienti soprattutto dalle località pugliesi di Trani, Bisceglie e Molfetta allettati dalla promessa di buoni guadagni e dalla fertilità delle terre e dalla pescosità dei mari. Erano soprattutto agricoltori, uomini di mare (pescatori, commercianti, capitani di lungo corso) ed addetti alla cantieristica navale. La città di Kerč si trova infatti sull’omonimo stretto che collega il Mar Nero col Mare d’Azov. Ben presto si aggiunse una emigrazione più qualificata, con architetti, notai, medici, ingegneri e artisti. Nel 1840 gli italiani - tutti cattolici in una zona prevalentemente ortodossa con una piccola minoranza musulmana rappresentata dai tatari - progettarono e costruirono a loro spese una chiesa cattolica, detta ancora oggi “la chiesa italiana”. All’inizio del Novecento c’era ancora un parroco italiano cacciato dopo la rivoluzione, quando la chiesa fu chiusa e trasformata prima in una palestra e poi in un deposito di masserizie. Famiglie italiane erano presenti anche a Feodosia (l’antica colonia genovese di Caffa), Simferopoli, Odessa, Mariupol e in alcuni altri porti russi e ucraini del Mar Nero, soprattutto a Novorossijsk e Batumi. Secondo il Comitato statale ucraino per le nazionalità, nel 1897 gli italiani sarebbero stati l’1,8% della popolazione della provincia di Kerč, percentuale passata al 2% nel 1921; alcune fonti parlano specificatamente di tremila o cinquemila persone. Alla vigilia della prima guerra mondiale a Kerč c’erano una scuola elementare, una biblioteca, una sala riunioni, un club e una società cooperativa, tutti luoghi d’incontro per la nostra comunità che era molto unita e che in pochi decenni era diventata una delle più agiate della città. Il giornale locale Kerčenskij Rabocij in quel periodo pubblicava regolarmente articoli in lingua italiana. Con l’avvento del comunismo alcune famiglie fuggirono in Italia via Costantinopoli, gli altri furono perseguitati con l’accusa di simpatizzare per il fascismo. A metà degli anni venti, i comunisti italiani rifugiatisi in Urss furono inviati a Kerč per “rieducare” a forza la minoranza italiana. Furono loro a decidere la chiusura della chiesa, a sostituire i maestri di scuola con personale fedele al partito, a infiltrarsi nella comunità italiana per coglierne i malumori e riferire tutto alla polizia segreta OGPU/NKVD. Nel quadro della collettivizzazione forzata delle campagne voluta da Stalin, nel 1930 gli italiani furono obbligati a creare il kolchoz agricolo “Sacco e Vanzetti” guidato da Marco Simone, un italiano di Kerč che aveva da subito aderito al comunismo; coloro che non vollero farne parte furono obbligati ad andarsene lasciando ogni avere o furono arrestati. A seguito di ciò, nel censimento del 1933 la percentuale degli italiani risultava scesa all’1,3% della popolazione della provincia di Kerč. Infine, tra il 1935 e il 1938 le purghe staliniane fecero sparire nel nulla molti italiani, arrestati con l’accusa formale di spionaggio in favore dell’Italia fascista e attività controrivoluzionarie. Nel 1942 a causa dell’avanzata della Wehrmacht in Ucraina e in Crimea, le minoranze nazionali presenti sul territorio finirono deportate con l’accusa di collaborazionismo seguendo l'infelice destino della minoranza tedesca, già deportata ad agosto 1941 all’inizio dell’Operazione Barbarossa. La deportazione della minoranza italiana iniziò il 29 gennaio 1942 e chi era sfuggito a un primo rastrellamento fu catturato e deportato tra l’8 e il 10 febbraio 1942. L’intera comunità, compresi i rifugiati antifascisti che si erano stabiliti a Kerč, venne radunata e costretta a mettersi in viaggio verso i Gulag. A ciascuno di loro fu permesso di portare con sé non più di 8 chilogrammi di bagaglio. Il convoglio attraversò i territori di Russia, Georgia, Azerbaigian, Turkmenistan, Uzbekistan e Kazakistan: via mare da Kerč a Novorossijsk e poi via terra fino a Baku, fu quindi attraversato il Mar Caspio fino a Krasnovodsk ed infine i deportati giunsero in treno sino ad Atbasar, per essere poi dispersi nella steppa tra Akmolinsk e Karaganda, dove furono accolti da temperature polari fra i 30 e i 40 gradi sotto zero che li decimarono. Lo stretto di Kerč e il Mar Caspio furono attraversati con navi sulle quali gli italiani erano confinati nella stiva, una di esse affondò. A causa della lentezza con cui procedevano i convogli il viaggio durò fino a marzo e quasi metà dei deportati, tra cui tutti i bambini, morì durante il viaggio. Ulteriori vittime si ebbero nelle terre abitate dai Cosacchi per i maltrattamenti subiti. Si calcola che forse sopravvisse solo il 20% dell’intera popolazione. I pochi sopravvissuti rientrarono a Kerč solo dopo il 1956, sotto Krusciov. Alcune famiglie si dispersero sul territorio dell’ex Unione Sovietica, negli attuali stati di Kazakistan e Uzbekistan e nella Repubblica dei Comi in Russia. In conseguenza della deportazione forzata voluta da Stalin le nostre truppe non ebbero occasione di incontrare gli italiani di Crimea. Essi ammontano oggi a circa cinquecento persone, anche se un censimento vero e proprio non è mai stato fatto. La maggior parte di loro risiede a Kerč, dove nel 2008 si è costituta l’associazione “C.E.R.K.I.O.” (Comunità degli Emigrati in Regione di Krimea - Italiani di Origine) con i seguenti obiettivi:


