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Discussione: Militari statunitensi cacciatori di teste nella Pacifico

  1. #1
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    Militari statunitensi cacciatori di teste nel Pacifico

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    PREMESSA

    Quella di raccogliere teschi umani o altre parti dai cadaveri dei nemici uccisi è una pratica antichissima, perpetrata sin da tempi preistorici. Inizialmente i trofei erano strettamente legati all’esaltazione del valore dei combattenti quando le guerre erano un semplice susseguirsi di risse sregolate tra orde di singoli combattenti individuali. Col passare dei secoli, soprattutto in occidente tali mutilazioni divennero gradualmente sempre più deprecabili agli occhi di un gran numero di persone parallelamente al diffondersi di determinati valori religiosi e di una sempre maggiore disciplina militare imposta dalle prime rudimentali forme statuali, ma furono comunque portate avanti in circostanze estreme durante tutti i conflitti, in tutti gli eserciti a tutte le latitudini. Anche laddove vennero ufficialmente proibite o sanzionate, una reminiscenza edulcorata di tali pratiche arcaiche rimase comunque visibile nell’uniformologia di molti eserciti europei, particolarmente nell’uso di permettere a reparti o specialità distintisi per valore e sprezzo del pericolo di portare sulla divisa militare il simbolo del teschio in varie fogge. E’assai noto che prima e durante la 2^g.m. i giapponesi in più occasioni decapitarono prigionieri di guerra, sia asiatici che bianchi. Ma la vicenda dei teschi-trofeo presi su scala pressoché industriale dagli americani sul fronte del Pacifico può a buon titolo considerarsi un caso unico. Le decapitazioni e le altre mutilazioni perpetrate ai danni di soldati nipponici vivi e morti non furono affatto sporadiche e occasionali. Esse erano dovute non soltanto a motivazioni razziali o ideologiche, ma anche all’esistenza di un prolifico commercio di tali macabri souvenir, sia fra le truppe che tra i civili in patria. Troppo spesso erano proprio le insistenti richieste di amici e parenti a spingere i soldati a procurarsi tali ambiti ricordi a scapito del nemico. E naturalmente, data la mentalità apertamente mercantilistica vigente negli Stati Uniti, ci fu chi vi lucrò sopra. Dato che il conflitto andava ormai assumendo il carattere di una vera e propria guerra di sterminio ai danni dell’intero popolo giapponese, molti non si fecero scrupoli di tirare su qualche dollaro commerciando in resti umani.
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  2. #2
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    PRECEDENTI STORICI NELLA CULTURA AMERICANA

    Nonostante sia un pensiero molto disturbante per l’americano medio – da sempre abituato a considerare se stesso come l’apice della civilizzazione e il suo paese come avanguardia del progresso e della modernità – un filo rosso lega i padri pellegrini sbarcati dalla Mayflower agli odierni serial killer: la pratica delle mutilazioni su cadaveri e l’utilizzo di parti del corpo come trofei-feticcio. Tali pratiche sono un retaggio della vita primitiva, quando la mutilazione rituale sia ai danni del nemico che della preda animale era intesa ad esaltare le doti di mascolinità, coraggio e abilità del guerriero/cacciatore agli occhi delle femmine della tribù. Molti studiosi ritengono però che sia un comportamento niente affatto episodico ma abbia un profondo legame con aspetti da lungo tempo rimossi e dimenticati della cultura popolare statunitense. Al riguardo mi limito a citare alcuni esempi.
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    Nella biblioteca di Harvard sono custoditi quattro grossi tomi di argomento religioso rilegati in pelle umana, è tutto ciò che resta del pioniere Jonas Wright, scuoiato vivo dai guerrieri Wavuma nel lontano 1632. Il poveretto aveva avuto il torto di avventurarsi nei territori sacri della tribù, letteralmente rimettendoci la pelle. Furono però i pii confratelli della sua congregazione protestante a prendere la bizzarra iniziativa di conciarne la pelle ed usarla come rilegatura per bibbie e libri di preghiera, affinchè la memoria del defunto fosse eternata nella comunità dei fedeli.

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    La pratica dello scotennamento (o scalpatura che dir si voglia), per decenni simbolo stesso della presunta ferocia dei “musi rossi” veicolata dai film hollywoodiani, in realtà fu introdotta presso i nativi americani dagli europei prima ancora della nascita degli Stati Uniti d’America. Durante le guerre franco-inglesi, della prima metà del settecento entrambe le parti in conflitto assoldarono nelle loro colonie nordamericane un numero crescente di “trappers” bianchi e guerrieri di varie tribù come guide e combattenti irregolari. Tali mercenari venivano pagati in base al numero dei nemici uccisi, così sull’esempio dei cacciatori di pellicce bianchi – abituati da sempre a scuoiare le loro prede – anche i nativi americani iniziarono a prendere gli scalpi ai morti come prove del “body count”. Soltanto in seguito tale usanza si diffuse a macchia d’olio tra le varie tribù, diventando pratica comune quasi cento anni dopo anche fra i nativi che non erano ancora venuti a diretto contatto con gli uomini bianchi.
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    Il 21 agosto 1831 nella contea di Southampton, Virginia, un nero alfabetizzato e cristianizzato di nome Nat Turner capeggiò una violenta insurrezione di schiavi durante la quale furono trucidati oltre sessanta uomini, donne e bambini bianchi. Il giorno successivo i ribelli vennero dispersi o catturati da una posse di civili armati. Turner inizialmente si diede alla macchia, ma venne arrestato il 30 giugno dello stesso anno. Processato e condannato a morte con alcuni complici, il suo cadavere fu consegnato ai medici che lo scuoiarono e lo saponificarono. Secondo quanto riportato da W. S. Drewry, il padre del signor R. S. Barham possedeva un portamonete fatto con la pelle di Turner. Lo scheletro invece fu per molti anni in possesso di un certo dottor Massenberg, ma in seguito alla guerra civile se ne persero definitivamente le tracce.

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    William Least Heath-Moon nel suo libro sulla colonizzazione del Kansas intitolato Prateria afferma che dopo la deportazione in una riserva dei pacifici indiani Kaw (nome che storpiato in Kansa finì per dare il nome a quel territorio), i coloni bianchi si diedero a saccheggiarne i cimiteri tribali alla ricerca di improbabili tesori nascosti. Il risultato fu la vasta diffusione in tutto lo stato del Kansas di oggetti d’artigianato realizzati a partire da resti umani sottratti alle sepolture, in particolare teschi indiani trasformati in tabacchiere.
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    Per vendicare la morte di Custer a Little Bighorn, nel 1876 Buffalo Bill uccise e scotennò il capo indiano Mano Gialla, a suo dire nel corso di un leale duello all'arma bianca secondo le usanze dei nativi americani. Recenti studi smentiscono le dichiarazioni rilasciate all'epoca da William Cody, impegnato a costruirsi una menzognera aura di eroe del Far West, che avrebbe in seguito sfruttato prima come attore teatrale e poi come impresario del celeberrimo spettacolo itinerante. In realtà Mano gialla fu ucciso a tradimento, colpito alle spalle da un colpo di fucile mentre si era appartato dietro un cespuglio per un bisogno fisiologico. Il suo scalpo fu venduto da Cody al miglior offerente.



