Altre presenze sovietiche in Italia
Cosacchi
Nel 1942 presso il Comando della 8^ Armata Italiana in Russia fu creato un reparto a cavallo arruolando volontari cosacchi e denominato “Banda Campello” dal nome del suo comandante, il maggiore di cavalleria Ranieri di Campello. L’unità raggiunse la forza di alcune centinaia di uomini riuniti in una s
otnja, equivalente nella tradizione cosacca ad uno squadrone. Visti i favorevoli risultati ottenuti dai volontari come esploratori e informatori al servizio dell’Ufficio Informazioni dell’A.R.M.I.R. era stato previsto di formare due Rgt. cosacchi (uno di cavalleria ed uno di fanteria) reclutando in loco altri 2.000 uomini, previa autorizzazione dell’alleato germanico e dell’Atamano cosacco del Don. L’offensiva sovietica del dicembre 1942 vanificò tale progetto e la “Banda Campello” seguì le truppe italiane in ritirata, condividendone il destino. Quando nel marzo 1943 Campello fu rimpatriato per ferite l’unità assunse la denominazione di “Gruppo cosacco Savoia” e il comando fu assunto dal capitano Giorgio Stavro Santarosa. Il reparto, ridotto a 200 uomini, una volta giunto in Italia nel giugno di quell’anno fu accasermato a Maccacari (VR) dove si provvide a riorganizzarlo e riequipaggiarlo integrandovi superstiti di altre formazioni ausiliarie russe, russi bianchi naturalizzati italiani e volontari tratti dalla colonia di cosacchi zaristi rifugiatasi in Albania sin dagli anni venti. Si tentò anche di reclutare volontari tra i russi anticomunisti presenti nella Francia meridionale, occupata militarmente dalla 4^ Armata del generale Vercellino, ma con pochi risultati a causa dell’ostruzionismo da parte dei tedeschi e del governo francese di Vichy. A fine agosto la denominazione dell’unità fu cambiata in “Banda irregolare cosacca” ordinata su un Comando italiano, un Comando cosacco subordinato e tre
sotnje cosacche, per un totale di 257 cavalieri, inclusi i 14 del Comando italiano, ma le cose procedevano a rilento. L’armistizio colse il reparto in procinto di essere trasferito in Albania alle dipendenze della 9^ Armata come unità antiguerriglia, ma ancora privo dei mitra Beretta promessi in sostituzione dei Ppsh 41 sovietici. A seguito di ripetute richieste di disarmo avanzate dai tedeschi tra il 9 ed il 12 settembre, il comandante Stavro Santarosa prima di decidere il da farsi convocò secondo l’uso tradizionale cosacco la
rada, assemblea democratica di tutti i cosacchi in armi. Ascoltato il parere dei sottoposti, il 13 settembre l’ufficiale dispose lo scioglimento e la dispersione temporanea del Gruppo, ritirandosi poi nella sua tenuta di Cormons (GO) seguito solo dall’attendente cosacco. A quel punto i volontari presero strade diverse. Un plotone passò in blocco ai tedeschi che lo trasferirono sul fronte di Cassino, dove fu completamente annientato. Altri cosacchi combatterono a fianco dei partigiani, ma la maggior parte finirono per unirsi alle truppe dell’Atamano Krasnov, trasferitesi in Carnia nel 1944. Al termine del conflitto, alcuni dei sopravvissuti chiesero la cittadinanza italiana motivando la richiesta con l’aver prestato servizio nel nostro esercito.
