Risultati da 1 a 1 di 1

Discussione: C'era una volta ad Asmara... l'Auto Ravasi.

  1. #1
    Utente registrato L'avatar di storiaememoriagrigioverde
    Data Registrazione
    Nov 2019
    Messaggi
    816

    C'era una volta ad Asmara... l'Auto Ravasi.

    Quella della berlinetta Ravasi è una delle troppe storie dimenticate del colonialismo italiano in terra d’Africa, che se ebbe più luci che ombre lo dovette principalmente al sacrificio, all’operosità e all’ingegno del nostro popolo che seppe stupire favorevolmente sia le popolazioni locali che le altre potenze europee. Merita dunque di essere brevemente raccontata. Tutto iniziò a Melzo negli anni trenta, quando il perito meccanico Giovanni Ravasi (n. Sesto San Giovanni,1909 – m. Arenzano, 2003) decise di trasferirsi in Eritrea, mettendo a frutto l’esperienza accumulata insieme al fratello nella piccola azienda meccanica di famiglia, fondata a inizio secolo dal padre Felice, già capo-officina della Breda Ferroviaria. A metà del decennio la nostra colonia primigenia conobbe un rapido e vertiginoso sviluppo in conseguenza della guerra italo-etiopica e della proclamazione di un impero ancora tutto da costruire. Nel nuovo clima coloniale voluto dal fascismo c’erano ottime prospettive di sviluppo per chi voleva darsi da fare e sapeva rimboccarsi le maniche, così i due fratelli stabilitisi ad Asmara aprirono due grandi officine meccaniche dove decine di operai, in parte eritrei e in parte italiani, effettuavano revisioni meccaniche, rettifiche e lavorazioni meccaniche di precisione. Nonostante l’imponente programma di opere pubbliche voluto dal regime, la rete viaria dell’A.O.I. era ancora in gran parte rudimentale e le autovetture importate dalla madrepatria venivano messe a dura prova nei percorsi fuori dalle maggiori città e necessitavano di frequenti riparazioni. Poiché a quell’epoca gli odierni 4x4 non esistevano ancora, tutte le case automobilistiche nazionali producevano versioni “coloniali” dei loro modelli per accrescerne le prestazioni. Serbatoi di carburante più grandi assicuravano maggiore autonomia, radiatori maggiorati evitavano il surriscaldamento del motore e sospensioni irrobustite davano un assetto più alto sul terreno, ma tali accorgimenti appesantivano notevolmente le autovetture. Il peso fu un fattore negativo specie nei frequentissimi casi di vetture impantanate lungo le piste fangose o insabbiate nel deserto. Giulio Ravasi giunse alla soluzione opposta e concepì l’auto coloniale ideale come una piccola utilitaria con carrozzeria promiscua in grado di trasportare una numerosa famiglia di coloni o un buon carico di materiali, con ingombri e dimensioni di una Fiat 1100 ma tanto leggera da essere sollevata e rimessa su strada a mano da due sole persone. Il motore avrebbe dovuto consumare poco, ma essere abbastanza potente per le corse amatoriali che in quegli anni vedevano militari, funzionari pubblici e professionisti trasferiti in A.O.I. sfidarsi su percorsi improvvisati, usando obsolete auto da corsa portate dall’Italia o macchine di serie elaborate artigianalmente in loco. La spinta definitiva gli venne riparando i freni di una vecchia Bugatti importata in colonia negli anni venti, che aveva la caratteristica di avere i tamburi dei freni incorporati nei cerchi ruote, il tutto realizzato in alluminio per fusione e dunque leggerissimo. Proprio l’alluminio, considerato materiale autarchico in quanto prodotto nazionale, univa economicità, leggerezza e resistenza alla ruggine dovuta agli elementi atmosferici estremi. Poiché le officine di famiglia avevano una buona esperienza nelle fusioni in alluminio, Guido nel realizzare la propria auto intese utilizzare il più possibile tale materiale, sia nella meccanica che nella carrozzeria per ridurre il peso totale. Saggiamente per