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    Il criminologo francese Stéphane Bourgoin nel suo libro La follia dei mostri, dedicato ai serial killer statunitensi, riporta come nella tradizione yankee fosse ben radicato e relativamente comune prendersi macabri souvenir dai corpi dei nemici Le giubbe blu toglievano abitualmente gli scalpi ai nativi americani uccisi e ne facevano commercio dato che tali manufatti erano assai richiesti. Alla metà dell’ottocento giacche di daino adorne di scalpi indiani erano vendute nelle città della costa atlantica a prezzi stratosferici. Esisteva anche un florido commercio di teschi indiani, venduti a studenti in medicina, antropologi o istituzioni universitarie.

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    Quanto ai fuorilegge del Far West – sia fossero giustiziati dopo regolare processo o linciati dalla folla – si conciava abitualmente la loro pelle per farne degli stivali e si usavano i loro crani come calamai. Uno dei casi più noti è quello del bandito George Parrott, noto anche come “Big Nose George” per le dimensioni eccezionali del suo naso. Condannato a morte nel 1881 per varie rapine ai treni e omicidi perpetrati in territorio del Wyoming nel 1878, nell’imminenza dell’esecuzione tentò di fuggire dal carcere della città di Rawlins, ma venne catturato e impiccato a un palo telegrafico dalla folla inferocita. Dopo il linciaggio il suo cadavere venne reclamato “nell’interesse della scienza” da due medici del luogo, tali Osborne e Maghee. Il dottor Maghee si limitò, con l’aiuto della sua giovane assistente, a segare il cranio del bandito per misurare peso e dimensioni del cervello, a caccia di elementi fisiologici che ne determinassero l’indole criminale secondo le teorie dell’italiano Cesare Lombroso. Il dottor Osborne invece si spinse oltre, perpetrando sul corpo pratiche assai poco scientifiche. Anzitutto realizzò un calco in gesso del volto, dal quale ottenne la maschera mortuaria di Parrott. Poi, rimossa chirurgicamente la pelle delle cosce e del torace (capezzoli inclusi), la spedì ad una conceria di Denver chiedendo che venisse utilizzata per realizzare un paio di scarpe e una borsa da medico. Quando un anno dopo si fu stancato di giocare coi poveri resti conservati sotto sale in un barile di whisky, il bizzarro Osborne li seppellì nel giardino dietro il suo studio medico, dove rimasero dimenticati per molti anni. Indossando orgogliosamente le sue scarpe in pelle umana, il buon dottore si rese protagonista di una vera e propria scalata sociale. Nell’arco di pochi anni divenne presidente della banca locale, il più ricco allevatore di bestiame del Wyoming, il primo Governatore dello Stato per il partito democratico e infine, assistente Segretario di Stato del Presidente Wilson. Nel 1950 il barile e il suo macabro contenuto tornarono alla luce nel corso degli scavi per le fondamenta di un palazzo e indagini giornalistiche consentirono di localizzare anche la calotta cranica mancante. Le scarpe in pelle umana, il cranio e la maschera mortuaria sono esposti al Carbon Country Museum di Rawlins, Wyoming. La calotta cranica è invece conservata all’Union Pacific Railroad Museum di Council Bluffs, Iowa.
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    Tra il 1882 e il 1968 nel sud degli Stati Uniti vi furono 4743 linciaggi motivati dall’odio razziale, la maggior parte ai danni di afroamericani, ma anche di immigrati cinesi, slavi e italiani. Come la studiosa Alessandra Lorini ha dimostrato nel suo saggio Cartoline dall’inferno le vittime della cosiddetta “Legge di Lynch” – torturate a morte, impiccate o crivellate di colpi – spesso venivano smembrate e ridotte a brandelli. Questi ultimi erano poi distribuiti per ricordo ai presenti. Ciò accadeva apertamente alla presenza di autorità locali conniventi e talvolta di fotografi pronti ad immortalare il risultato di tale gradevole passatempo. Ma è Gian Antonio Stella nel suo libro Negri, froci, giudei & Co. a citare uno dei casi più conosciuti, documentato nel museo Jim Crow della Ferris State University. Nel 1904 il nero Luther Holbarth e sua moglie furono catturati e messi a morte da una folla inferocita. Li legarono agli alberi costringendoli a mettere in mostra le mani, poi tagliarono loro un dito alla volta. Esaurite le dita, mozzarono loro anche le orecchie. Solo allora gli aguzzini, dopo aver accatastato legna e fascine, bruciarono vivi gli sventurati coniugi. I bravi concittadini si disputarono poi a suon di dollari il possesso di dita e orecchie come ambiti souvenir.
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  3. #3
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    UCCISIONE DELIBERATA DI PRIGIONIERI INERMI