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Ausiliari ucraini
Il giornalista italiano Arnaldo Cappellini, corrispondente di guerra al seguito dell’A.R.M.I.R. per
Il Secolo Sera e
L’Illustrazione Italiana dal luglio 1942 al gennaio 1943, ricordò nel dopoguerra una sua visita al campo di prigionia allestito dal XXXV C.d’A. (ex- C.S.I.R.) a Karynskaia nel settembre 1942, dove tra i prigionieri erano stati ripristinati il saluto e il regolamento di epoca zarista (mentre il rancio era identico a quello delle truppe combattenti italiane). Cappellini scrisse che lavorando sei ore al giorno in aziende agricole nei dintorni “le pattuglie di prigionieri russi vengono avviate al lavoro al comando di sottufficiali, sotto la scorta di soldati ucraini al nostro servizio”. Secondo il giornalista le guardie ucraine in questione, dipendenti dall’ufficio informazioni del Corpo d’Armata, avevano in dotazione fucili russi e vestivano “l’uniforme grigioverde nostra con al bavero mostrine azzurro-giallo come la bandiera nazionale ucraina e sulla bustina il tridente di San Vladimiro”. L’affermazione del giornalista è apparentemente stupefacente, considerato che nell’Ucraina occupata i nazisti avevano proibito tali simboli sin dal 1941. Il movimento anticomunista ucraino guidato dal leader nazionalista Stepan Bandera agiva in U.R.S.S. sino dagli anni trenta grazie alla sua organizzazione terroristico-militare U.P.A. (Esercito di Liberazione Ucraino), operante al confine tra la Galizia polacca e l’Ucraina sovietica. La U.P.A. crebbe nel decennio successivo sino ad assumere le dimensioni di un piccolo esercito partigiano, dotato di armi pesanti, centinaia di autocarri e alcuni mezzi corazzati catturati ai sovietici o recuperati sui campi di battaglia nel 1941. Inizialmente collaborativi con i tedeschi, quando fu chiaro che questi non avrebbero mai concesso l’indipendenza sperata, gli uomini di Bandera si rifugiarono di nuovo nel folto delle foreste, combattendo una lunga guerriglia contemporaneamente contro comunisti e nazisti, sino al 1945. Oggetto della spietata repressione staliniana nel secondo dopoguerra, alcuni nuclei isolati di combattenti ucraini rimasero in armi, sostenuti sporadicamente dai servizi segreti inglesi e americani almeno sino al 1956, quando gli ultimi di loro esfiltrarono a cavallo attraverso centinaia di chilometri di territorio sovietico, polacco e cecoslovacco per unirsi agli insorti anticomunisti ungheresi. Al termine dei combattimenti a Budapest i pochi ucraini superstiti si diressero nuovamente ad ovest, rifugiandosi in Austria. Stepan Bandera, prima sfruttato dai nazisti in chiave antisovietica, poi arrestato e deportato in Germania e infine esule nella Repubblica Federale Tedesca sotto la protezione degli americani, fu assassinato a Monaco di Baviera nel 1959 da un agente del K.G.B.
Pochi sanno però che entrando con il C.S.I.R. in territorio ucraino nel 1941 il generale Messe fece prendere segretamente contatto coi dirigenti locali della U.P.A. spiegando loro che:
- L’Italia a differenza della Germania non aveva mire espansionistiche sul territorio ucraino.
- Il Fascismo vedeva con simpatia la lotta anticomunista del movimento nazionalista di Bandera.
- Dopo il crollo del regime bolscevico il Corpo d’Armata italiano sarebbe celermente rimpatriato, lasciando all’U.P.A. tutte le armi di p.b. ed eventuali scorte di magazzino intrasportabili.
Il risultato fu una sorta di “non belligeranza” tra italiani e nazionalisti ucraini. Noi non li molestavamo e loro in cambio proteggevano le nostre retrovie, avvisandoci delle mosse dei partigiani comunisti. A un certo punto giungemmo anche a fornir loro apparati radio e codici cifrati per le comunicazioni (tutto ciò naturalmente alle spalle degli alleati tedeschi, proprio come accadde in Jugoslavia coi Cetnici). Probabilmente è dovuta a ciò la presenza di nazionalisti ucraini in uniforme alle dipendenze dell’Ufficio “I” come descritto da Cappellini. Non è certo se qualche nazionalista ucraino sia giunto in Italia con le nostre truppe. Certamente i più rimasero in loco, continuando la guerriglia contro i sovietici.
