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Discussione: Film: Harlem

  1. #1
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    Film: Harlem

    «Chi è stato per primo a introdurre nella legislazione la discriminazione razziale? E’ stata l’arcidemocratica repubblica stellata. Sono stati gli Stati Uniti che per primi hanno creato la discriminazione tra europei e italiani. E, come se non bastasse, tra italiani e italiani, e data la loro piramidale ignoranza geografica hanno messo tra quelli che dovevano essere esclusi perfino i liguri, questa razza che mille anni orsono aveva dato la civiltà a tutto il sud occidente europeo. Ragione per cui se oggi Colombo sbarcasse in America sarebbe respinto, sarebbe posto in quarantena».
    Benito Mussolini, 1942


    «La propaganda in Italia è difficile perché gli italiani sono intelligenti».
    Luigi Freddi, 1942







    PREMESSA
    Pur non essendo un film di guerra in senso stretto, ma piuttosto un film di maldestra propaganda razzista, Harlem non è però da ritenersi del tutto un Off-Topic e merita di essere inserito a pieno titolo in questa sezione del Forum in quanto fu concepito e realizzato in pieno periodo bellico, tra il 1942 ed il 1943. Le vicende belliche influenzarono inoltre – talvolta con conseguenze drammatiche – i destini personali di quanti furono coinvolti nella realizzazione di questa pellicola-monstre, nel bene e nel male rimasta unica nella storia della cinematografia italiana. Dopo la comprensibile “damnatio memoriae” nell’immediato dopoguerra e il tentativo di recupero commerciale sui mercati esteri negli anni cinquanta, oggi gran parte della critica cinematografica, pur esecrando l’ideologia da cui ebbe origine, riconosce ad Harlem una certa importanza per l’enorme sforzo produttivo profuso nella realizzazione della pellicola. Inoltre Harlem fu un involontario progenitore in salsa littoria del celeberrimo Rocky. Infatti film statunitense che nel 1976 consacrò definitivamente Sylvester Stallone al rango di star internazionale, clonò totalmente la sottotrama sportiva della pellicola italiana del 1943 (uno sconosciuto pugile italoamericano affronta il campione di colore detentore del titolo dei pesi massimi, vincendo contro tutte le aspettative grazie al sostegno della fidanzata e del burbero allenatore).
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    CHISSA' A QUALE DI QUESTI ALBERI CI IMPICCHERANNO?

  2. #2
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    DATI TECNICI
    Titolo: Harlem (versione originale), Knock-out! (versione censurata)
    Nazione: Italia
    Lingua: Italiano
    Durata: 113 minuti circa (versione originale), 87 minuti circa (versione censurata)
    Lunghezza: 3083 metri (versione originale), 2479 (versione censurata)
    Genere: Propaganda/Drammatico
    Anno: 1943 (versione originale), 1946 (versione censurata)
    Regia: Carmine Gallone
    Soggetto: dalla novella omonima scritta nel 1939 da Giuseppe Achille
    Sceneggiatura: Sergio Amidei, Giacomo Debenedetti (non accreditato nei titoli di testa), Emilio Cecchi, Paolo Monelli (non accreditato nei titoli di testa), Angelo Flavio Guidi, Pietro Petroselli, Pietro Carbonelli (non accreditato nei titoli di testa)
    Direttore della fotografia: Anchise Brizzi
    Scenografia: Guido Fiorini
    Assistente scenografo: Italo Tomassi
    Costumi: Aldo Calvo
    Montaggio: Renzo Lucidi, Maria Rosada, Nicolò Lazzari
    Musiche: Willy Ferrero, con la collaborazione dei maestri Enrico Cagna Cabiati e Piero Rizza, eseguite dall’orchestra sinfonica dell’E.I.A.R.
    Architetto: Ferdinando Ruffo
    Aiuto regia: Lionello De Felice
    Assistenti alla regia: Gastone Bartolucci, Mario Tamburella
    Fonici: Bruno Brunacci, Primiano Muratori, Arrigo Usigli
    Fotografo di scena: Aurelio Pesce
    Modelli dei costumi: Vita Noberasko
    Tessuti: s.a. Policardi, Bologna
    Direttore di produzione: Jacopo Comin
    Ispettore di produzione: Carlo Ferrando
    Aiuto segretario di produzione: Giovanni Pais
    Produzione: Cines
    Distribuzione: ENIC
    Nulla osta visto di censura: n. 1323 – 8 ottobre 1942
    Prima proiezione pubblica: 21 aprile 1943



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    INTERPRETI E PERSONAGGI
    Amedeo Nazzari: Amedeo Rossi
    Massimo Girotti: Tommaso Rossi
    Vivi Gioi: Muriel, fidanzata di Tommaso
    Osvaldo Valenti: Chris Sherman, il gangster
    Elisa Cegani: la donna del gangster
    Gianni Glori (in arte Gianni Musy): Toni Rossi, figlio di Amedeo
    Enrico Viarisio: Pal, assistente di Amedeo
    Enrico Glori: Ben Farrell, l’impresario
    Luigi Pavese: Joe Smith, l’amico di Amedeo
    Erminio Spalla: Frankie Battaglia, l’allenatore
    Lodovico Longo: Charlie Lamb, l’idolo di Harlem
    Giuseppe Porelli: il duca di Solimena
    Luigi Almirante: Barney Palmer, il proprietario irlandese del teatro
    Giovanni Grasso: Guardascione, l’avvocato italoamericano di Amedeo
    Guglielmo Sinaz: Sinclair Roswell, l’avvocato di Chris Sherman
    Mino Doro: il gangster Bill Black
    Amilcare Pettinelli: il procuratore di New York
    Pio Campa: Mr. Chapman
    Greta Gonda: Milena Svetkovic, l’ex Miss Jugoslavia
    Ailù Uoldejesus: Toussaint Louverture, il notabile abissino
    Umberto Silvestri: Bob Bull, l’ex campione americano di pugilato
    Aldo Silvani: secondino
    Giuseppe Varni, Aldo Dessy: altri gangster
    Amedeo Trilli: notaio della Bank of America
    Mario Brizzolari: giudice della cauzione
    Franca Marzi: spettatrice a teatro
    Liliana Zanardi: Rose
    Vera Bruni: Lola, la pattinatrice
    Luisa Ferida: spettatrice all’incontro di boxe
    i pugili Primo Carnera, Enrico Venturi, Ernesto Centobelli interpretano se stessi
    i radiocronisti E.I.A.R. Mario Ferretti e Augusto De Angelis interpretano se stessi
    altri interpreti: Giulio Alfieri, Bruno Calabretta, Franco Cuppini, Liana Del Balzo, Armando Furlai, Pina Gallini, Antonio Marietti, Giacinto Molteni, Lina Tartara Minora, Amalia Pellegrini, Saro Urzì
    comparse non accreditate: il comandante Tommaso Grossi e l’equipaggio del Regio Sommergibile Barbarigo; le allieve della Scuola Femminile di Educazione Fisica della G.I.L. di Orvieto; cento tra Lancieri Vicereali P.A.I. e sudditi coloniali provenienti dalla Mostra Triennale d’Oltremare di Napoli; mille P.O.W. sudafricani provenienti dal Campo di Prigionia n.122 di Roma/Cinecittà; altri individui di colore di varia provenienza