abbassare i costi e assicurare la reperibilità dei ricambi anche nelle località più isolate dell’Impero pensò di adottare la componentistica minore della popolarissima Fiat 1100. Il propulsore era un compatto motore in alluminio tre cilindri in linea con valvole laterali, raffreddamento ad aria, cambio e differenziale integrati e trazione anteriore. Veniva montato trasversalmente su una struttura portante composta di longheroni in alluminio scatolati e saldati elettricamente. Le sospensioni erano indipendenti con barre di torsione sulle quattro ruote e cerchi ruote tipo Bugatti realizzati in alluminio per fusione, che incorporavano anche i tamburi dei freni. Il blocco motore/cambio/differenziale della Ravasi pesava solo 90 chili, quasi la metà rispetto a quello di una seppur minuscola Fiat Topolino. Alla fine degli anni trenta il geniale imprenditore si preparava ad avviare insieme al fratello una produzione su piccola scala ad Asmara. Pur non potendo competere coi numeri delle grandi aziende automobilistiche nazionali, una utilitaria economica realizzata in colonia avrebbe comunque avuto un riscontro positivo fra il pubblico locale, non essendo soggetta alle onerose tassazioni e alle lunghe procedure burocratiche indispensabili all’importazione di autoveicoli dalla madrepatria. Lo scoppio della 2^ g.m. interruppe bruscamente i contatti tra l’ A.O.I. e l’Italia. Come tutte le imprese private di interesse bellico, le officine Ravasi furono militarizzate e lavorarono prima per le FF.AA. italiane, poi per le truppe di occupazione. In tali circostanze il progetto fu forzatamente accantonato e nascosto ai britannici sino al 1945. Al termine del conflitto i Ravasi acquisirono un lotto di alluminio aeronautico alienato dalla R.A.F. come residuato bellico e si diedero alla costruzione in proprio dei primi motori e chassis, incrementando a tale scopo il numero della manovalanza eritrea impiegata nei due impianti. Il 14 agosto 1946 presentarono richiesta di brevetto al Ministero dell’Industria e Commercio italiano. Il 26 marzo 1947 fecero altrettanto ad Asmara presso l’omologo organo della British Military Administration. Vista la situazione catastrofica dell’industria automobilistica nazionale Giulio Ravasi iniziò una lunga trattativa con la Fiat per definire l’eventuale produzione di massa della vettura, ma il carteggio si interruppe bruscamente nel 1948, col definitivo diniego della società torinese, costretta dalle incertezze economiche e politiche del nostro paese a barcamenarsi mantenendo in produzione vecchi modelli prebellici solo marginalmente rinnovati. Intanto però, nel 1947 i Ravasi avevano spedito via nave in Italia prima un motore isolato per effettuare prove da banco e successivamente i primi due chassis completati ad Asmara, perché fossero allestiti da un carrozziere torinese. Proprio in quell’anno era stato firmato a Parigi il trattato di pace tra l’Italia e i vincitori del conflitto, ma se nel nostro paese si paventava una prossima ineluttabile rivoluzione comunista che avrebbe portato il P.C.I. al potere, nell’Eritrea occupata gli inglesi mestavano nel torbido, armando e istigando gli Sciftà, bande di predoni locali, ad effettuare attentati e stragi contro la folta comunità italiana, per spingere i nostri connazionali colà residenti a lasciare la nostra colonia primigenia. Essi infatti avevano promesso quel territorio al Negus come sbocco al mare in ringraziamento per i servigi prestati durante la guerra. Con la lenta motorizzazione di massa degli italiani rallentata dalla sconfitta militare di almeno un ventennio e l’incertezza sulla possibilità dell’Italia di mantenere colonie, i Ravasi non ritenendo più pagante in quel momento avviare la produzione di utilitarie popolari o di vetture coloniali, fecero carrozzare gli chassis come