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Civili collaborazionisti
Secondo il sistema istituito dai tedeschi nei territori sovietici occupati dal 1941, ogni centro abitato aveva un suo sindaco collaborazionista obbligato a rispondere agli occupanti. Tale sindaco secondo l’uso zarista era chiamato borgomastro nelle città e starosta nei villaggi. Si trattava abitualmente di uomini molto anziani, formatisi prima della rivoluzione. Ogni centro abitato aveva uno o più “polizei” o poliziotti russi, autorizzati a portare le armi e contraddistinti da una fascia bianca sugli abiti civili. Per questo ruolo di controllo del territorio e contrasto alla resistenza erano scelti in genere uomini giovani, prigionieri di guerra di tendenze anticomuniste, privati cittadini che avevano sofferto a causa del potere sovietico o che avevano scontato pene detentive nei Gulag. Nelle zone che ricadevano sotto l’autorità dell’A.R.M.I.R. starosta e poliziotti locali avevano rapporti stretti e cordiali con il controspionaggio militare e le sezioni campali dei CC.RR. italiani. Probabilmente i civili russi più compromessi tentarono anch’essi di trovare una via di scampo insieme alle loro famiglie durante la grande ritirata italiana ma non ci sono evidenze che essi siano stati evacuati in Italia ed è improbabile dato il caos creatosi in quelle circostanze. Forse solo qualche “polizei” o interprete in servizio all’Ufficio “I” raggiunse l’Italia e si aggregò in seguito ai cosacchi di Campello. C’è comunque da dire che non c’era bisogno di essere particolarmente collaborazionisti per subire le prevedibili ritorsioni: gli ordini draconiani emanati da Stalin nel 1941 consideravano traditori passibili della pena di morte tutti i cittadini sovietici che restassero a qualsiasi titolo in territorio occupato dal nemico. Appena dopo il conflitto il paranoico dittatore georgiano vagheggiò persino lo sterminio totale di ucraini, bielorussi e baltici (da lui considerati in blocco come popoli traditori) e la loro sostituzione con popolazioni russofone ma ne fu dissuaso solo perché tali popolazioni erano troppo numerose.
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Prigionieri di guerra
In base agli accordi italo-tedeschi sulla condotta bellica al fronte russo, solo un ristretto numero di prigionieri di guerra sovietici fu trasportato in Italia prima della grande ritirata del gennaio 1943 e molti di essi dopo l’armistizio si unirono ai partigiani italiani. Altri prigionieri considerati affidabili e di tendenze anticomuniste, contraddistinti da un bracciale bianco, restarono a lavorare come manovalanza nelle immediate retrovie italiane sotto sorveglianza dei Carabinieri. Lavoravano nei campi, tagliavano legname e immagazzinavano carbone per l’inverno. Raccoglievano e riparavano armi ed automezzi di preda bellica, erano conducenti di carrette a traino animale troike e slitte (a seconda della stagione). Affiancavano i militari italiani nei depositi e nei magazzini della sussistenza, aiutavano nella panificazione e nella preparazione del rancio. Mentre i tedeschi miravano programmaticamente allo sterminio per fame e malattie del maggior numero possibile di prigionieri di guerra slavi, considerati inferiori secondo le teorie razziali naziste, gli italiani concedevano ai prigionieri lo stesso rancio dei loro soldati (alcolici esclusi), sigarette e cartoline bilingue per comunicare con le famiglie (nonostante l’Urss non avesse mai ratificato la convenzione di Ginevra). I tentativi di fuga furono molto rari e durante la ritirata gruppi di prigionieri si aggregarono volontariamente a reparti italiani chiedendo di poterne condividere le sorti, spesso traendoli in salvo dall’accerchiamento. Alcuni di questi semiliberi sulla parola giunsero infine in Italia e furono aggregati alla sopracitata “Banda irregolare cosacca”. Alquanto singolare è invece la vicenda di alcune decine di prigionieri di guerra sovietici che accettarono di collaborare col Regio Esercito e nell’estate del 1943 vennero riuniti in un piccolo e confortevole campo di prigionia a Taormina sorvegliati da pochi Carabinieri Reali. Si trattava di artiglieri e carristi che avrebbero dovuto addestrare le nostre divisioni e brigate costiere all’uso di armamenti sovietici di p.b. fornitici dall’alleato germanico per difendere le coste della Sicilia in vista di un probabile sbarco angloamericano. Cannoni pesanti, medi e controcarro furono caricati insieme a numerose torrette di carri armati su tre convogli che attraversarono il Brennero diretti verso il sud insieme a sottufficiali istruttori tedeschi. Il primo treno raggiunse Messina e fu distrutto in stazione da un bombardamento americano. Il secondo treno non riuscì ad attraversare lo stretto e tornò indietro, il terzo rimase nell’Italia centrale in seguito alla caduta di Mussolini il 25 luglio. Quanto ai prigionieri russi, essi rimasero inoperosi e indisturbati a Taormina fin quando gli angloamericani, impadronitisi della Sicilia, li rimpatriarono via mare in Urss.