    Nel corso della 2^ g.m. i soldati americani uccisero deliberatamente nemici che si erano arresi. Secondo Richard Aldrich, che ha pubblicato uno studio sui diari tenuti da soldati statunitensi, nel Pacifico tale comportamento assunse però carattere endemico. Dower afferma che in molti casi i giapponesi catturati furono uccisi sul posto o durante il tragitto verso la prigionia. Secondo Aldrich non prendere prigionieri era una pratica comune per le truppe statunitensi. Questa analisi è supportata dallo storico britannico Niall Ferguson il quale afferma anche che nel 1943 un rapporto segreto di intelligence annotava che solo la promessa di un gelato e di una libera uscita di tre giorni avrebbe indotto i soldati americani a non uccidere sul posto i prigionieri. Ferguson afferma che nel tardo 1944 la media era di un giapponese prigioniero ogni cento giapponesi uccisi. In quell’anno l’Alto Comando alleato cominciò a prendere provvedimenti per scoraggiare la tendenza delle proprie truppe sopprimere feriti e prigionieri, ciò allo scopo di incoraggiare ad arrendersi il maggior numero possibile di nemici. Alla metà del 1945 queste misure ridussero la media ad un giapponese catturato ogni sette giapponesi uccisi. Nonostante ciò, non fare prigionieri rimase una pratica standard tra le truppe statunitensi anche durante la battaglia di Okinawa, nell’aprile-giugno 1945. Secondo lo studioso statunitense Ulrich Straus non era facile persuadere i soldati americani a prendere vivi e proteggere prigionieri giapponesi. I soldati nipponici spesso fingevano di arrendersi e poi attaccavano di sorpresa. Dunque secondo Straus, gli stessi ufficiali evitavano di prendere prigionieri se farlo poteva mettere a rischio i loro uomini. A Guadalcanal il capitano Burden, un ufficiale dell’ufficio informazioni, annotò che di solito i prigionieri giapponesi venivano uccisi subito dopo gli interrogatori, perché era di troppo disturbo scortarli sino al luogo di detenzione. Peggio ancora, quando verso la fine del conflitto norme più rigorose imposero di non uccidere più i prigionieri, le truppe americane di prima linea presero l’abitudine di negar loro il cibo, sperando che morissero di fame. Come conseguenza, i prigionieri giapponesi apparivano scheletrici e spesso ricevevano il primo pasto completo solo molte settimane dopo essersi arresi, quando passavano di mano al personale delle retrovie e venivano imbarcati per raggiungere via nave i campi di prigionia. Lo storico statunitense James J. Weingartner attribuisce il numero relativamente ridotto di prigionieri di guerra nipponici sino all’agosto del 1945 a due fattori concomitanti: la riluttanza giapponese ad arrendersi e la convinzione dei soldati americani che i nemici fossero bestie immeritevoli del normale trattamento accordato ai prigionieri di guerra. Secondo Ferguson, i militari statunitensi vedevano i giapponesi come i nazisti vedevano i russi, ovvero esseri subumani da sterminare senza rimorsi. Ma anche un altro fattore impediva ai nipponici di arrendersi. Fin dai primi mesi del 1942 essi erano a venuti a conoscenza del fatto che i “diavoli yankee” mutilavano i cadaveri e facevano commercio di teste e altre parti anatomiche, lavorate come singolari oggetti di “trench-art”.
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  4. #4
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    DECAPITAZIONE E MUTILAZIONE DEI CADAVERI NEMICI
    Durante la 2^ guerra mondiale membri delle forze armate degli Stati Uniti nel teatro di operazioni del Pacifico mutilarono soldati giapponesi morti. Le mutilazioni venivano perpetrate per prendere alcune parti del corpo come trofei di guerra. I teschi erano i trofei più comuni, nonostante a volte venissero collezionate anche altre parti del corpo (denti, nasi, orecchie, dita, genitali). Il fenomeno della raccolta di trofei di guerra fu così esteso tra le truppe da essere discusso liberamente su riviste e giornali e coinvolse lo stesso Presidente degli Stati Uniti. Nel 1944 Franklin Delano Roosevelt ricevette in dono da un membro del Congresso un tagliacarte ricavato dall’osso di un braccio. Le prime mutilazioni sui cadaveri iniziarono di fatto con la battaglia di Guadalcanal nell’agosto del 1942, la prima vera vittoria che permise ai militari americani di mettere le mani su soldati giapponesi vivi o morti. Già dal settembre dello stesso anno tali comportamenti vennero ufficialmente proibiti dalle autorità militari, che li condannarono in modo specifico, minacciando a più riprese azioni disciplinari. I risultati però furono quasi nulli e gli americani continuarono a mutilare i cadaveri dei nemici sino alla fine della guerra. Nonostante la contrarietà degli alti comandi di Washington, la maggior parte dei comandanti sul campo incoraggiavano le mutilazioni come dimostrazione di combattività della truppa, o almeno non le sanzionava. L’effettiva estensione del fenomeno è un tema molto dibattuto tra gli storici. Per Weingartner non è possibile determinare con precisione il numero di militari statunitensi che commisero tali atrocità ma è chiaro che la pratica era molto diffusa. Secondo Harrison solo una minoranza tra le truppe statunitensi prese resti umani come trofei, ma tale abitudine era dovuta a un atteggiamento ampiamente condiviso. Secondo Dower la maggior parte dei soldati non fu coinvolta nella ricerca di tali trofei. Nonostante ciò molti sapevano che questi casi accadevano ed erano portati ad accettarli come inevitabili a causa delle circostanze. I veterani intervistati dai ricercatori hanno confermato che estrarre denti d’oro dalla bocca dei giapponesi vivi o morti era universalmente accettato dalla truppa e dagli ufficiali (ma ciò rientra piuttosto nella più ampia categoria del saccheggio, dato che in genere i soldati di prima linea si impossessavano regolarmente di orologi, monili, denaro e qualsiasi altro oggetto di valore trovato indosso al nemico). Riguardo alle teste ed altre parti del corpo le opinioni però tornano a divergere. Secondo Weinstein, che durante la guerra prestò servizio nel Pacifico, prendere teschi e ossa era pratica molto diffusa. John W. Dower afferma che se le orecchie erano il trofeo più comune in quanto facili da prendere, mentre teschi ed ossa venivano collezionati più raramente. I teschi, in particolare non erano molto popolari poiché erano difficili da trasportare e i metodi usati per rimuovere la carne richiedevano tempo ed erano disgustosi. Anche Simon Harrison è della stessa opinione. Niall Ferguson ritiene invece che la pratica di bollire le teste dei soldati giapponesi fosse assai diffusa, specie tra le truppe di seconda linea, che avevano generalmente tempo e mezzi per rimuovere la carne e ripulire i teschi e le ossa, trasformandoli talvolta in oggetti artistici come tagliacarte, anelli, posacenere. Ma anche orecchie, ossa e denti erano assai richiesti.
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  5. #5
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    DEUMANIZZAZIONE DEL NEMICO
    Un gran numero di testimoni attendibili, inclusi molti veterani che prestarono servizio nel Pacifico, hanno provato la diffusione tra le truppe americane dell’abitudine di prendere parti dei cadaveri dei soldati giapponesi come trofeo. Tale fenomeno è stato di volta in volta attribuito alla vasta campagna di disumanizzazione del nemico portata avanti dai media statunitensi, alle tendenze razziste ben radicate nella società americana dell’epoca, allo stress da combattimento che affliggeva soldati costretti a combattere in situazioni estreme, alla volontà di vendetta contro i crimini di guerra perpetrati dall’esercito imperiale nipponico, oppure a una combinazione di tutti questi fattori. A seguire una ridotta ma esaustiva selezione di tali testimonianze.


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    Il Marine Eugene Slade ricordando che in parecchie occasioni suoi commilitoni estrassero denti d’oro dalla bocca dei caduti giapponesi, riferì un caso in cui il soldato nemico era ancora vivo:

    Il soldato giapponese non era morto. Era stato gravemente ferito alla schiena e non riusciva a muovere le braccia, ma nonostante tutto non sembrava intenzionato a tirare le cuoia. Nella sua bocca scintillavano parecchi denti d’oro ed uno dei Marines li voleva.
    Infilò la punta del pugnale alla base di un dente e colpì l’impugnatura col palmo della mano. Poiché il giapponese scalciava e si lamentava, la lama del pugnale mancò il dente ed affondò in profondità nella bocca della vittima. Il Marine lo estrasse e tagliò le guance del giapponese dagli angoli della bocca fino alle orecchie. Poi gli posò un piede sulla mascella e provò ancora. Il sangue zampillò dalla bocca del giapponese, che emise un suono gorgogliante. Io gridai “Libera quest’uomo dalle sue sofferenze!” Ma tutto ciò che ottenni fu una scrollata di spalle. Un altro Marine si avvicinò e sparò un proiettile nella testa del soldato nemico, ponendo termine alla sua agonia. Il saccheggiatore bofonchiò qualcosa, poi riprese ad estrarre i denti indisturbato.

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    Il Marine Donald Fall attribuì la mutilazione dei cadaveri nemici alla frustrazione e al desiderio di vendetta:

    Il secondo giorno a Guadalcanal catturammo un deposito di rifornimenti giapponese ma trovammo anche delle foto di Marines che erano stati decapitati e mutilati a Wake Island. Poco dopo c’erano Marines che andavano in giro con orecchie giapponesi fissate ai cinturoni con spille da balia. Diffusero un ordine del giorno per ricordare che le mutilazioni erano un crimine di guerra passibile di corte marziale. Ma quando vai in combattimento cominci a fare brutti pensieri, vedi cosa fa il nemico. I gialli mutilavano i morti, minavano i corpi dei Marines morti e i corpi dei giapponesi morti. Così ci abbassammo rapidamente al loro livello.
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    Il Marine Ore Marion ricordò un altro caso di mutilazioni:

    Ci avevano insegnato che i giapponesi erano dei selvaggi, ma le reclute che avevamo a Guadalcanal, ragazzi tra i 16 e i 19 anni, impararono presto da loro. All’alba un paio dei nostri, barbuti, sporchi, affamati, sanguinanti per ferite da baionetta, con le uniformi sudice e stracciate, tagliarono tre teste giapponesi e le infilzarono su dei pali affinchè fossero visibili al nemico sulla riva opposta del fiume. Il nostro colonnello vide le teste giapponesi sui pali e disse: “Gesù, uomini, cosa state facendo? Vi state comportando come animali.” Un giovane Marine, sporco e puzzolente disse: “E’ vero colonnello, noi siamo animali. Viviamo come animali, mangiamo come animali e siamo trattati come animali. Cosa c***o si aspettava da noi?”