eleganti berlinette a due posti da un anonimo ed economico ma abile carrozziere torinese, rivolgendosi al più ristretto ma facoltoso mercato internazionale composto da quei “gentlemen drivers” che, potendo pagare prezzi stratosferici, avevano iniziato a richiedere ai nostri artigiani dell’auto eleganti e costose vetture di stile italiano, utilizzabili anche nelle competizioni. Appena completate le due auto tornarono via nave in Eritrea, ma ormai il destino politico della colonia era compiuto. Tutti gli italiani vennero espulsi, mentre le loro proprietà, le industrie e gli impianti rimasti in loco dopo le asportazioni e i saccheggi operate dagli inglesi vennero requisiti dal governo imperiale etiopico. Ai fratelli Ravasi per le loro due grandi officine con centinaia di operai specializzati, fu concesso un rimborso di appena 500.000 Lire, cioè quasi nulla vista la paurosa svalutazione dovuta alle Am-Lire impostaci dagli occupanti anglosassoni. Le due splendide berlinette Ravasi restarono ad Asmara e se ne persero le tracce, probabilmente usate a consumazione da qualche funzionario negussita locale e poi demolite. Rientrati in patria i Ravasi, come accadde a molti altri coloni, che partiti anni prima da un’Italia forte e rispettata (seppur dittatoriale) vi tornarono trovando un paese (seppur democratico) in rovina e preda delle lotte ideologiche, non seppero adattarsi al nuovo clima politico. Essi oltretutto scontarono l’ostilità dei partiti antifascisti al potere perché in quanto imprenditori operanti in colonia erano considerati non solo “imperialisti fascisti”, ma anche “sporchi capitalisti”. In breve scelsero di emigrare in America. Dopo un iniziale periodo di ristrettezze, Giulio Ravasi fece fortuna nelle costruzioni edili, realizzando le travature metalliche indispensabili nella costruzione dei grattacieli. All’inizio degli anni ’50 tornò in Italia richiamatovi da Enrico Mattei, l’ex-partigiano cattolico assurto ai vertici dell’E.N.I. (nonché primo comandante della rete italiana Gladio/Stay Behind), che stava gettando le basi di quello che nel decennio successivo sarebbe stato il “miracolo italiano” anche riassorbendo e utilizzando nell’interesse nazionale (seppur non in posizioni apicali) le capacità tecniche e imprenditoriali di ex-fascisti o presunti tali, epurati o comunque emarginati dopo il conflitto. Ciò può sembrare strano vista l’origine politica di Mattei ma si pensi ad esempio che tutte le sue fidatissime guardie del corpo erano operatori della Gladio già membri della Decima Mas di Borghese; che il suo esperto pilota personale deceduto nel misterioso incidente aereo di Bescapè era un ex-aviatore della A.N.R. decorato al V.M. dalla Repubblica Sociale Italiana; che lo stesso Comandante Buttazzoni, già capo del Battaglione N.P. della X^ M.A.S. tramite la sua società di costruzioni navali realizzò per conto dell’E.N.I. la MICOPERI 5000, un pontone per ricerche petrolifere allora considerato il più grande del mondo. Anche Giulio Ravasi costituì due società operanti a stretto contatto con l’E.N.I. di Mattei, la S.I.S.A.M. (per la distribuzione del gas) e la E.M.I. (che costruiva parti meccaniche e tubazioni per metanodotti ed oleodotti). Ritiratosi a vita privata sulla riviera ligure, morì all’età di 94 anni. A testimoniare la storia della autovettura Ravasi, un sogno svanito insieme al nostro impero coloniale, resta un motore in alluminio, quello spedito in Italia per i test al banco prove, oggi gelosamente custodito dalla famiglia Ravasi. A meno che in qualche landa sperduta dell’Eritrea, una carcassa di alluminio corrosa dagli elementi e opacizzata dal sole cocente fra l’indifferenza generale non sia sopravvissuta a scapito degli uomini e della storia, testarda e longeva come l’italiano che la creò. Davvero improbabile, ma… chissà!