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Cittadini sovietici di origine italiana
Vi furono alcuni casi nei quali prigionieri di guerra o civili sovietici dei territori occupati si rivolsero alle nostre autorità militari sostenendo di essere sudditi italiani o discendenti di sudditi italiani giunti a vario titolo nella Russia zarista prima della rivoluzione e chiedendo di essere rimpatriati in Italia. Si trattò di un numero esiguo di casi e spesso questi italo-russi o presunti italiani non parlavano neanche più la nostra lingua ed avevano solo il loro cognome a provare le loro affermazioni. Tali casi dovettero certamente venire vagliati con estrema cautela dalle competenti autorità. Non ho notizia se e quanti di questi individui ottennero documenti italiani e furono autorizzati a trasferirsi nel Regno prima del gennaio 1943. Certamente molto pochi. Mi limiterò dunque a fornire notizie sui vari gruppi di italiani presenti in territorio sovietico.
GLI ITALIANI DI CRIMEA
La presenza stabile di italiani in Ucraina e nella penisola di Crimea ha una lunga storia che rimonta ai tempi della Repubblica di Genova e di Venezia. Un flusso migratorio italiano giunse più di recente a Kerč all’inizio dell’Ottocento. Nel 1820 in città abitavano circa trenta famiglie italiane provenienti da varie regioni. Il porto di Kerč era regolarmente frequentato da navi italiane ed era stato aperto anche un consolato del Regno di Sardegna. Uno dei viceconsoli, Antonio Felice Garibaldi, era lo zio di Giuseppe Garibaldi. Fra il 1820 e la fine del secolo giunsero in Crimea nel territorio di Kerč, emigranti italiani provenienti soprattutto dalle località pugliesi di Trani, Bisceglie e Molfetta allettati dalla promessa di buoni guadagni e dalla fertilità delle terre e dalla pescosità dei mari. Erano soprattutto agricoltori, uomini di mare (pescatori, commercianti, capitani di lungo corso) ed addetti alla cantieristica navale. La città di Kerč si trova infatti sull’omonimo stretto che collega il Mar Nero col Mare d’Azov. Ben presto si aggiunse una emigrazione più qualificata, con architetti, notai, medici, ingegneri e artisti. Nel 1840 gli italiani - tutti cattolici in una zona prevalentemente ortodossa con una piccola minoranza musulmana rappresentata dai tatari - progettarono e costruirono a loro spese una chiesa cattolica, detta ancora oggi “la chiesa italiana”. All’inizio del Novecento c’era ancora un parroco italiano cacciato dopo la rivoluzione, quando la chiesa fu chiusa e trasformata prima in una palestra e poi in un deposito di masserizie. Famiglie italiane erano presenti anche a Feodosia (l’antica colonia genovese di Caffa), Simferopoli, Odessa, Mariupol e in alcuni altri porti russi e ucraini del Mar Nero, soprattutto a Novorossijsk e Batumi. Secondo il
Comitato statale ucraino per le nazionalità, nel 1897 gli italiani sarebbero stati l’1,8% della popolazione della provincia di Kerč, percentuale passata al 2% nel 1921; alcune fonti parlano specificatamente di tremila o cinquemila persone. Alla vigilia della prima guerra mondiale a Kerč c’erano una scuola elementare, una biblioteca, una sala riunioni, un club e una società cooperativa, tutti luoghi d’incontro per la nostra comunità che era molto unita e che in pochi decenni era diventata una delle più agiate della città. Il giornale locale
Kerčenskij Rabocij in quel periodo pubblicava regolarmente articoli in lingua italiana. Con l’avvento del comunismo alcune famiglie fuggirono in Italia via Costantinopoli, gli altri furono perseguitati con l’accusa di simpatizzare per il fascismo. A metà degli anni venti, i comunisti italiani rifugiatisi in Urss furono inviati a Kerč per “rieducare” a forza la minoranza italiana. Furono loro a decidere la chiusura della chiesa, a sostituire i maestri di scuola con personale fedele al partito, a infiltrarsi nella comunità italiana per coglierne i malumori e riferire tutto alla polizia segreta OGPU/NKVD. Nel quadro della collettivizzazione forzata delle campagne voluta da Stalin, nel 1930 gli italiani furono obbligati a creare il kolchoz agricolo “Sacco e Vanzetti” guidato