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    TRAMA
    Figlio di Amedeo Rossi, un costruttore edile di successo emigrato da anni in America per lavoro, il piccolo Toni dopo la morte della madre è stato ospitato a Sorrento dal giovane zio Tommaso. Ora all’inizio del 1935 Tommaso arriva a New York, riaccompagnando il nipotino dal padre. Impegnato in cantiere, Amedeo non ha potuto andare a riceverli al porto ed ha mandato in sua vece il commesso e tuttofare Pal, che accompagna i due in un grande albergo di New York ponendoli a contatto con la tumultuosa vita americana. L’indomani sera Amedeo, accompagnato dal suo amico Joe e da due o tre ragazze tra cui Muriel, una giovane cantante italoamericana, va all’albergo a trovare i due. Tommaso fa la conoscenza di Muriel. Un incidente che sorge mentre i due ballano fa sì che Tommaso, ex campione di pugilato dei Littoriali, con un pugno abbatta un importuno che è il celebre Bob Bull, ex campione dei pesi massimi d’America. Questo crea una inattesa celebrità a Tommaso. Il giorno dopo Amedeo porta il fratello in cantiere, spiegandogli il lavoro che sta compiendo (un grande lotto di case popolari per gli italiani di Brooklyn) nonostante l’ostilità dei banchieri ebrei. Gli dice che vorrebbe vederlo lavorare con lui. Ma Joe interviene per spingere Tommaso a darsi al pugilato. Nonostante l’opinione contraria di Amedeo, il giovane anche per le insistenze di Muriel, segue il consiglio di Joe e comincia ad imporsi con qualche vittoria. Il primo combattimento si svolge proprio nel teatro che Amedeo ha in affitto accanto al suo cantiere in costruzione, teatro che egli vorrebbe comprare per demolirlo e costruirci sopra, ma che il proprietario irlandese Mr. Palmer, un vecchio maniaco, non si decide a vendere. Il terreno del teatro è disputato ad Amedeo da un gruppo di gangster con a capo Chris Sherman, che grazie ad indiscrezioni sul piano regolatore ottenute da politicanti e funzionari corrotti, sa che lì accanto sarà creata una stazione della metropolitana e pertanto vuol speculare sui rialzi di valore del terreno. Ma Amedeo finalmente ottiene un’opzione sul terreno. I gangster, per strappargliela di mano, gli danno appuntamento in una birreria nascosta in periferia, fingendo che a volerlo sia il proprietario del teatro. Amedeo va all’appuntamento con Tommaso. Anche Joe, che ha saputo del tranello teso ad Amedeo, accorre alla birreria. Sorge una zuffa durante la quale i gangster sparano al buio credendo di colpire Amedeo, ma uccidono invece Joe. La polizia trova sul posto solo Amedeo e Tommaso e li arresta come presunti colpevoli. La colonia italiana, che è totalmente schierata con il regime fascista ed anima tutte le riunioni patriottiche, offre la cauzione per entrambi ma questa è accettata solo per Tommaso. Amedeo resterà in prigione. I suoi beni sono posti sotto sequestro e i suoi progetti edilizi vanno a rotoli. Frattanto è scoppiato il conflitto italo-etiopico ed una manifestazione di protesta dei neri di Harlem, aizzati contro l’Italia dal notabile abissino Toussaint Louverture e da Aquila Nera, un pilota afroamericano mercenario al servizio del Negus (1) inizia col lancio di pietre contro lo stemma sabaudo che campeggia sul portone del nostro Consolato, sfociando presto in disordini e violenze contro le persone e i beni degli italiani, lasciati senza difesa dalla polizia americana. L’opzione per il terreno sta per scadere e l’unico modo per salvare la situazione è far uscire Amedeo di prigione. La proposta dell’impresario sportivo Bob Farrel, intenzionato a organizzare un incontro sensazionale tra un pugile italiano ed uno afroamericano sfruttando le tensioni razziali dovute alla guerra, sembra giungere a proposito. Tommaso viene ribattezzato “la Speranza di Brooklyn” e accetta di battersi contro Charlie Lamb, “l’Orgoglio di Harlem”. Ma l’impresario è in combutta con la malavita ed è stabilito che il campione nero debba vincere ad ogni costo. Informato dal rude ma onesto allenatore Rick Battaglia che l’incontro è truccato, Tommaso non si ritira perché ha bisogno del premio in palio per pagare la cauzione del fratello. Ma le indiscrezioni sui suoi duri allenamenti allarmano i gangster. Temendo che l’italiano a dispetto di tutto possa vincere, essi gli rapiscono Toni, avvertendolo che renderanno il bambino solo se si lascerà battere. Muriel, che intanto si è impiegata in un’agenzia di affitti, riesce a scoprire il luogo dove è rinchiuso Toni. Tommaso e Pal si recano sul posto e trovano a guardia del piccolo i due gangster che avevano ucciso Joe. Dopo averli sopraffatti e consegnati alla polizia, Tommaso affida il nipotino a Pal e si precipita al Madison Square Garden gremito da spettatori delle due etnie, giusto in tempo per l’inizio dell’incontro di boxe. Una volta salito sul ring però, Tommaso viene rapidamente messo al tappeto dal pugile afroamericano, con Toussaint Louverture che da bordo ring gli grida contro per ben due volte “Abbasso l’Italia! Morte agli italiani!”. Ma all’arroganza del notabile abissino rispondono come un sol uomo gli italiani d’America, che si alzano in piedi scandendo in coro “Forza Italia!”. Incitato da Rick Battaglia e da Primo Carnera in persona, Tommaso trova la forza per rialzarsi e mettere finalmente K.O. il temibile avversario. Dopo la vittoria Pal e l’amico duca di Solimena corrono in tribunale con il denaro necessario al pagamento della cauzione. Amedeo viene rilasciato e trova ad attenderlo fuori dal carcere il figlio e il fratello. Ma in quel momento una raffica sparata dal mitra Thompson di un gangster raggiunge al petto l’uomo. Amedeo è ferito mortalmente e prima di spirare affida Toni a Tommaso, incitandoli a tornare per sempre in Italia. Intanto lo spietato Chris Sherman osserva impassibile la scena dalla sua lussuosa automobile, continuando tranquillamente a limarsi le unghie. Dopo qualche settimana un piroscafo italiano salpa dal porto di New York con a bordo Tom, la fidanzata Muriel e il piccolo Toni, che abbandonano l’America senza rimpianti. Appena sei giorni di navigazione ed i tre sbarcheranno finalmente a Napoli, iniziando una nuova vita insieme nell’Italia mussoliniana e fascista, ormai definitivamente assurta al rango di potenza coloniale dopo la vittoriosa campagna d’Abissinia e la proclamazione dell’Impero. Nella casa di Amedeo a Brooklyn, ormai desolatamente vuota, Pal e il duca di Solimena vagheggiano sconsolati ma senza troppa convinzione di rimpatriare anch’essi nella nuova Italia, lasciandosi per sempre alle spalle l’avidità, la corruzione e la disumanità della vita negli Stati Uniti, dove gli immigrati italiani sgobbano duramente aspettando il miracolo, ma a forza di aspettare muoiono con le scarpe ai piedi, per mano di spietati gangster al soldo dei plutocrati ebrei.