    Questa storia sarebbe già affascinante se finisse qui, ma seppur con tutte le cautele del caso sembra doveroso accennare che la berlinetta Ravasi ispirò dal punto di vista stilistico e tecnico altre due vetture, una sportiva di lusso e una utilitaria a basso costo. ma (ciascuna a suo modo) entrambe divenute iconiche. A uno sguardo affrettato potrebbe sembrare che si tratti di plagi lampanti, ma dato che non ci sono prove per affermarlo, mi limiterò a dire che in entrambi i casi grandi aziende automobilistiche hanno “liberamente tratto” dalla vettura nata ad Asmara alcune innovative soluzioni di successo, per il resto giudicate voi. Come già detto al termine del conflitto rinacquero le prime corse automobilistiche e dovunque in Italia valenti meccanici elaborarono motori e vetture, spesso residuati bellici su base Fiat 1100. La fabbrica torinese decise di entrare in proprio in quel settore di mercato e nonostante le ristrettezze postbelliche mise in produzione un proprio modello da corsa, la berlinetta Fiat 1100S, derivazione da un modello d’anteguerra dal motore leggermente potenziato. La veloce vettura, che rimase in produzione dal 1947 al 1950, aveva però il suo punto debole nella carrozzeria realizzata in fabbrica, che per quanto teoricamente aerodinamica era inequivocabilmente brutta, tanto da guadagnarsi il nomignolo dispregiativo di “cassone”. Per tale motivo molti dei facoltosi acquirenti comperavano il solo chassis nudo, affidandolo poi a carrozzieri di grido affinché lo rivestissero di forme più aggraziate. Per tale motivo nel 1950, la Fiat affidò a vari carrozzieri alcuni chassis per farli completare come prove di stile, nell’eventualità di dover ammodernare la 1100S in una seconda serie produttiva che invece poi non si concretizzò. Quella realizzata da Pinin Farina riprendeva totalmente la forma e i volumi della berlinetta Ravasi di tre anni prima, differenziandosene per minimi particolari come l’elemento verticale nella griglia del radiatore, le maniglie delle portiere e il taglio dei parafanghi posteriori. Sembra impossibile che una gloria nazionale come il Pinin si sia prestato a copiare la poco nota Ravasi, tanto più che il dossier della 1100S del 1950 non è presente negli archivi della Pininfarina. Forse qualche funzionario Fiat può aver passato all’ignaro carrozziere le foto accluse al carteggio con Ravasi chiuso già nel 1948, dicendogli “me la faccia simile a questa” ma comunque non ci sono certezze al riguardo. E ora facciamo un salto di qualche anno e andiamo in Gran Bretagna, nel 1956. Il tentativo anglo-franco-israeliano di impadronirsi militarmente del canale di Suez nazionalizzato dal leader egiziano Nasser è naufragato miseramente per la netta opposizione delle potenze egemoni USA e URSS, segnando la fine del colonialismo europeo vecchio stile. In segno di solidarietà con l’Egitto i paesi arabi produttori di petrolio hanno bloccato le esportazioni verso il Regno Unito, che si appresta ad affrontare una drammatica carenza di idrocarburi. L’austerity durerà solo pochi mesi e poi le cose si normalizzeranno, ma in quel momento i vertici politici non lo sanno ancora e progettano misure per ridurre al massimo i consumi civili. Una tra esse mira a sostituire il parco auto circolante, fermando quelle che consumano più carburante, rimpiazzandole con una utilitaria nazionale la cui fabbricazione è imposta dallo stato. A tale scopo viene in tutta fretta richiamato in servizio presso la Austin l’ingegnere Alec Issigonis, al quale viene affidato lo studio della microvettura indicata sulla carta come progetto ADO 15. Frattanto la situazione politica si alleggerisce, le forniture di petrolio riprendono, le altre ditte automobilistiche britanniche recedono dal progetto di utilitaria nazionale, ma la Austin continua a titolo precauzionale i suoi studi e nel 1958 su progetto di Issigonis vede la luce il prototipo denominato “green orange box” per il colore arancione della carrozzeria. Esso è il capostipite della iconica Mini, che verrà costruita in milioni di esemplari dal gruppo BMC nel quale frattanto è confluita anche l’Austin e commercializzata nel corso degli anni e con poche modifiche sotto i marchi Austin, Morris, Riley, Wolseley, Rover e Mini. Cosa c’entra la Ravasi? Ebbene come la vettura italiana anche la Mini ha un motore montato trasversalmente e la trazione anteriore. Certo è un motore di cilindrata diversa e concezione più tradizionale, fatto di ghisa invece che di alluminio, ma lo schema tecnico coincide in maniera impressionante. Solo una coincidenza dovuta alla necessità del progettista di comprimere gli organi interni della vettura in poco spazio? Certamente, ma bisogna tener conto di alcuni fatti. Alec Issigonis era un greco naturalizzato britannico, uno di quei sudditi di Sua Maestà che a quel tempo erano chiamati “levantini”. Come erano “levantini” i sudditi britannici di origine greca, libanese, maltese reclutati nell’esercito durante la guerra per la loro conoscenza delle lingue e usati come interpreti e funzionari nelle nostre colonie occupate e governate dalla BMA (British Military Administration). Oltretutto l’Issigonis, che per aver ideato la Mini fu in seguito insignito del titolo di Sir, era stato richiamato su iniziativa del Ministry of Supply (Ministero dei Rifornimenti), che gli diede accesso ai propri vasti archivi tecnici. Tale ente era nato durante la guerra per razionalizzare la produzione delle industrie belliche e aveva un proprio “Ufficio I” incaricato anche di requisire e copiare tecnologie industriali nemiche (militari e civili) a esclusivo vantaggio della Gran Bretagna, nei territori nemici man mano conquistati. Ricordiamo che nel 1947 l’Eritrea era sotto occupazione inglese e i fratelli Ravasi avevano presentato e registrato il brevetto della loro autovettura oltre che alla Camera di Commercio italiana anche alla BMA di Asmara. Ma se il locale “Ufficio I” lo avesse copiato e spedito a Londra negli archivi del Ministry of Supply? E se quasi un decennio dopo quel dossier fosse finito in mano a Issigonis “ispirandolo liberamente” per la Mini, anch’essa guarda caso con motore trasversale e trazione anteriore? Anche questa una ipotesi che non è possibile provare, però conoscendo i metodi in pace e in guerra della Perfida Albione… non si può mai dire!
    • Per poter visualizzare questa immagine devi essere registrato o fare il login