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    Il 1 febbraio 1943 la rivista Life pubblicò una foto scattata da Ralph Morse durante la battaglia di Guadalcanal, che mostrava la testa di un soldato giapponese infilzata dai Marines sulla mitragliatrice di un carro armato distrutto. Life ricevette un certo numero di lettere da lettori increduli che soldati americani fossero capaci di tale brutalità verso il nemico. Nonostante ciò, la foto della testa mozzata ricevette meno della metà delle lettere di protesta giunte per la foto di un gattino maltrattato, pubblicata nello stesso numero della rivista.
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    Nell’ottobre 1943 l’Alto Comando americano espresse vivissima preoccupazione per l’effetto sull’opinione pubblica nazionale di due recenti articoli di giornale. Nel primo un soldato americano raccontava di essersi fatto una collana usando denti giapponesi. Nel secondo si documentavano fotograficamente le varie fasi di preparazione di un teschio giapponese mediante la bollitura e l’eliminazione delle parti molli.

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    Nel 1944 il poeta americano Winfield Townley Scott lavorava come reporter per un quotidiano del Rhode Island, quando un marinaio in licenza venne in redazione per mostrargli un teschio-trofeo. Questo episodio gli ispirò la poesia The U.S. Sailor with the Japanese skull, nella quale descriveva accuratamente uno dei metodi per la preparazione dei teschi (la testa veniva scuoiata, avvolta in una rete e trainata dalla nave finché i pesci non l’avessero ripulita, poi veniva ripassata nella soda caustica).

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    Il noto trasvolatore americano Charles Lindbergh durante la guerra prestò servizio in aeronautica col grado di generale ed annotò nel suo diario privato parecchi casi di mutilazioni. Il 14 gennaio 1944 un ufficiale dei Marines gli riferì di aver visto di persona cadaveri di soldati giapponesi ai quali erano stati tagliati via il naso o le orecchie. In seguito alla visita ad una base aerea americana nella Nuova Guinea, venne a sapere che nel tempo libero gli avieri davano la caccia come selvaggina agli ultimi giapponesi nascosti nella giungla, uccidendoli per passatempo e facevano poi commercio dei teschi e dalle ossa coi marinai civili delle navi da trasporto che facevano scalo sull’isola. Quando Lindbergh nel 1944 rientrò negli Stati Uniti passando dalle Hawaii, dovette riempire alla dogana un questionario dell’U.S. Custom Service. Una delle domande riguardava esplicitamente il possesso di teschi e ossa umane. Stupitosi del fatto che ciò fosse considerato un fatto abituale, gli venne confermato dai funzionari doganali che la domanda era stata inserita nello stampato a causa del gran numero di ossa di soldati giapponesi scoperte nelle sacche dei militari in licenza, incluse numerose teste putrefatte non ancora ripulite.

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    Molti filippini musulmani dell’isola di Mindanao parteciparono alla guerriglia contro gli occupanti, agli ordini di ufficiali americani rimasti in loco dopo la conquista giapponese. Il leader musulmano Datu Pino ricordò in seguito che il capo della resistenza – il colonnello americano Wendell W. Fertig – incoraggiava apertamente gli indigeni a mutilare i nipponici vivi o morti, allo scopo di spargere il terrore tra i soldati nemici. Nel 1944 chi gli consegnava un naso o un paio di orecchie giapponesi veniva ricompensato con 20 centavos, chi portava i genitali riceveva invece una scatola di munizioni calibro 45.


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    Un anonimo Marine sbarcato a Saipan nel 1944 ricordò:

    Il soldato giapponese sembrava avere circa quattordici anni e giaceva morto davanti a me. Mi sorpresi a pensare che una madre laggiù in Giappone avrebbe ricevuto la notizia che suo figlio era morto in battaglia. Allora uno dei Marines si chinò su di lui afferrandolo rudemente alla cintola e gli strappò via la camicia. Qualcuno chiese “Che cosa stai cercando?” E lui disse “Cerco la cintura col denaro. I gialli portano sempre addosso cinture col denaro.” Beh, questo giapponese non l’aveva. Un altro Marine vide che il morto aveva dei denti d’oro, così lo colpì ripetutamente alla mascella col calcio del fucile, sperando di farglieli saltare. Non ho idea se ci sia riuscito o no, perché a quel punto voltai le spalle e me ne andai. Mi sedetti in un posto dove nessuno potesse vedermi. Nonostante i miei occhi fossero asciutti, nel mio cuore ero disgustato. Non dalla vista del soldato morto, ma per il modo come i miei commilitoni avevano trattato quel corpo. Quel ricordo mi dette parecchio fastidio. Poco dopo arrivò il mio amico Al, sedette accanto a me e poggiò il suo braccio attorno alle mie spalle. Sapeva cosa stavo provando in quel momento. Quando mi girai verso di lui, vidi che la sua faccia era inondata di lacrime.
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  6. #6
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    REAZIONI NEGLI STATI UNITI