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    GENESI E REALIZZAZIONE DEL FILM
    Il film Harlem fu fortemente voluto dal giovane gerarca fascista Luigi Freddi, già aviatore nella Grande Guerra, ex-militante del partito nazionalista, redattore del quotidiano Il Popolo d’Italia, amico personale di Mussolini e di Marinetti, co-fondatore nel 1921 della Corporazione fascista del teatro, segretario dei Fasci Italiani all’Estero, grande frequentatore di salotti mondani, poliglotta conoscitore del mondo anglosassone, egualmente a suo agio a Predappio e a Los Angeles. Egli dal 1934 accentrava nella sua persona le cariche di presidente ed amministratore delegato degli stabilimenti di Cinecittà, della società di produzione cinematografica Cines, nonché dell’ENIC (l’ente statale che controllava in regime di monopolio la distribuzione delle pellicole in tutte le sale italiane) ed era di fatto il padrone incontrastato della cinematografia di regime. Pur non essendo propriamente un “film di guerra” ma piuttosto una pellicola di propaganda nazionalista e razzista tratta dalla omonima mediocre novella scritta nel 1939 da Giuseppe Achille, un ex ufficiale della marina mercantile divenuto giornalista e scrittore, Harlem merita però di essere ricordato per gli sforzi eccezionali affrontati durante la sua lunga e tormentata realizzazione, oltre che per la presenza sul set di personaggi drammaticamente coinvolti a vario titolo nelle vicende politiche e militari dell’epoca. Altra singolare caratteristica è quella di essere il film italiano più censurato di sempre, superando di gran lunga con 31 minuti di tagli, quel Totò e Carolina che dalla censura democristiana di tagli ne subì per soli 12 minuti. Già nel gennaio del 1942, meno di un mese dopo l’attacco giapponese contro Pearl Harbor, Luigi Freddi ottenne da Alessandro Pavolini, allora ministro della Cultura Popolare, il via libera per la realizzazione di una pellicola che avrebbe dovuto orientare in senso violentemente antiamericano l’opinione pubblica nazionale. Ciò dopo la dichiarazione di guerra agli Stati Uniti voluta da Benito Mussolini era ritenuto urgente e necessario, dato che il nostro paese aveva una lunga storia di emigrazione verso il continente americano e gran parte della popolazione conservava un atteggiamento di simpatia e ammirazione verso la ricchezza e la libertà della democrazia a stelle e strisce. Trarre dal mediocre testo originario (la storia un epico incontro di boxe sullo sfondo dei disordini razziali realmente avvenuti nel 1935 tra italiani di Brooklyn e afroamericani di Harlem in seguito alla guerra di Abissinia) un soggetto che mostrasse realisticamente gli aspetti deteriori della vita americana, nonché la corruzione imperante in tutte le classi sociali d’oltreoceano, fu una fatica improba nella quale furono impegnati a più riprese per quasi un anno vari intellettuali, in gran parte scrittori e giornalisti legati più o meno organicamente al fascismo, che avevano scritto di cose americane o avevano vissuto per un certo tempo negli Stati Uniti. Per descrivere in modo verosimile gli ambienti pugilistici newyorkesi fu persino richiesta la consulenza di Pietro Carbonelli, celebre cronista sportivo del quotidiano milanese Il Corriere della Sera. Considerato il periodo storico, assai meno normale fu la presenza di Sergio Amidei (2) e Giacomo Debenedetti nel “brainstorming” fascista messo in piedi da Freddi per scrivere la sceneggiatura del film. Oltretutto questa fu continuamente rimaneggiata in corso d’opera per adeguarla alle veline del Minculpop che si susseguivano di volta in volta, imponendo di tagliar via i gangster con cognome italiano, i dialoghi in slang “broccolino” parlato dagli italoamericani, nonché la figura di un corrotto e ambiguo pastore evangelico. Se l’Amidei era notoriamente conosciuto come antifascista militante, attivo nel P.C.I. clandestino, al Debenedetti – spesso oggetto degli strali del giovane Giorgio Almirante dalle pagine del quotidiano antisemita Il Tevere – in quanto di religione israelitica era ufficialmente proibito lavorare in ambito cinematografico, non solo dalle leggi razziali del 1938, ma anche dalla recente legge n. 517 del 19 aprile 1942, che escludeva definitivamente gli ebrei da qualsiasi attività nel campo dello spettacolo. Nonostante entrambi nel dopoguerra tentassero di giustificarla come una forma di velata fronda contro il regime, è probabile che all’epoca considerassero la loro collaborazione ad un film apertamente razzista come Harlem un lavoro come tanti, oltretutto lautamente pagato in un periodo di generali ristrettezze economiche. In quella occasione il loro antifascismo si espresse in maniera piuttosto criptica, attribuendo goliardicamente ad alcuni personaggi del film i nomi di personalità realmente esistite (il pugile nero si chiama Charles Lamb, come il filosofo inglese; il notabile abissino si chiama Toussaint Louverture, come il generale haitiano antischiavista che combatté contro i francesi; l’avvocato del gangster Chris Sherman si chiama Sinclair Lewis, come il romanziere americano). In corso d’opera Luigi Freddi non esitò ad aggiungere a una sceneggiatura già apertamente antiamericana ulteriori argomenti razzisti, diretti sia contro gli ebrei (sperando di fare di Harlem la risposta fascista ai kolossal antisemiti realizzati dalla cinematografia nazista per volontà di Goebbels), che contro i neri (nel tentativo di rafforzare negli spettatori un sentimento di superiorità razziale ormai traballante dato che l’A.O.I. era occupata dal nemico sin dal 1941 e i nostri soldati in Africa Settentrionale già combattevano contro truppe di colore anglo-americane). A causa della lunga e laboriosa gestazione del soggetto, il film si trovò ad arrivare decisamente fuori tempo rispetto all’evolversi della situazione politico-militare, in quanto ambientato durante la vittoriosa guerra di Abissinia, ma girato durante la catastrofica 2a Guerra Mondiale. Ciò portò progressivamente a caricare il film di crescenti aspettative da parte della propaganda fascista, dovendo in un certo senso controbilanciare gli effetti negativi delle gravi sconfitte subite in Africa e in Russia. La lavorazione iniziò il 9 novembre 1942 – poco dopo lo sbarco americano in Marocco e Algeria – ma la pellicola uscì effettivamente nelle sale solo il 21 aprile 1943 – poco prima che la 1a Armata del Generale Messe si arrendesse in Tunisia. A quel punto il personaggio di Tommaso Rossi, il pugile italiano che una volta finito al tappeto trovava contro ogni aspettativa la forza per rimettersi in piedi e sconfiggere all’ultimo istante l’afroamericano Charlie Lamb, diventò metafora del povero e debole Regio Esercito, che dopo tante sconfitte avrebbe dovuto prendersi la rivincita, battendosi praticamente a mani nude contro la dilagante strapotenza del mastodontico complesso militare/industriale statunitense, già pronto all’invasione del nostro territorio nazionale. Per la regia fu prescelto Carmine Gallone, che si era fatto un nome negli anni trenta realizzando Scipione l’Africano e Condottieri, due pellicole in costume che coinvolsero migliaia di comparse, cavalli ed elefanti in spettacolari scene di massa. L’enorme sforzo produttivo di Harlem impegnò in permanenza i teatri di posa n° 5, 6 e 14 di Cinecittà, nei quali l’architetto Fiorini (brillante allievo di Le Corbusier) ricostruì in base a foto originali degli anni trenta una tipica strada di Harlem, alcuni locali notturni, l’atrio dell’Hotel Commodore (3), l’interno del Madison Square Garden, nonché una perfetta riproduzione in miniatura dei grattacieli che componevano la skyline di Manhattan. Il cast principale era composto da ben ventuno attori ed includeva autentici divi di regime, come Amedeo Nazzari, Osvaldo Valenti e Massimo