da Marco Simone, un italiano di Kerč che aveva da subito aderito al comunismo; coloro che non vollero farne parte furono obbligati ad andarsene lasciando ogni avere o furono arrestati. A seguito di ciò, nel censimento del 1933 la percentuale degli italiani risultava scesa all’1,3% della popolazione della provincia di Kerč. Infine, tra il 1935 e il 1938 le purghe staliniane fecero sparire nel nulla molti italiani, arrestati con l’accusa formale di spionaggio in favore dell’Italia fascista e attività controrivoluzionarie. Nel 1942 a causa dell’avanzata della Wehrmacht in Ucraina e in Crimea, le minoranze nazionali presenti sul territorio finirono deportate con l’accusa di collaborazionismo seguendo l'infelice destino della minoranza tedesca, già deportata ad agosto 1941 all’inizio dell’Operazione Barbarossa. La deportazione della minoranza italiana iniziò il 29 gennaio 1942 e chi era sfuggito a un primo rastrellamento fu catturato e deportato tra l’8 e il 10 febbraio 1942. L’intera comunità, compresi i rifugiati antifascisti che si erano stabiliti a Kerč, venne radunata e costretta a mettersi in viaggio verso i Gulag. A ciascuno di loro fu permesso di portare con sé non più di 8 chilogrammi di bagaglio. Il convoglio attraversò i territori di Russia, Georgia, Azerbaigian, Turkmenistan, Uzbekistan e Kazakistan: via mare da Kerč a Novorossijsk e poi via terra fino a Baku, fu quindi attraversato il Mar Caspio fino a Krasnovodsk ed infine i deportati giunsero in treno sino ad Atbasar, per essere poi dispersi nella steppa tra Akmolinsk e Karaganda, dove furono accolti da temperature polari fra i 30 e i 40 gradi sotto zero che li decimarono. Lo stretto di Kerč e il Mar Caspio furono attraversati con navi sulle quali gli italiani erano confinati nella stiva, una di esse affondò. A causa della lentezza con cui procedevano i convogli il viaggio durò fino a marzo e quasi metà dei deportati, tra cui tutti i bambini, morì durante il viaggio. Ulteriori vittime si ebbero nelle terre abitate dai Cosacchi per i maltrattamenti subiti. Si calcola che forse sopravvisse solo il 20% dell’intera popolazione. I pochi sopravvissuti rientrarono a Kerč solo dopo il 1956, sotto Krusciov. Alcune famiglie si dispersero sul territorio dell’ex Unione Sovietica, negli attuali stati di Kazakistan e Uzbekistan e nella Repubblica dei Comi in Russia. In conseguenza della deportazione forzata voluta da Stalin le nostre truppe non ebbero occasione di incontrare gli italiani di Crimea. Essi ammontano oggi a circa cinquecento persone, anche se un censimento vero e proprio non è mai stato fatto. La maggior parte di loro risiede a Kerč, dove nel 2008 si è costituta l’associazione “C.E.R.K.I.O.” (Comunità degli Emigrati in Regione di Krimea - Italiani di Origine) con i seguenti obiettivi:
- Salvaguardia e promozione della lingua e cultura italiana, attraverso corsi gratuiti.
- Riconoscimento da parte delle autorità ucraine dello status di minoranza perseguitata e deportata, sia per ristabilire la verità storica sia per poter usufruire di alcuni vantaggi di tipo economico riservati alle vittime del comunismo dal governo ucraino.
- Consolidamento dei rapporti istituzionali con l’Italia.
- Ricostruzione dell’albero genealogico degli italiani di Crimea, reso estremamente difficoltoso dal fatto che durante la deportazione a tutti gli italiani vennero sequestrati i documenti di identità e molti superstiti, pur parlando italiano, sono impossibilitati a dimostrare le proprie origini.
Purtroppo la successiva invasione da parte delle forze armate russe e la riannessione forzata della penisola di Crimea nella Federazione Russa, nonché l’aperto sostegno militare garantito da Putin ai cosiddetti secessionisti nella regione del Donbass (in realtà una vere e proprie quinte colonne di Mosca, composte da russofoni inviati già in epoca sovietica ad insediarsi nelle zone minerarie dell’Ucraina orientale, ritenute di particolare interesse strategico) hanno ostacolato le iniziative degli italiani di Crimea, considerati dal nuovo potere locale come filo-ucraini e dunque politicamente sospetti.