    Già nel settembre 1942 il Comandante in capo della Flotta del Pacifico ordinò dure azioni disciplinari contro l’abitudine di prendere resti umani come trofei da parte dei militari statunitensi. Nell’ottobre 1943 il generale Marshall inviò un messaggio radio al generale MacArtuhr, manifestando la propria preoccupazione per i ricorrenti rapporti riguardanti atrocità commesse da soldati americani. Nel gennaio 1944 il Capo degli stati maggiori riuniti (JCS) emanò una apposita direttiva contro la mutilazione di cadaveri giapponesi. Il ricercatore Simon Harrison sostiene che tali ordini forse furono efficaci in alcune aree, ma è probabile che siano stati applicati tardivamente, in maniera parziale e molto svogliata dai comandanti sul campo. In realtà dovettero restare lettera morta, poiché il fenomeno continuò a crescere indisturbato fra la truppa. A dimostrazione di tale tesi, egli ricorda che il giovane tenente dell’U.S. Navy che aveva inviato un teschio giapponese alla fidanzata Nathalie Nickerson (una operaia di Phoenix poi immortalata su Life Magazine il 22 maggio 1944) fu rintracciato dalle autorità e ufficialmente sanzionato. Ma ciò fu fatto con estrema riluttanza e la punizione assegnata all’ufficiale dai suoi superiori diretti non fu affatto severa. Riguardo a tale episodio bisogna dire che la redazione di Life venne sommersa di lettere di condanna da parte di lettori indignati dalla pubblicazione di una tale atrocità. Poco dopo l’ufficio stampa dell’U.S. Army avvertì una volta per tutte gli editori americani che la pubblicazione di simili storie “potrebbe probabilmente incoraggiare il nemico ad effettuare gravi rappresaglie contro militari americani morti o prigionieri”. Ulteriori azioni contro la mutilazione di cadaveri giapponesi furono messe in atto anche in seguito da numerose autorità. Nel giugno 1944 in una nota riservata il JAG dell’U.S. Army affermò che tali atroci e brutali pratiche oltre ad essere ripugnanti, erano anche violazioni delle leggi di guerra e raccomandò caldamente che venisse inviata una direttiva a tutti i comandi per ricordare che il maltrattamento del cadavere di un nemico era una palese violazione della Convenzione di Ginevra del 1929 sui malati e i feriti, la quale stabiliva adeguate misure per raccogliere i feriti e i morti e per evitare furti e maltrattamenti. Tali pratiche violavano inoltre le tradizionali consuetudini del combattimento terrestre e potevano portare alla pena di morte se provate dinanzi a una corte marziale americana. Poco tempo dopo il JAG dell’U.S. Navy confermò tale opinione, aggiungendo che “le atrocità delle quali si è reso colpevole personale navale attualmente in servizio potrebbero portare a rappresaglie da parte dei giapponesi, che sarebbero pienamente giustificate ed alle quali non potremmo in alcun modo opporci”. Alla sconvolgente notizia che il 13 giugno 1944 Franklin Delano Roosevelt aveva ricevuto in dono dal parlamentare democratico Francis E. Walter un tagliacarte ricavato dall’osso di un braccio di un soldato giapponese, un gran numero di alti ufficiali, personalità civili ed autorità religiose in tutti gli Stati Uniti espressero pesanti giudizi sull’inopportunità di tale gesto, protestando pubblicamente contro l’operato del presidente e sfidando apertamente la censura militare per la prima volta dall’inizio del conflitto. In seguito alle pressioni dell’opinione pubblica, ma solo dopo settimane di imbarazzato silenzio, l’ufficio stampa della Casa Bianca dichiarò infine che il presidente non desiderava ricevere tale genere di oggetti e che il tagliacarte era stato restituito con la raccomandazione che venisse adeguatamente inumato. Nell’ottobre 1944 il Rev. Henry St. George Tucker, Vescovo Capo della Chiesa Episcopale negli Stati Uniti d’America, rilasciò alla stampa una dichiarazione nella quale deplorava apertamente gli atti di profanazione sui corpi di soldati giapponesi uccisi e faceva appello alla coscienza cristiana dei soldati americani, affinché scoraggiassero individui isolati dal compiere tale genere di azioni.
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  7. #7
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    REAZIONI IN GIAPPONE E NEI PAESI DELL’ASSE

    GIAPPONE
    Sin dal 1942 lo Stato Maggiore dell’esercito imperale nipponico aveva raccolto sul campo le prove delle decapitazioni, ritenendo però opportuno non diffonderle, in quanto potenzialmente demoralizzanti per il fronte interno. Nel corso del 1944 però, le notizie pubblicate al riguardo dai media statunitensi vennero efficacemente sfruttate dalla propaganda bellica giapponese al fine di dipingere gli americani come squilibrati, primitivi, razzisti e disumani, rafforzando lo spirito combattivo del popolo. Secondo lo storico Edwin P. Hoyt la notizia che un membro del Congresso avesse donato a Roosevelt un tagliacarte fatto con un osso umano e successivamente la foto di un teschio-trofeo apparsa sulla copertina di Life ebbero enorme diffusione in Giappone, incidendo in modo assai traumatico sulla popolazione civile. Ciò è anche maggiormente comprensibile se si pensa che uno dei pilastri della religione Shintoista è il corretto trattamento e l’incinerazione dei resti umani secondo un elaborato rituale antico di secoli. Il risultato fu un generale acuirsi del sentimento antiamericano e dello spirito combattivo. Il numero dei volontari kamikaze in tutte le armi e specialità crebbe a ritmo vertiginoso. In vista dell’inevitabile invasione della madrepatria da parte dei “diavoli yankee” la maggior parte della popolazione mostrò una tendenza a preferire la resistenza a oltranza e il suicidio piuttosto che arrendersi. Ciò è confermato dai moltissimi civili giapponesi che si tolsero la vita ad Okinawa per non cadere in mano agli americani. E senza le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki tale evento si sarebbe certo replicato su scala infinitamente maggiore al momento del progettato attacco finale contro l’arcipelago giapponese (Operazione Downfall), previsto al più tardi per il 1946. Secondo Hoyt per il giapponese medio il pensiero che il teschio di un soldato nipponico potesse diventare un portacenere americano era talmente terrificante e intollerabile da rendere preferibile una onorevole morte in guerra ad una vita come schiavi dei barbari yankee. Solo il noto appello radiofonico di Hiro Hito, che esortò i suoi sudditi a sopportare l’ insopportabile (involuta metafora usata per indicare la resa) riuscì almeno parzialmente a mutare tale tendenza, evitando la messa in atto del “Grande Banzai” ovvero il suicidio di massa dell’intero popolo giapponese. Nonostante ciò nei giorni che seguirono la resa del Sol Levante un gran numero di giapponesi di ogni età e strato sociale scelse di sfuggire al disonore togliendosi la vita.

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    GERMANIA
    Verso la fine del 1943, molti degli Ost Battalionen e delle Legioni etniche della Wehrmacht, create negli anni precedenti arruolando cittadini sovietici appartenenti alle varie popolazioni presenti in U.R.S.S. furono spostate in Francia, andando in gran parte a presidiare le fortificazioni costiere del Vallo Atlantico. Tale scelta era motivata dalla crescente insofferenza di Adolf Hitler per queste truppe ausiliarie da lui reputate razzialmente inferiori e dalla pressante necessità militare di recuperare truppe tedesche dai territori occupati in occidente per inviarle ad est dopo il disastro di Stalingrado, ma si rivelò subito un grave errore. I volontari affiancatisi alle armate del III° Reich nella speranza di liberare i loro popoli dal giogo della dittatura staliniana generalmente si erano comportati lealmente e spesso valorosamente, contrastando l’Armata Rossa dal 1941 al 1943, ma una volta trasferiti nella lontana Francia il loro spirito combattivo subì un crollo repentino. Per quanto violentemente antisovietici essi non odiavano Gran Bretagna e Stati Uniti, nazioni capitaliste considerate nemiche naturali del comunismo. Tra tali truppe cominciò a serpeggiare la volontà di arrendersi alla prima occasione, quando gli alleati occidentali fossero sbarcati in territorio francese. Oltretutto erano ingenuamente convinti che gli angloamericani non li avrebbero mai restituiti alla vendetta di Stalin. Per contrastare tale tendenza a ridosso dello sbarco in Normandia, poiché moltissimi OST erano musulmani di etnia asiatica, i nazisti diffusero ampiamente le notizie delle mutilazioni di giapponesi nel Pacifico e la foto apparsa su Life, sostenendo che gli americani uccidevano e decapitavano tutti i prigionieri asiatici. A partire dal 6 giugno 1944 si videro i risultati di questa campagna di disinformazione, in quanto se è vero che un gran numero di ausiliari orientali si arrese comunque ai G.I.’s costrettovi dalle circostanze, molti altri per paura degli yankees marciarono per chilometri pur di consegnarsi ai britannici, ai canadesi o persino agli odiati partigiani francesi.