Girotti. Ma alla realizzazione della pellicola parteciparono un gran numero di eccellenti caratteristi italiani ed oltre cinquemila comparse per le scene di massa. Nonostante l’andamento sfavorevole del conflitto influenzasse negativamente la disponibilità di generi di prima necessità per la popolazione civile, come alimentari, tessili, calzature, con gravi ripercussioni sulla vita quotidiana degli italiani, la produzione di Harlem vinse le resistenze degli enti burocratici preposti al razionamento, riuscendo ad assicurare al gran numero di persone che partecipava alla pellicola pasti extra-tessera nella mensa di Cinecittà, nonché la disponibilità dei costosi tessuti necessari alla realizzazione dei costumi di scena (un abito borghese di tipo americano ed un abito da sera con relative scarpe per ciascuna comparsa). Tutto considerato i costi per la realizzazione del film finirono per lievitare fino alla cifra astronomica di 11 milioni di Lire dell’epoca, circa 4 milioni di Euro di oggi. Gli introiti una volta nelle sale furono in realtà di poco inferiori, raggiungendo i 10 milioni di Lire, che comunque fecero di Harlem la pellicola campione di incassi per l’anno 1943. Un dato davvero incredibile, specie se si pensa che l’Italia sopportava ormai da due anni e mezzo i costi umani ed economici della guerra, il territorio nazionale e la popolazione erano colpiti in maniera crescente dalla indiscriminata offensiva aerea angloamericana e la struttura politico-militare della nazione era ormai al collasso. Viene quindi da pensare che gran parte degli spettatori sia andato a vedere il film non tanto per la sua connotazione ideologica, quanto per trovarvi un paio d’ore di evasione da una realtà esterna sempre più cupa ed oppressiva. Oggi la cosa più interessante del film Harlem, è senza dubbio il gran numero di attori e comparse di colore utilizzati, nonché le difficili e romanzesche circostanze del loro reperimento e gestione nell’Italia fascista e razzista del 1942/43.
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  3. #3
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    ATTORI DI COLORE
    Inizialmente gli sceneggiatori ritennero necessario dare verosimiglianza ad una storia ambientata nella multirazziale New York facendo parlare i vari personaggi nella loro lingua del rispettivo gruppo etnico (italiani in italiano, italoamericani in “dialetto broccolino”, americani wasp in inglese, afroamericani nello slang di Harlem) facendo al contempo largo uso di sottotitoli. Tale ipotesi venne presto scartata sia per motivi ideologici che economici. Il Minculpop impose che tutti gli attori – anche quelli di colore – parlassero in perfetto italiano, facendo uno strappo solo per poche frasi dialettali inserite nei dialoghi tra emigranti napoletani, siciliani e veneti all’inizio del film. Ciò è spiegabile con l’avversione del regime per i dialetti regionali, simbolo della vituperata “italietta” prefascista e dunque sistematicamente espunti dalla cinematografia del ventennio tranne poche ma significative eccezioni per attori comici di grande popolarità (Angelo Musco, i fratelli De Filippo, Gilberto Govi, Aldo Fabrizi e Totò). Di conseguenza una delle maggiori difficoltà incontrate dalla produzione nella composizione del cast di Harlem fu il reperimento di attori di colore in grado di parlare un italiano corretto per vestire i panni degli antagonisti dei due eroi italiani, interpretati dagli attori “ariani” Nazzari e Girotti. Bisognava trovare tre neri sufficientemente acculturati e dotati di un certo talento recitativo, almeno uno dei quali fosse credibile per età e doti fisiche nel ruolo di un campione di pugilato dei pesi massimi. Per il ruolo del campione afroamericano Charlie Lamb si pensò dapprima al pugile romano Leone Jacovacci, un italo-angolano che già nel 1928 aveva conquistato sia il titolo italiano che quello europeo nella categoria pesi medi. Ma egli, inviso al regime fascista, da tempo aveva lasciato l’Italia rifugiandosi a Parigi, e non era certo disposto a tornare a Cinecittà per lavorare in un film di propaganda. La soluzione si presentò nella persona di Lodovico Longo, nato nel 1912 da un funzionario coloniale italiano (temporaneamente distaccato nell’allora Congo Belga con incarichi amministrativi) e da una donna indigena. Portato in Italia dal padre e riconosciuto come figlio naturale, ottenne la piena cittadinanza italiana, fu cresciuto a Roma da tre zie zitelle e sviluppò precocemente una prodigioso interesse per la matematica che lo portò a frequentare attivamente il gruppo di via Panisperna, venendo a contatto con Fermi, Majorana, Amaldi e Segré. E viene da pensare in cosa potesse consistere mai il terribile razzismo mussoliniano, se nella capitale del fascismo alla fine degli anni trenta un nero poteva lavorare in un laboratorio di estrema importanza scientifica fianco a fianco con ebrei e comunisti, anche solo pensare una cosa simile sarebbe stato assolutamente impossibile nella Germania nazista. Comunque come tutti i suoi coetanei bianchi Lodovico fu inquadrato fin da piccolo nei ranghi della O.N.B./G.I.L. e poi in quelli del G.U.F. sino alla laurea in Ingegneria. Grazie al fisico scultoreo praticò pugilato, lotta greco-romana e rugby ad alto livello nel centro sportivo dei Gruppi Universitari Fascisti, rappresentando l’Università di Roma “La Sapienza” in numerose competizioni sportive nazionali. In quello stesso 1942 che lo vide inaspettatamente debuttare come attore sul set di Harlem, il giovane ingegnere e matematico italo-congolese era impegnato a prestare i suoi possenti bicipiti come modello per l’archeologo italiano Ernesto Vergara Caffarelli, impegnato nel progetto di restauro del braccio del Laocoonte. Il celebre gruppo scultoreo di età ellenistica oggi esposto nei Musei Vaticani e rinvenuto in origine mutilo del braccio destro, era stato a suo tempo oggetto di un fantasioso restauro. Nel 1906 l’archeologo e mercante d’arte Ludwig Pollak rinvenne il frammento di marmo mancante nella bottega di uno scalpellino romano in via Labicana e ne fece dono a Pio XI. La fortuita scoperta rivoluzionò l’interpretazione tradizionale della scultura, che soltanto nel 1959, una volta rimosse le parti posticce, riacquistò il suo aspetto originario grazie al paziente lavoro del Vergara Caffarelli. Come se non bastasse, a titolo di “passatempo” il poliedrico Lodovico stava anche lavorando alla dimostrazione del Teorema di Fermat, un complicato problema matematico alla risoluzione del quale si era applicato, prima della sua misteriosa scomparsa, lo stesso Ettore Majorana. Per interpretare il personaggio del notabile abissino Toussaint Louverture, istigatore delle violenze contro gli italiani, venne invece prescelto un autentico etiope di nome Ailù Uoldejesus (Hailu Woldeyesus). Costui era un pittore etiope trentaseienne originario della regione dello Scioa, specializzato nella realizzazione dei dipinti tradizionali abissini. Venuto in Italia per esporre le sue opere alla Mostra d’Oltremare, era rimasto bloccato a Napoli con gli altri sudditi coloniali. Quanto al terzo “villain” previsto dalla sceneggiatura, l’aviatore afroamericano Aquila Nera (che come abbiamo visto era ispirato ad un personaggio realmente esistito), egli fu interpretato da un suddito coloniale ad oggi ancora non bene identificato. Ailù Uoldejesus nel corso della lavorazione di Harlem fu ripetutamente segnalato alla polizia politica per atteggiamenti anti-italiani e contrari al fascismo, rifiutandosi anche di imporre nomi italiani ai due figli avuti dalla giovane moglie Scioreghet Aldegiorgis. Ma di fatto venne protetto dalla Polizia dell’Africa Italiana del generale Marraffa, in quanto elemento necessario al completamento della pellicola, evitando perciò conseguenze peggiori.