EMIGRANTI ITALIANI IN SIBERIA
Negli ultimi venti anni dell’ottocento ebbe luogo un forte fenomeno migratorio particolarmente dal Veneto (allora una delle regioni più povere d’Italia) ma anche da Trentino, Istria e Dalmazia verso la Siberia, sostenuto dalla volontà del governo zarista di iniziare lo sfruttamento di quel vastissimo territorio ricco di risorse naturali, sino ad allora utilizzato principalmente per esiliarvi criminali e detenuti politici. Poiché nonostante venissero loro concesse grandi agevolazioni, i sudditi dello Zar erano restii ad insediarsi volontariamente in quei luoghi inospitali, si favorì la colonizzazione da parte di immigrati italiani, che talvolta giungevano con le famiglie al seguito. I veneti erano sudditi dei Savoia, i trentini gli istriani e i dalmati degli Asburgo, dunque i russi distinguevano gli emigranti di lingua italiana tra “regnicoli” ed “imperial-regi” a seconda della loro nazionalità. Per la maggior parte si trattava di cacciatori, boscaioli e minatori che si stabilirono in località isolate dell’entroterra sfidando la natura ostile per procurarsi le preziose materie prime: legname, carbone, argento. Ad essi si aggiunsero in seguito carpentieri, ebanisti, pellicciai e commercianti, stanziati soprattutto nel porto di Vladivostok e in altre località costiere. Negli anni dieci tali emigranti si erano conquistati un posto importante nella società siberiana, ma in seguito alla 1^g.m. e agli sconvolgimenti dovuti alla rivoluzione ed alla successiva Guerra Civile la maggior parte di loro scelse di rimpatriare in Italia al seguito del Corpo di spedizione anticomunista italiano in Siberia. Ma alcuni che vivevano in zone isolate o avevano sposato donne russe non vollero o poterono rientrare in Italia, seguendo nel bene e nel male la sorte del popolo russo e venendo alla fine naturalizzati sovietici. Ciò spiega perché alcuni soldati delle truppe siberiane sul Don si rivolgevano ai nostri Alpini in dialetto veneto, in quanto figli o nipoti di quegli emigranti.
EX-PRIGIONIERI AUSTROUNGARICI DI LINGUA ITALIANA
Un gran numero di soldati austroungarici cadde prigioniero delle truppe zariste nei primi anni della 1^g.m. e tra essi moltissimi sudditi di lingua italiana della duplice monarchia. Trentini, giuliani, istriani e dalmati erano considerati particolarmente infidi in quanto sensibili all’irredentismo italiano, dunque già nel 1914 furono mobilitati e inviati a combattere i russi in Galizia, il più possibile lontano dal confine col Regno d’Italia. Dispersi anche in prigionia nelle varie regioni dell’impero zarista, furono generalmente impiegati nei lavori agricoli e trattati relativamente bene anche perché col procedere del conflitto un gran numero di essi chiese di poter rientrare in Italia per combattere sotto il tricolore. Allo scoppio della guerra civile vennero trattenuti dal nuovo governo bolscevico e visti con crescente sospetto. Molti di loro furono fatti esfiltrare in treno verso la Cina da ufficiali dei CC.RR. e raggiunsero il possedimento italiano di Tien-Tsin da dove proseguirono verso l’Italia. Altri dopo un breve addestramento furono inquadrati nei Battaglioni Neri e inviati in Siberia al seguito del Corpo di spedizione italiano anticomunista a sostegno dei russi bianchi. Alcuni di quelli rimasti in Russia aderirono all’ideologia comunista e si arruolarono volontari nell’Armata Rossa combattendo contro i bianchi. Negli anni venti un intero reparto a cavallo era formato da ex-prigionieri austroungarici di lingua italiana. Congedati nel 1923 costoro non poterono rientrare alle loro case ma appena passata la frontiera vennero confinati in Sardegna per una lunga “quarantena politica” voluta dal fascismo nel timore che potessero propagare i germi della rivoluzione. Ancora nel 1940 il ricordo di questi combattenti comunisti era perpetuato all’interno dell’Armata Rossa da una divisione di fanteria della riserva che – per quanto totalmente composta da russi – portava il nome onorifico “Proletari Italiani”. Detto ciò, a prescindere dalle questioni ideologiche, alcuni ex- prigionieri irredenti rimasero comunque in Urss e misero su famiglia nei piccoli villaggi dove erano giunti per lavorare la terra. Gli Alpini nel 1942 si imbatterono in alcuni di loro e nelle loro famiglie.