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    REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA
    La foto di apparsa su Life il 22 maggio 1944 venne utilizzata in chiave antiamericana anche dall’ufficio propaganda della Repubblica Sociale Italiana ed ampiamente diffusa nella speranza di incitare all’odio per il nemico la popolazione civile dell’Italia centro-settentrionale, che ormai vedeva nella sconfitta militare l’unica via d’uscita dalle proprie sofferenze. L’intera pagina della rivista statunitense fu riprodotta fotograficamente su manifesti, volantini e cartoline, con l’aggiunta di un breve commento scritto da Giorgio Almirante, futuro segretario del M.S.I. (allora giovane giornalista e funzionario del MINCULPOP di Salò) che bollava gli americani come selvaggi cannibali. La vera civiltà essendo – secondo lui – patrimonio esclusivo dei popoli con una storia millenaria alle spalle, come europei, giapponesi e cinesi. I risultati sul piano pratico però dovettero essere ben pochi.

    REGNO DEL SUD
    A titolo di curiosità bisogna ricordare che anche nei territori meridionali occupati dagli angloamericani la foto in questione apparve su molti quotidiani e sul settimanale illustrato Crimen. Ma poiché gli organi d’informazione nella porzione d’Italia formalmente controllata dallo stato sabaudo cobelligerante dal settembre 1943 erano totalmente soggetti al pesante giogo dell’ufficio censura del P.W.B. alleato (la cui giurisdizione nel 1945 si sarebbe esteso su tutta la penisola restando attiva sino al trattato di pace del 1947) la notizia fu pubblicata senza particolari commenti negativi o addirittura con didascalie esprimenti servile ammirazione verso i nuovi padroni yankee.
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  8. #8
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    PREGIUDIZIO RAZZIALE E PROPAGANDA BELLICA
    Uno dei motivi che spinsero una parte rilevante dei combattenti americani nel Pacifico a compiere atti tanto aberranti fu il pregiudizio razziale. Non bisogna dimenticare che allora negli Stati Uniti vigeva un rigido regime di separazione razziale. Secondo la mentalità razzista della classe dominante Wasp, i giapponesi in quanto popolo asiatico erano considerati “colored” e dunque assimilati ai neri. E’cosa poco nota che allo scoppio della guerra, tra gli afroamericani vi fu un vasto movimento di solidarietà a favore del Giappone, note personalità politiche della comunità nera acclamarono i nipponici come liberatori di tutti i popoli di colore e vi fu un gran numero di renitenti alla leva e disertori. Inoltre continue rivolte nei ghetti (che culminavano di solito nell’assalto ai centri di reclutamento) tra il 1941 ed il 1943, quando tali tendenze vennero definitivamente stroncate in base ad una interpretazione più restrittiva alla legge marziale. L’attacco contro Pearl Harbor del 7 dicembre 1941, agli occhi di una gran parte dell’opinione pubblica bianca assunse il significato di una imperdonabile provocazione da parte di una popolazione di colore, che ambiva a sostituire gli Stati Uniti nel ruolo di potenza egemone in Asia, non solo in campo militare - ma anche e soprattutto - in campo economico, tagliando fuori le industrie americane dagli importanti mercati della Cina e del Pacifico. Ciò era anche più imperdonabile dell’aggressione militare, perché andava a minare le basi dell’economia statunitense. Bisogna ricordare che nonostante le grandi potenzialità dell’industria e le politiche sociali del “New Deal” voluto da Roosevelt, nel 1941 gli Stati Uniti erano ancora ben lontani dall’essersi ripresi completamente dalla crisi del 1929. Furono invece proprio le commesse belliche necessarie alla guerra a portare l’America alla piena occupazione ed a costruire le fondamenta di quel benessere che nel dopoguerra le permetterà di assumere il ruolo guida come potenza mondiale, in contrapposizione col blocco sovietico. Con grande soddisfazione per i grandi plutocrati e assai meno per il popolo, tra il 1939 e il 1941 il presidente Roosevelt aveva progressivamente piegato ai suoi voleri la neutralità statunitense, vendendo armi alla Gran Bretagna, all’U.R.S.S. ed alla Cina. Certamente gli Stati Uniti erano l’arsenale della democrazia, ma in nome del profitto vendevano solo pronta cassa in dollari o in oro, al più accontentandosi della cessione di materie prime o di importanti basi strategiche, in vista della futura politica imperialista del dopoguerra, volta a disgregare gli imperi coloniali inglese e francese per sfruttarne poi le risorse a proprio esclusivo vantaggio. Quanto all’ostilità americana verso il Giappone, tra la fine dell’ottocento e i primi decenni del novecento, un gran numero di emigranti nipponici si erano stabiliti alle Hawaii (come manovalanza a basso costo per le piantagioni di ananas e le industrie conserviere) e sulla costa del Pacifico, tra San Francisco e Los Angeles. Alla prima generazione relegata a lavori servili (i giapponesi erano rinomati come giardinieri nelle ville dei ricchi yankee) seguirono figli e nipoti naturalizzati americani, i cosiddetti “Nisei” spesso dediti al commercio. Dopo la crisi economica del 1929 fu decretato il blocco dell’immigrazione asiatica e molti cittadini giapponesi impiegati come manodopera non qualificata vennero rimpatriati a forza. All’inizio degli anni trenta si verificarono gravi disordini e attacchi razzisti contro le comunità nippo-americane stabilitesi sulla costa del Pacifico. Non è un caso se, vistasi preclusa la valvola di sfogo dell’emigrazione oltreoceano, il Giappone cercò una soluzione alla propria crescita demografica nell’espansione militare all’interno del continente asiatico. Nel 1931 con l’occupazione della Manciuria, nel 1937 con l’invasione della Cina, nel 1939 col fallito tentativo di invasione della Mongolia, l’esercito imperiale cercò di assicurare un posto al sole e terre coltivabili agli agricoltori nipponici impoveriti dalla crisi e dai devastanti terremoti degli anni ’20 e ‘30. Ispirata da razzismo, isolazionismo e protezionismo, la miope politica ostile degli Stati Uniti spinse progressivamente il Sol Levante nelle braccia dell’Asse ponendo le premesse per l’attacco a Pearl Harbor.
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  9. #9
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    IL COMMERCIO DEI RESTI UMANI

    Lo storico Simon Harrison sostiene che nella maggior parte dei casi le mutilazioni non siano attribuibili allo stress da combattimento, ma premeditate e preordinate – talvolta prima ancora che le reclute lasciassero il territorio statunitense – per soddisfare le richieste di tali oggetti avanzate da amici e partenti o per farne apertamente commercio. Vi sono molte prove che negli Stati Uniti l’argomento fosse trattato liberamente. A parte il celebre teschio ricevuto nel 1944 da Natalie Nickerson, autografato dal suo fidanzato e da altri 13 commilitoni, si possono citare vari casi in cui madri di soldati americani scrissero lettere aperte ai quotidiani o si appellarono alle autorità militari, chiedendo che ai loro figli fosse liberamente permesso di spedire a casa per ricordo le orecchie dei giapponesi uccisi. Una giovane recluta in partenza per il Pacifico promise al suo parroco solo il terzo paio di orecchie giapponesi su cui avesse potuto mettere le mani, perché le prime due paia le aveva già promesse ai genitori e alla fidanzata. Nel 1942 il cantante di blues Alan Lomax registrò una canzone nella quale un soldato afroamericano prometteva a suo figlio di mandargli dal fronte un teschio e una collana fatta di denti giapponesi. Nel 1943 la rivista Yank pubblicò un fumetto che mostrava i genitori di un soldato orgogliosi di ricevere dal loro figlio un paio di orecchie giapponesi. Un commercio più organizzato di tali oggetti ricordo traspare dai molti rapporti dei servizi segreti della marina, secondo i quali dopo la conquista di Guadalcanal i membri dei Battaglioni del Genio Navale noti come “Seabees” e incaricati di realizzare aeroporti e infrastrutture sulle isole conquistate, avrebbero raccolto teschi giapponesi per farne commercio con gli equipaggi delle navi mercantili, i quali a loro volta li avrebbero rivenduti a prezzo maggiorato una volta tornati nei porti americani. In altri casi sarebbero stati direttamente i marinai civili a procurarsi teschi e altri resti umani in occasione della franchigia a terra, e a ripulirli bollendoli nei pentoloni delle cucine, allo scopo di venderli al ritorno negli Stati Uniti insieme ad altra militaria giapponese come elmetti, bandiere, sciabole, ecc. A volte lavoravano anche le ossa lunghe, trasformandole secondo le richieste in pifferi, tagliacarte, posacenere o anche guancette per il calcio delle pistole o impugnature per coltelli da caccia.