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    SUDDITI COLONIALI E LANCIERI VICEREALI

    In occasione dell’Esposizione delle Terre d’Oltremare realizzata nel 1940 per propagandare la cultura coloniale, il Ministero dell’Africa Italiana fece giungere a Napoli un certo numero di sudditi coloniali, uomini, donne e bambini suddivisi in nuclei familiari rappresentativi di tutte le etnie e religioni dell’Africa Orientale. Essi sarebbero stati impiegati come figuranti in un “villaggio indigeno” perfettamente ricostruito all’interno della fiera (con tanto di chiesa copta e moschea islamica) per mostrare ai visitatori la vita quotidiana dei nativi. Per sorvegliare il piccolo gruppo di sudditi coloniali e disimpegnare il servizio di guardia in alta uniforme all’interno della fiera, la Polizia dell’Africa Italiana fornì a sua volta un distaccamento di cinquanta uomini tratti dal suo più prestigioso e scenografico reparto, i Lancieri Vicereali. Costoro erano agenti di polizia indigeni di alta statura, appositamente reclutati tra etiopi, eritrei e somali. Furono addestrati in colonia da ex-ufficiali di cavalleria per fornire la scorta d’onore (a seconda delle necessità a cavallo o cammellata) al Viceré Amedeo d’Aosta durante i suoi spostamenti nei territori dell’Impero. Nelle intenzioni del gerarca fascista Attilio Teruzzi, titolare del dicastero competente, in conseguenza delle leggi razziali una volta giunti a Napoli gli africani avrebbero dovuto essere completamente autonomi, anche per evitare indebiti contatti con la popolazione italiana bianca. Quindi a tale scopo al gruppo vennero aggregati un imam musulmano e un sacerdote copto per i bisogni spirituali, nonché sei “sciarmutte” (prostitute indigene) per i bisogni assai più terreni dei Lancieri P.A.I. scapoli (alcuni sottufficiali avevano invece ottenuto di portarsi mogli e figli al seguito). L’Esposizione delle Terre d’Oltremare fu inaugurata in pompa magna con un buon afflusso di pubblico ma venne sospesa dopo pochi mesi in conseguenza dell’entrata in guerra dell’Italia il 10 giugno 1940. Gli africani, impossibilitati a tornare ai luoghi di origine, vennero prima ospitati nei locali della fiera (trasformati in magazzini di materiale bellico destinato al fronte libico e ripetutamente danneggiati dai bombardamenti aerei alleati su Napoli) e poi trasferiti in baracche nelle immediate vicinanze, ma a poco meno di 300 metri da un obiettivo strategico ancora più importante per le bombe nemiche, lo stabilimento dell’Ilva. Ma già dal settembre 1940 alcuni di loro ottennero di lavorare come comparse regolarmente retribuite – seppure strettamente sorvegliate dalla P.A.I. – in varie pellicole girate a Cinecittà (4). Intanto a partire dal 1941 con la definitiva perdita dell’A.O.I. e il ritorno al potere del Negus ad Addis Abeba grazie alle baionette inglesi, all’interno della piccola comunità alcuni degli etiopi più istruiti cominciarono a mostrare velatamente sentimenti anti-italiani (probabilmente per crearsi titoli di benemerenza ed evitare in futuro di essere considerati collaborazionisti da parte del ricostituito governo negussita). Vi furono crescenti attriti tra i vari gruppi etnici e religiosi, dovuti principalmente all’aggravarsi del razionamento alimentare (che rendeva difficile la macellazione rituale del bestiame) e al divieto di praticare mutilazioni rituali tradizionali (circoncisione o infibulazione) ai bambini nati durante la permanenza sul territorio metropolitano. Comunque grazie alle entrature politiche di Luigi Freddi, tutti gli africani rimasti nella città partenopea e i loro sorveglianti furono reclutati nel 1942 per partecipare come comparse al film Harlem. Per evitare continui spostamenti tra Napoli e Roma dato che le riprese i sarebbero protratte per mesi, tutti furono provvisoriamente alloggiati nei baraccamenti dell’ex- centro contumaciale di Frascati da dove ogni mattina partivano in direzione di Cinecittà sugli autocarri della P.A.I.