    • Per poter visualizzare questa immagine devi essere registrato o fare il login


    • Per poter visualizzare questa immagine devi essere registrato o fare il login


    • Per poter visualizzare questa immagine devi essere registrato o fare il login


    • Per poter visualizzare questa immagine devi essere registrato o fare il login


    • Per poter visualizzare questa immagine devi essere registrato o fare il login


    • Per poter visualizzare questa immagine devi essere registrato o fare il login


    • Per poter visualizzare questa immagine devi essere registrato o fare il login


    • Per poter visualizzare questa immagine devi essere registrato o fare il login


    • Per poter visualizzare questa immagine devi essere registrato o fare il login


    • Per poter visualizzare questa immagine devi essere registrato o fare il login


    • Per poter visualizzare questa immagine devi essere registrato o fare il login


    • Per poter visualizzare questa immagine devi essere registrato o fare il login


    • Per poter visualizzare questa immagine devi essere registrato o fare il login


    • Per poter visualizzare questa immagine devi essere registrato o fare il login


    • Per poter visualizzare questa immagine devi essere registrato o fare il login


    CHISSA' A QUALE DI QUESTI ALBERI CI IMPICCHERANNO?

Permessi di scrittura

  • Tu non puoi inviare nuove discussioni
  • Tu non puoi inviare risposte
  • Tu non puoi inviare allegati
  • Tu non puoi modificare i tuoi messaggi
  •  
  • Il codice BB è Attivato
  • Le faccine sono Attivato
  • Il codice [IMG] è Attivato
  • Il codice [VIDEO] è Disattivato
  • Il codice HTML è Disattivato