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    EPISODI SIMILI SUL FRONTE EUROPEO

    Secondo lo studioso Harrison tutti i teschi-trofeo risalenti alla 2^ guerra mondiale finora rinvenuti negli Stati Uniti proverrebbero dal fronte del Pacifico e la loro origine etnica giapponese o almeno asiatica sarebbe comprovata dagli esami autoptici. Ma anche in Europa si registrarono casi sporadici di mutilazioni. Sul fronte italiano, almeno uno dei tredici paracadutisti germanici che il 10 marzo 1944 furono seviziati e uccisi in seguito a una imboscata al loro autocarro tra Sellano e Casenove di Foligno, venne scotennato vivo. Armando Rocchi, Capo della Provincia di Perugia, ne attribuì la responsabilità a qualche soldato americano di origine pellerossa già prigioniero di guerra e fuggito l’8 settembre, inducendo così i tedeschi a non effettuare la prevista fucilazione per rappresaglia di 130 ostaggi italiani. Una pellicola girata l’8 maggio 1945 nei pressi di Praga dagli operatori militari dello Special Film Project 186, un nucleo cinematografico aggregato alle truppe del generale Patton in Cecoslovacchia, mostra un carri armati americani M4 Sherman con la corazza frontale decorata da teschi umani e tibie incrociate, probabilmente sottratte da un cimitero sul territorio tedesco. Rimpatriando alla fine del conflitto, un soldato nativo-americano della tribù Winnebago che aveva combattuto nella 10th Mountain Division dell’U.S. Army portò nella riserva lo scalpo di un giovane soldato tedesco da lui ucciso in combattimento. Tale scalpo biondo fu ripetutamente utilizzato nelle cerimonie sacre della “Danza degli Spiriti” nella seconda metà degli anni quaranta.

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    PERSISTENZA DEL FENOMENO NEL DOPOGUERRA

    Nonostante che il prendere trofei dai cadaveri nemici fosse una pratica malsana ufficialmente proibita dalle FF.AA. americane e che già a partire dal 1942 gli alti comandi l’avessero più volte esplicitamente condannata, essa continuò nel teatro d’operazioni del Pacifico fino al termine del conflitto ed in alcuni casi ben oltre tale data. Ciò è comprovato dai continui ritrovamenti di teschi giapponesi in possesso di cittadini statunitensi, nonché dall’esame delle sepolture ritrovate in tempi recenti sui luoghi dei combattimenti dalla Commissione congiunta nippo-americana per le onoranze ai caduti. Già nel 1984, quando i resti dei soldati giapponesi caduti nelle Isole Marianne vennero rimpatriati, fu accertato che per oltre il 60 % mancavano del teschio. Similmente, dopo la restituzione di Iwo Jima al Giappone è stato accertato che gran parte degli scheletri rinvenuti sull’isola erano stati decapitati. Ciò farebbe pensare che la caccia ai teschi-trofeo sia continuata da parte delle guarnigioni di occupazione americane ben oltre la cessazione delle ostilità, protraendosi come minimo per tutti gli anni cinquanta. Il fatto è spiegabile dalla volontà dei militari rimasti a presidiare le isole nel dopoguerra, di non essere da meno rispetto ai commilitoni che vi avevano duramente combattuto. Per procurarsi tali teschi “postbellici” profanavano tombe singole e fosse comuni o semplicemente raccoglievano i teschi dei combattenti giapponesi rimasti insepolti, perpetuando quello che non era visto più come un comportamento aberrante, ma come una radicata tradizione mirante a rafforzare lo spirito di corpo dei Marines. Bisogna tener presente che nel secondo dopoguerra il giappone era ancora considerato territorio nemico occupato, totalmente soggetto al governo militare americano ed alla sua censura. Dunque le autorità civili nipponiche, che nel 1947 erano state costrette a ratificare una nuova costituzione pacifista imposta dall’occupante, non avevano alcun modo di far sentire liberamente la loro voce nel mondo e protestare per tali profanazioni. Soltanto in seguito, dopo la normalizzazione dei rapporti diplomatici seguita alla guerra di Corea, il Giappone tornò ad essere pienamente indipendente, oltre che un alleato chiave durante la Guerra Fredda, nell’ambito della strategia anticomunista degli Stati Uniti. Comunque ancora oggi teschi di soldati giapponesi sono esibiti orgogliosamente da privati cittadini americani (di solito figli o nipoti di combattenti della 2^ g.m.) e le loro fotografie vengono postate in rete.