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    PRIGIONIERI DI GUERRA SUDAFRICANI
    Memore delle migliaia di donne tedesche stuprate dalle truppe coloniali francesi dislocate in Germania come truppe di occupazione nel primo dopoguerra, Adolf Hitler considerava la presenza di prigionieri di guerra di colore nel territorio del Reich un grave pericolo per la purezza razziale del popolo tedesco. Dunque già nel gennaio 1941 aveva fatto trasferire dalla Germania in un campo di lavoro nei pressi di Bordeaux oltre 80.000 elementi delle truppe coloniali francesi, prigionieri di guerra catturati dalla Wehrmacht nel giugno dell’anno precedente (5). Conseguentemente, quando nel novembre 1941 le truppe dell’Asse riuscirono a catturare a Sidi Rezegh e Tobruk alcune migliaia di soldati di colore provenienti da vari territori del Commonwealth Britannico (in gran parte neri sudafricani e sudanesi, ma anche aborigeni australiani e maori neozelandesi), questi vennero inizialmente radunati a Bengasi. Trasferiti via mare in Italia, furono poi ceduti al Regio Esercito e smistati nei campi per prigionieri di guerra in varie località del meridione tra cui Bari, Turturano, Altamura e Capua. Nel maggio del 1942, in base ad accordi intercorsi tra i ministri Pavolini e Goebbels (6) per lo sfruttamento dei prigionieri di guerra a fini propagandistici, oltre mille P.O.W. sudafricani vennero radunati in un nuova struttura appositamente costruita lungo la via Tuscolana, a poca distanza dagli stabilimenti di Cinecittà. La scelta cadde sui prigionieri provenienti dal Sudafrica in quanto membri del Native Military Corps, un reparto ausiliario non combattente composto esclusivamente da neri di etnia Zulu, che gestivano servizi di retrovia, trasporti e manovalanza per i commilitoni bianchi, essendo loro proibito l’uso delle armi. Ingenui, collaborativi e già abituati al regime di rigida separazione razziale vigente nel loro paese di origine, essi erano considerati meglio gestibili e meno ostili all’Asse rispetto ad etnie guerriere, tradizionalmente più combattive e più solidali con i padroni inglesi, come ad esempio i Sikh indiani, gli Aborigeni australiani ed i Maori neozelandesi. Il campo per prigionieri di guerra n. 122 comandato dal capitano Enrico Mancini era in effetti un campo modello, più volte oggetto di lusinghieri rapporti della Croce Rossa Internazionale. I prigionieri erano trattati meglio che in altri campi di prigionia, il rancio giornaliero consisteva in 400 gr. di pane e 120 gr. di pasta o riso, la carne era fornita almeno due volte a settimana. I sudafricani accettarono ben volentieri di lavorare come comparse per sfuggire alla noia della detenzione, ottenendo dalla produzione di Harlem un supplemento di rancio composto da pane e minestra, forniture di sigarette italiane e una paga di 3 Lire al giorno. Poiché i P.O.W. alleati ricevevano anche pacchi viveri in abbondanza sia dalla Croce Rossa che dai rispettivi governi, grazie al contatto quotidiano con cast e maestranze italiane presto si sviluppò a Cinecittà un fiorente mercato nero. Esso era ufficialmente deprecato dalle nostre autorità di polizia, che però fecero assai poco per reprimerlo. I generi di lusso da anni introvabili nel nostro paese (cioccolata, latte condensato, cacao in polvere, corned beef e ananas in scatola, saponette profumate, sigarette americane) venivano scambiati con le nostrane sigarette Milit ed i grigiastri e gommosi sfilatini autarchici, dei quali stranamente i neri sudafricani andavano assai ghiotti, forse perché avevano una consistenza simile a certi loro cibi tradizionali. Sul set del film, gran parte dei suddetti P.O.W. venne utilizzato nelle scene di massa, mostrando un particolare entusiasmo durante le riprese del ballo nel Jazz Club e dell’incontro di boxe al Madison Square Garden, nelle quali sembrarono divertirsi davvero.
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  4. #4
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    ALTRE PRESENZE DI COLORE
    Osservando attentamente il film è possibile osservare in varie scene alcuni italiani col viso dipinto in nero, frammiste alle autentiche comparse di colore. Tale stratagemma si rese necessario per fare numero, in quanto nelle scene di massa i suddetti gruppi organizzati di africani forniti dal Regio Esercito e dal Ministero dell’Africa Italiana non erano ancora bastanti. La produzione del film aveva letteralmente “fame di neri” per rendere la pellicola più verisimile, tanto che nell’ambiente dei cinematografari romani nacque il gioco di parole «Vedi Napoli e poi i mori», basato sulla proverbiale frase «Vedi Napoli e poi muori», trasparente riferimento agli africani rimasti bloccati alla Mostra delle Terre d’Oltremare dallo scoppio del conflitto e presi in carico dalla P.A.I. nella città partenopea. Secondo i ricordi di chi partecipò al film, per rimpinguare il numero delle comparse i responsabili del casting furono sguinzagliati ufficiosamente per assoldare qualunque individuo di colore incontrassero casualmente per le vie di Roma. Non ci sono però documenti ufficiali al riguardo (forse per non irritare la sensibilità razziale del sempre più incombente alleato germanico) e non sappiamo se e quanti di costoro furono utilizzati nel film. Ma contrariamente a quanto oggi si potrebbe pensare, neri e mulatti nella capitale fascista in guerra se non erano molti, non erano neanche pochi. Anzitutto vi erano dozzine di individui con piena cittadinanza italiana, nati dal connubio tra ufficiali coloniali e donne africane. Tornati in patria insieme ai padri e riconosciuti legalmente prima delle leggi razziali del 1938, costoro si integrarono nella società romana con buoni esiti. Tra i più noti meticci presenti a Roma in quel periodo si ricordano l’italo-eritreo Domenico Mondelli, ufficiale di carriera nell’esercito e lo studente italo-somalo Giorgio Marincola, partigiano caduto combattendo contro i tedeschi in Trentino. Poi c’erano coniugi di colore dei cittadini italiani (generalmente donne statunitensi o brasiliane sposate prima che nel 1939 una legge fascista proibisse agli italiani di unirsi in matrimonio con cittadine straniere). Ad essi bisogna aggiungere un certo numero di sudditi coloniali “sfusi” giunti dal Corno d’Africa nel decennio precedente per vari motivi. Tra essi c’era di tutto: ascari musulmani della R.A. impiegati come cuochi e macellai nella mensa del Ministero dell’Aeronautica per preparare pasti Halal secondo l’uso islamico, sottufficiali indigeni P.A.I. e notabili di varia etnia alle dipendenze del Ministero dell’Africa Italiana come interpreti e consulenti politici, attendenti di colore tratti dal R.C.T.C. (Regio Corpo Truppe Coloniali) venuti in Italia al seguito di alti ufficiali che avevano combattuto in Africa (Graziani, Badoglio, Piatti dal Pozzo, tanto per citarne alcuni), studenti, artisti circensi, cameriere e prostitute. Inoltre a Roma erano presenti individui di colore sudditi di nazioni amiche o neutrali, dipendenti dalle rispettive ambasciate presso il Regno d’Italia o il Vaticano, nonché molti seminaristi etiopi (ma è assai improbabile che abbiano accettato di partecipare al film, i primi perché appartenenti al corpo diplomatico, i secondi per la decisa opposizione del Vaticano).


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    PARTECIPAZIONI SPECIALI
    Per quanto ridotto nelle dimensioni di 2/3 rispetto all’originale, il Madison Square Garden ricostruito in interni nel teatro 5 di Cinecittà richiedeva comunque un gran numero di persone per apparire gremito in maniera credibile. Per accentuare il contrasto razziale tra gli spettatori dell’incontro di boxe, il regista Gallone optò per un montaggio analogico secondo lo stile della scuola cinematografica sovietica, alternando i primi piani dei volti “abietti” delle comparse di colore con quelli di giovani e belle ragazze italiane, accademiste della Scuola Femminile di Educazione Fisica della G.I.L. di Orvieto, scelte per simboleggiare “la perfezione fisica della razza italica”. Certa e documentata è anche la presenza in platea di un folto gruppo di marinai italiani in uniforme. Si trattava dell’equipaggio del sommergibile Barbarigo, che già il 20 maggio 1942 aveva rivendicato l’affondamento davanti alle coste brasiliane di una prima corazzata americana da 32.000 t. appartenente alla classe Maryland. In seguito all’annuncio di un secondo affondamento avvenuto al largo dell’Africa Occidentale il 6 ottobre 1942, stavolta ai danni di una nave da battaglia statunitense classe Mississippi, il comandante Enzo Grossi ed il suo equipaggio rimpatriarono in Italia da Bordeaux con gran clamore, venendo ricevuti da Mussolini a Palazzo Venezia. Durante la permanenza a Roma furono coinvolti in varie iniziative di propaganda e – a titolo di premio – ottennero di partecipare come comparse alla scena dell’incontro di boxe, che si stava girando in quel periodo. Sia l’ufficiale che i marinai indossavano la divisa della Regia Marina, perfettamente compatibile con l’ambientazione della pellicola in quanto rimasta pressoché identica dalla metà degli anni trenta sino all’armistizio. Tra i tifosi a bordo ring sono riconoscibili in brevi sequenze anche il pugile Primo Carnera e l’attrice Luisa Ferida.