    1. Salvaguardia e promozione della lingua e cultura italiana, attraverso corsi gratuiti.
    2. Riconoscimento da parte delle autorità ucraine dello status di minoranza perseguitata e deportata, sia per ristabilire la verità storica sia per poter usufruire di alcuni vantaggi di tipo economico riservati alle vittime del comunismo dal governo ucraino.
    3. Consolidamento dei rapporti istituzionali con l’Italia.
    4. Ricostruzione dell’albero genealogico degli italiani di Crimea, reso estremamente difficoltoso dal fatto che durante la deportazione a tutti gli italiani vennero sequestrati i documenti di identità e molti superstiti, pur parlando italiano, sono impossibilitati a dimostrare le proprie origini.


    Purtroppo la successiva invasione da parte delle forze armate russe e la riannessione forzata della penisola di Crimea nella Federazione Russa, nonché l’aperto sostegno militare garantito da Putin ai cosiddetti secessionisti nella regione del Donbass (in realtà una vere e proprie quinte colonne di Mosca, composte da russofoni inviati già in epoca sovietica ad insediarsi nelle zone minerarie dell’Ucraina orientale, ritenute di particolare interesse strategico) hanno ostacolato le iniziative degli italiani di Crimea, considerati dal nuovo potere locale come filo-ucraini e dunque politicamente sospetti.