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    TESCHI TROFEO NELLE GUERRE AMERICANE DOPO IL 1945
    Fra le truppe combattenti degli Stati Uniti l’uso di prendere parti dei cadaveri nemici come trofei continuò in maniera massiccia, soprattutto in Corea e Vietnam, dove non a caso gli americani si trovarono a fronteggiare popolazioni di etnia asiatica. Più di recente decapitazioni e mutilazioni di cadavere da parte di personale militare americano sono stati comprovati da documenti ufficiali e dalla memorialistica già nel 1991 durante la prima Guerra del Golfo e nei vari conflitti successivi all’11 settembre 2001. Ma poiché esulano troppo dall’argomento in discussione preferisco non approfondirli in questa sede.
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  10. #10
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    CAMBIO DI PERCEZIONE E RESTITUZIONE DEI RESTI
    Secondo Frances Larson, antropologa e autrice del libro Teste mozze, ci vollero alcuni decenni perché gli americani tornassero a percepire i giapponesi come esseri pienamente umani. Dunque alla morte dei veterani della 2^ guerra mondiale un numero crescente di familiari ed eredi dei combattenti – sentendosi a disagio con oggetti del genere – iniziò a disfarsi dei teschi consegnandoli alle autorità o semplicemente gettandoli via. Secondo statistiche governative, dagli anni settanta ad oggi la media di teschi-trofeo giapponesi consegnati spontaneamente ai coroner ed a vari enti federali affinché vengano restituiti al governo nipponico e sepolti varia tra in media tra i due e i cinque all’anno. Ma contando anche quelli requisiti ai privati cittadini o rinvenuti dalle forze dell’ordine durante operazioni di polizia, il totale dovrebbe essere almeno quadruplicato. Per riportare in patria tali resti si è costituito un apposito organismo misto formato da storici militari della JSDF (Japanese Self Defence Force), funzionari del Social Welfare and War Victims’ Relief Bureau (assimilabile al nostro Onorcaduti) e personale dei consolati giapponesi negli Stati Uniti. Esso viaggia attraverso il paese più volte all’anno per prendere in consegna dalle autorità locali competenti i teschi rinvenuti, provvedere alla loro cremazione secondo il rituale scintoista e traslarne le ceneri a Tokyo, affinché vengano custodite nel mausoleo nazionale di Yasukuni. A titolo esemplificativo vale la pena di ricordare le vicende di due fra i molti teschi-trofeo restituiti di recente al Giappone.
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    Teschio restituito a funzionari giapponesi della Prefettura di Okinawa nel giugno 2003.
    Il 9 febbraio del 2000 un anziano abitante della città di Springfield (Illinois) durante la sua quotidiana passeggiata lungo la riva del lago Springfield notò sul bagnasciuga un oggetto bianco di forma circolare, rivelatosi a un esame più attento un teschio umano. L’uomo, ritenendolo la prova di un qualche delitto, contattò subito le forze dell’ordine. La scoperta del teschio destò il vivo interesse dei media locali, finché un adolescente del luogo si presentò alla polizia, affermando che non c’era stato nessun crimine. Il teschio – spiegò il giovane agli agenti che lo interrogarono – apparteneva a un soldato giapponese ed era stato preso come trofeo di guerra dal suo defunto nonno, un marinaio che durante la seconda guerra mondiale aveva combattuto nel Pacifico, partecipando alle battaglie di Guadalcanal e Okinawa. Quando nel dopoguerra il nonno trovò lavoro come insegnante di scienze in un liceo, riutilizzò il teschio per insegnare biologia agli studenti. Alla sua morte tutti i suoi effetti personali vennero chiusi in un baule e dimenticati per decenni in soffitta, finché il nipote li trovò. Il ragazzo si impossessò del teschio, lo spruzzò con uno spray dorato, gli mise in testa una bandana e poi lo usò per arredare la sua camera, poi gli venne a noia e stupidamente lo gettò nel lago. Naturalmente il teschio fu sequestrato e sottoposto a esami dai patologi legali dell’Illinois per determinarne l’origine. La scansione computerizzata evidenziò che era quello di un uomo tra i 30 e i 40 anni, deceduto per una ferita mortale alla tempia sinistra e c’erano tra il 65 ed il 70 % di probabilità che fosse di etnia giapponese. Così le autorità inviarono il teschio all’U.S. Naval Hospital di Okinawa, affinché fosse restituito, ma le sue peregrinazioni non erano affatto terminate. In origine il Dipartimento di Stato era intenzionato a consegnare il teschio alle autorità nipponiche con una cerimonia ufficiale alla presenza del presidente Clinton, in occasione del G8 che nel 2000 si sarebbe tenuto a Okinawa. Ma qualcuno alla Casa Bianca obiettò che rivangare la brutta vicenda dei teschi-trofeo o peggio ancora associarla in qualche modo alla figura di un presidente moralmente discutibile come Bill Clinton, sarebbe stato un grave danno di immagine per gli Stati Uniti. Così col pretesto che non ci sarebbero state abbastanza prove per determinare la nazionalità del teschio, il reperto fu esaminato nuovamente da un patologo legale dell’U.S. Navy, ma intanto il G8 era terminato e ogni interesse al riguardo era svanito. Il teschio rimase tre anni in magazzino, dato che senza la prova definitiva della sua origine giapponese i funzionari della Prefettura di Okinawa non lo avrebbero preso in consegna. D’altronde il regolamento dell’ospedale permetteva di trattenerlo al massimo per tre anni, poi sarebbe stato smaltito come rifiuto ospedaliero. La situazione si sbloccò grazie ad Alex Kishaba, presidente della Ryukyu Historical Society, il quale una volta venuto casualmente a conoscenza della vicenda fece pressione sulla Prefettura, ottenendo una soluzione di compromesso. I giapponesi avrebbero preso in consegna il teschio sottoponendolo poi ad ulteriori analisi per scoprirne l’origine; se proveniente da Okinawa sarebbe stato sepolto nel Parco della Pace di Itoman; se proveniente da Guadalcanal sarebbe stato inviato al mausoleo nazionale di Yasukuni. Il teschio venne alfine restituito con una breve cerimonia secondo il rituale scintoista presso l’U.S. Naval Hospital di Okinawa, alla presenza di ufficiali della marina statunitense e funzionari giapponesi ai primi di agosto del 2003. Dopo una lunga assenza e un travagliato viaggio di ritorno, un ignoto caduto del Sol Levante era finalmente tornato a casa.
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    Teschio restituito al Social Welfare and War Victims’ Relief Bureau ad agosto 2010.
    Ralph McLeod, un veterano della guerra del Vietnam proprietario del negozio di armi e militaria Buyers Guns ad Holden (Maine), nel 2005 comprò per 50 $ ad una asta pubblica uno scatolone di oggetti della 2^ g.m. rinvenendo tra essi un teschio-trofeo, recante la scritta 1945 Jap Skull Okinawa. Appena venuto in possesso del teschio, l’uomo contattò l’ambasciata del Giappone a Washington, dicendosi intenzionato a restituirlo affinchè gli fosse data degna sepoltura. Lo indirizzarono al più vicino consolato giapponese, quello di Boston. Frattanto il teschio fu preso in carico dalla patologa legale Marcella Sorg per una approfondita indagine sulle sue origini. Gli esami accertarono che era appartenuto ad una giovane donna tra i 18 e i 25 anni, originaria delle isole del Giappone meridionale e deceduta per morte naturale molti decenni prima della seconda guerra mondiale. Quando i Marines sbarcarono ad Okinawa, si imbatterono in molte cripte sepolcrali e dopo averle ispezionate, le riutilizzarono come bunker e depositi munizioni. Si può ipotizzare che il teschio provenisse da una di quelle cripte e che sia stato sepolto attorno al 1890, almeno 40 o 50 anni prima che un ignoto militare americano lo trafugasse, portandoselo a casa per ricordo. Cinque anni dopo, una volta conclusa l’indagine dell’ufficio medico legale dello stato del Maine e preparati tutti i documenti necessari, ad agosto 2010 il teschio fu consegnato nelle mani di Shigeto Hirabayashi e Tsuyuki Fujii, rispettivamente direttore e capo divisione del Social Welfare and War Victims’ Relief Bureau. Prima di ripartire per Tokyo i due funzionari fecero cremare il teschio secondo le leggi del loro paese. “Come veterano di guerra e sostenitore dei gruppi di ricerca delle salme dei POW/MIA (prigionieri di guerra e dispersi in guerra) americani in Vietnam, sapevo che l’unica cosa da fare con quel teschio era restituirlo” dichiarò in quell’occasione Ralph McLeod. “Il teschio – o meglio le sue ceneri – è finalmente tornato a casa. Ciò è una cosa buona, ed è tutto ciò che conta.”

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    REPLICHE IN RESINA
    La dittatura del politicamente corretto imperante negli Stati Uniti e il crescente disagio riguardo all’esposizione pubblica di autentici resti umani giapponesi ha avuto come conseguenza la nascita un singolare business, quello delle repliche sintetiche di teschi-trofeo. Perfette riproduzioni in materiale plastico di un cranio asiatico in scala 1:1 decorati con le insegne ufficiali e i motti delle varie GG.UU. che operarono nel Pacifico (elegante supporto in legno incluso nel prezzo) sono liberamente in vendita per la gioia di veterani, personale militare in servizio e collezionisti in genere desiderosi di possedere un tale discutibile feticcio.
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    CHISSA' A QUALE DI QUESTI ALBERI CI IMPICCHERANNO?

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