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    IL CONCORSO A PREMI
    Le origini della partecipazione ad Harlem della giovane e conturbante attrice bolognese Luisa Ferida (all’anagrafe Luisa Manfrini) in veste di semplice comparsa vanno cercate nella presenza del suo compagno Osvaldo Valenti nel cast della pellicola. Inizialmente la sceneggiatura prevedeva la presenza del Reverendo Brown, un pastore protestante avido, ipocrita, beone e donnaiolo ad interpretare il quale Luigi Freddi chiamò proprio il Valenti, suo amico personale nonché attore specializzatosi con successo in ruoli da cattivo sin dagli anni trenta. In seguito però il Minculpop ordinò di eliminare il personaggio (per non ingenerare pericolosi equivoci tra gli spettatori italiani ignari del protestantesimo anglosassone, che identificando totalmente il cristianesimo col cattolicesimo avrebbero potuto reagire in modo ostile vedendo un religioso connotato in maniera tanto negativa). Osvaldo Valenti avendo già firmato il contratto dovette giocoforza ripiegare sul personaggio dello spietato gangster Chris Sherman, ma non sentendolo nelle sue corde non fu in grado di rendere in maniera pienamente credibile la cruda violenza della criminalità organizzata nordamericana. Contemporaneamente però l’attore tentò di fare pressione affinché la sua compagna ottenesse un ruolo di rilievo nel film. Purtroppo la Ferida, seppur molto popolare tra il pubblico, secondo la produzione risultò troppo poco “ingenua” per la parte della fidanzata italoamericana di Tommaso e troppo poco “anglosassone” per la parte che l’amante del gangster, poi interpretate rispettivamente dalle attrici Vivi Gioi ed Elisa Cegani. Dunque il Valenti, forse anche per preservare la pace familiare, si rivolse direttamente a Freddi. L’amico gerarca creò un apposito concorso a premi legato al film, in cui gli spettatori avrebbero dovuto individuare la breve comparsata di una “grande e popolarissima attrice del nostro cinema” non citata nei titoli di testa. Tra quanti avessero inviato all’ENIC una cartolina postale col nome dell’attrice sarebbero stati sorteggiati otto premi da 1000 Lire ciascuno in Buoni del Tesoro. La “grande e popolarissima attrice” era ovviamente proprio Luisa Ferida, che grazie ad una partecipazione muta di pochi secondi, seduta in prima fila a bordo ring accanto ad Osvaldo Valenti ed Elisa Cegani, poté affermare di aver recitato nell’ultimo “kolossal” del cinema di regime. I premi del concorso vennero effettivamente estratti, ma la consegna ai fortunati vincitori degli otto premi da 1000 Lire (peraltro ormai svalutatissimi a causa del vertiginoso aumento dei prezzi provocato dalla imperante borsa nera) venne rimandata per cause belliche “a dopo la vittoria finale” e non ebbe più luogo.
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  5. #5
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    A RIFLETTORI SPENTI
    I guai per Harlem iniziarono poco dopo il termine delle riprese, in quanto nel frattempo il clima politico stava irrimediabilmente mutando in peggio sull’onda delle inarrestabili sconfitte militari. Per sostenere la sua volontà di “marciare sino alla fine a fianco della Germania” già il 6 febbraio 1943 Benito Mussolini aveva provveduto a un ampio rimaneggiamento della compagine governativa, cambiando gran parte dei suoi ministri. In conseguenza di ciò Luigi Freddi perse l’appoggio dell’amico di lunga data Alessandro Pavolini, rimosso sbrigativamente dal Minculpop e retrocesso a direttore del quotidiano romano Il Messaggero. A sostituirlo fu Gaetano Polverelli, che si dimostrò da subito ostile alla pellicola, imponendo i primi tagli in censura e poi ostacolando addirittura l’uscita nelle sale. E’ probabile che il nuovo responsabile della Cultura Popolare ritenesse il film troppo frivolo, costoso e non adeguato ideologicamente al drammatico momento storico, che già imponeva – e sempre più avrebbe imposto – sanguinosi sacrifici al popolo italiano nel prosieguo del conflitto. E in un certo senso non si può dar torto all’austero e intransigente Polverelli, che perlomeno aveva ben chiaro quali fosche nubi si stessero addensando sul nostro paese. Vi erano poi le consuete invidie e rivalità sotterranee nel sottobosco governativo che portavano come d’abitudine nella politica italiana a campagne incrociate di dossieraggio e diffamazione reciproca tra gerarchi. Vi fu chi inviò lettere anonime accusando Freddi di aver appositamente protratto il più possibile le riprese di Harlem, solo per ottenere ben tre volte il rinvio della chiamata alle armi, in quanto presidente della Cines e dunque equiparato al “direttore di una industria strategica indispensabile allo sforzo bellico”. Per evitare il peggio, ovvero la catastrofe economica e la rivalsa delle banche finanziatrici della pellicola, che avrebbero ottenuto il fallimento della sua Cines, Freddi si rivolse direttamente al Duce. Perorando presso Mussolini il valore ideologico e propagandistico del film, ne organizzò una proiezione privata in anteprima a Villa Torlonia. Non sappiamo quale fu la reazione del Capo del Governo che probabilmente in quei momenti aveva ben altre priorità, comunque è un fatto che alla fine il film venne sdoganato politicamente e dopo una faraonica campagna pubblicitaria uscì nelle sale di tutta Italia nell’aprile 1943, con un grande successo di pubblico e come detto in precedenza divenne il campione di incassi per quell’anno. Ma nonostante ciò quasi tutti i critici cinematografici italiani – fossero essi fascisti o frondisti – stroncarono la pellicola, giudicandola ingenua e inadeguata ai fini della propaganda politico/ideologica. Riconobbero però l’enorme sforzo realizzativo e la spettacolarità delle scene di massa ottenute da Gallone. Intanto gli eventi politico-militari che incalzavano inesorabilmente ebbero effetti deleteri per tutto il popolo italiano e conseguenze talvolta drammatiche sulle vite di quanti in un modo o nell’altro avevano partecipato alla realizzazione di Harlem. Comunque la pellicola continuò a circolare in vari cinema nel territorio della R.S.I. fino al 6 giugno 1944, quando venne sequestrata dagli alleati nella sede romana della Cines. Per volontà dei liberatori il film fu sottoposto a pesanti tagli di censura sotto il controllo del Lt. Pilade Levi, un ebreo italiano espatriato negli Stati Uniti in seguito alle leggi razziali del 1938 e arruolatosi volontario nell’esercito americano. Il regista Carmine Gallone partecipò in prima persona all’operazione, reclutando gran parte degli attori originari rimasti a Roma ed i fonici necessari a realizzare un nuovo doppiaggio, eliminando ogni apologia del fascismo e tutti i riferimenti razzisti contro l’America e contro gli ebrei. Il razzismo contro i neri rimase però immutato, semmai peggiorato dal fatto che gli attori di colore inizialmente parlavano in italiano corretto ma furono doppiati in modo caricaturale, pronunziando i verbi all’infinito, come abituale in quel periodo. D’altra parte gli Stati Uniti erano allora (e sarebbero rimasti ancora a lungo) una potenza apertamente ed orgogliosamente razzista e segregazionista. Bisogna dire che l’unico a rifiutare per coerenza le poche migliaia di lire offerte dagli alleati per partecipare al doppiaggio fu Amedeo Nazzari, la cui voce venne sostituita da quella dell’attore Carlo Ninchi. Tanto per fare un esempio, in origine il personaggio di Amedeo Rossi osservando da una finestra la skyline dei grattacieli di New York diceva: “Ecco dove vive questo popolo malsano, corrotto dal materialismo e dalla plutocrazia”. Ma in seguito al completo rovesciamento nel significato della pellicola diceva invece: “Ecco dove vive questo popolo meraviglioso, questa gente stupenda, custode della libertà e della democrazia”.
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  6. #6
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    I SOMMERSI E I SALVATI