    EMIGRANTI ITALIANI IN SIBERIA
    Negli ultimi venti anni dell’ottocento ebbe luogo un forte fenomeno migratorio particolarmente dal Veneto (allora una delle regioni più povere d’Italia) ma anche da Trentino, Istria e Dalmazia verso la Siberia, sostenuto dalla volontà del governo zarista di iniziare lo sfruttamento di quel vastissimo territorio ricco di risorse naturali, sino ad allora utilizzato principalmente per esiliarvi criminali e detenuti politici. Poiché nonostante venissero loro concesse grandi agevolazioni, i sudditi dello Zar erano restii ad insediarsi volontariamente in quei luoghi inospitali, si favorì la colonizzazione da parte di immigrati italiani, che talvolta giungevano con le famiglie al seguito. I veneti erano sudditi dei Savoia, i trentini gli istriani e i dalmati degli Asburgo, dunque i russi distinguevano gli emigranti di lingua italiana tra “regnicoli” ed “imperial-regi” a seconda della loro nazionalità. Per la maggior parte si trattava di cacciatori, boscaioli e minatori che si stabilirono in località isolate dell’entroterra sfidando la natura ostile per procurarsi le preziose materie prime: legname, carbone, argento. Ad essi si aggiunsero in seguito carpentieri, ebanisti, pellicciai e commercianti, stanziati soprattutto nel porto di Vladivostok e in altre località costiere. Negli anni dieci tali emigranti si erano conquistati un posto importante nella società siberiana, ma in seguito alla 1^g.m. e agli sconvolgimenti dovuti alla rivoluzione ed alla successiva Guerra Civile la maggior parte di loro scelse di rimpatriare in Italia al seguito del Corpo di spedizione anticomunista italiano in Siberia. Ma alcuni che vivevano in zone isolate o avevano sposato donne russe non vollero o poterono rientrare in Italia, seguendo nel bene e nel male la sorte del popolo russo e venendo alla fine naturalizzati sovietici. Ciò spiega perché alcuni soldati delle truppe siberiane sul Don si rivolgevano ai nostri Alpini in dialetto veneto, in quanto figli o nipoti di quegli emigranti.

    EX-PRIGIONIERI AUSTROUNGARICI DI LINGUA ITALIANA
    Un gran numero di soldati austroungarici cadde prigioniero delle truppe zariste nei primi anni della 1^g.m. e tra essi moltissimi sudditi di lingua italiana della duplice monarchia. Trentini, giuliani, istriani e dalmati erano considerati particolarmente infidi in quanto sensibili all’irredentismo italiano, dunque già nel 1914 furono mobilitati e inviati a combattere i russi in Galizia, il più possibile lontano dal confine col Regno d’Italia. Dispersi anche in prigionia nelle varie regioni dell’impero zarista, furono generalmente impiegati nei lavori agricoli e trattati relativamente bene anche perché col procedere del conflitto un gran numero di essi chiese di poter rientrare in Italia per combattere sotto il tricolore. Allo scoppio della guerra civile vennero trattenuti dal nuovo governo bolscevico e visti con crescente sospetto. Molti di loro furono fatti esfiltrare in treno verso la Cina da ufficiali dei CC.RR. e raggiunsero il possedimento italiano di Tien-Tsin da dove proseguirono verso l’Italia. Altri dopo un breve addestramento furono inquadrati nei Battaglioni Neri e inviati in Siberia al seguito del Corpo di spedizione italiano anticomunista a sostegno dei russi bianchi. Alcuni di quelli rimasti in Russia aderirono all’ideologia comunista e si arruolarono volontari nell’Armata Rossa combattendo contro i bianchi. Negli anni venti un intero reparto a cavallo era formato da ex-prigionieri austroungarici di lingua italiana. Congedati nel 1923 costoro non poterono rientrare alle loro case ma appena passata la frontiera vennero confinati in Sardegna per una lunga “quarantena politica” voluta dal fascismo nel timore che potessero propagare i germi della rivoluzione. Ancora nel 1940 il ricordo di questi combattenti comunisti era perpetuato all’interno dell’Armata Rossa da una divisione di fanteria della riserva che – per quanto totalmente composta da russi – portava il nome onorifico “Proletari Italiani”. Detto ciò, a prescindere dalle questioni ideologiche, alcuni ex- prigionieri irredenti rimasero comunque in Urss e misero su famiglia nei piccoli villaggi dove erano giunti per lavorare la terra. Gli Alpini nel 1942 si imbatterono in alcuni di loro e nelle loro famiglie.
    Very interesting post , especially about the cossacks and auxiliaries. Would they be in the Arrigo Petacco book ? Or another publication ?

  10. #10
    Utente registrato L'avatar di storiaememoriagrigioverde
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    Solo le ultime foto da me postate sono tratte dal citato libro di Arrigo Petacco, gli altri dati provengono da numerose altre fonti (libri e riviste).
    CHISSA' A QUALE DI QUESTI ALBERI CI IMPICCHERANNO?

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