    Il cinema italiano: Il dorato mondo dei cinematografari romani uscì relativamente indenne dalla guerra. Abituati da anni a servire fedelmente il fascismo in cambio di privilegi e prebende, quando risultò evidente che l’esito del conflitto sarebbe stato infausto per l’Asse, per produttori, registi, attori e maestranze suonò subito la libera uscita e quasi tutti pensarono esclusivamente alla sopravvivenza immediata, in attesa che la situazione politica si chiarisse in qualche modo, per poi riposizionarsi politicamente e tornare a servire un nuovo padrone facendo sfoggio del proverbiale cinismo. Dopo il trauma dell’armistizio pur di non compromettersi con gli occupanti nazisti, col governo repubblicano di Salò e coi disperati tentativi di Luigi Freddi di attirare al Cinevillaggio affrettatamente allestito a Venezia qualcuno dei nomi di spicco della cinematografia italiana, tra i recalcitranti divi di celluloide successe praticamente di tutto. Vi fu chi si rifugiò all’estero, chi passò le linee diretto al sud, chi si nascose in convento o si fece ricoverare sotto falso nome in ospedale millantando inesistenti malattie infettive. Altri sfollarono in campagna o si limitarono a restare nella capitale cambiando spesso domicilio, ospiti nelle case di amici fidati. Il caso più clamoroso fu però quello dell’attore e regista Vittorio De Sica, che sfuggì ai nazifascisti prolungando appositamente per molti mesi la lavorazione de La porta del cielo (un film sui pellegrinaggi a Lourdes commissionatogli prima dell’armistizio dal Centro Cinematografico Cattolico) ma suscitando sdegno e indignazione in Vaticano per essersi accampato “senza il rispetto dovuto a un luogo sacro” nella inviolabile zona extraterritoriale della Basilica di San Paolo insieme ai molti israeliti romani da lui utilizzati come comparse per sottrarli alla deportazione in Germania. Dopo la liberazione di Roma nel 1944, un ristretto gruppo di giovani cineasti (generalmente ambiziosi intellettuali provenienti dai G.U.F. passati direttamente dal fascismo al marxismo) avendo partecipato in prima persona alla resistenza romana, chiese a gran voce punizioni draconiane, ergastoli e persino fucilazioni per gli esponenti più anziani del cinema di regime, colpevoli a sentir loro di aver distratto negli anni trenta le masse lavoratrici italiane dalla altrimenti inevitabile rivoluzione comunista, mediante il subdolo strumento delle frivole commediole borghesi dei “telefoni bianchi”. In concreto ne venne fuori ben poco e la montagna partorì il proverbiale topolino. Quello stesso anno fu effettivamente creata una apposita Commissione di epurazione dall’Unione Lavoratori dello Spettacolo, i cui membri avevano il solo merito di aver fatto professione di antifascismo più sinceramente o più rapidamente dei colleghi che avrebbero dovuto inquisire. I lavori della commissione si protrassero per poco tempo ma il documento finale non fu mai pubblicato, in quanto gran parte degli accusati si era nel frattempo messa al sicuro facendosi proteggere da autorevoli esponenti della sinistra. Valga come esempio il giovane regista cattolico Roberto Rossellini (colpevole di aver girato la trilogia di propaganda bellica composta da La nave bianca, Un pilota ritorna e L’uomo dalla croce), che fu oggetto degli strali della commissione ma sfuggì all’epurazione realizzando in tutta fretta nel 1945 il film Roma Città Aperta. Nella pellicola apologetica della resistenza il Rossellini equiparò i G.A.P. – spietati strumenti di terrorismo urbano – addirittura ai primi martiri cristiani, ottenendo così la totale protezione del P.C.I. da ulteriori conseguenze negative. Sul clima prevalente all’interno del ristretto ambiente artistico romano, dove tutti bene o male si conoscevano tra loro da anni, abbiamo la testimonianza di Sergio Leone (che oltretutto tra il 1946 e il 1950 lavorò in ben cinque film proprio come aiuto regista di Carmine Gallone, già regista di Harlem). Il futuro creatore del western all’italiana ricordò molti anni dopo che accompagnando in quel periodo il padre Vincenzo Leone (militante comunista già popolare regista ai tempi del muto col nome d’arte di Roberto Roberti) in noti luoghi di ritrovo della gente del cinema come il bar Rosati, ebbe occasione di vedere epurati ed epuratori cenare tranquillamente allo stesso tavolo, quasi scusandosi l’uno con l’altro di dover forzatamente recitare le rispettive parti in commedia, in attesa che finalmente – come avrebbe detto Eduardo – passasse ‘a nuttata. Ai pochi registi ed attori sanzionati ufficialmente dalla Commissione perché coinvolti col fascismo furono comminati solo pochi mesi di sospensione dal lavoro, e pur senza tornare più a posizioni di primo piano poiché soppiantati dalla nuova ondata neorealista imposta dall’antifascismo postbellico, comunque tutti furono reintegrati dopo la vittoria democristiana nel 1948 e continuarono per decenni a realizzare in gran numero pellicole di genere. Tutto sommato, a causa della terribile guerra civile che per due anni trascinò il popolo italiano in un bagno di sangue, persero la vita solo quattro attori cinematografici di una certa importanza. E se Renato Cialente morì nel novembre 1943 investito in circostanze misteriose da un autocarro tedesco davanti al teatro Argentina di Roma, la coppia Valenti/Ferida nell’aprile 1945 ed Elio Marcuzzo nel luglio dello stesso anno, furono invece soppressi a scopo di rapina da bande di partigiani in due distinti atti criminosi (poi giustificati a posteriori con improbabili motivazioni politiche).


    Luigi Freddi: Rimosso dai suoi incarichi dopo il crollo del regime e richiamato alle armi come ufficiale di complemento col grado di tenente d’Artiglieria, tra il 30 luglio e il 12 settembre 1943 fu rinchiuso nel carcere militare di Forte Boccea con altri esponenti fascisti per ordine di Badoglio. Liberato dai paracadutisti tedeschi, aderì immediatamente alla Repubblica Sociale Italiana e su richiesta di Mussolini tramite la Cines allestì un Cinevillaggio di fortuna nei Giardini della Biennale d’Arte di Venezia, ottenendo la parziale restituzione delle preziose attrezzature cinematografiche saccheggiate dai tedeschi a Cinecittà dopo l’armistizio (in totale solo undici vagoni ferroviari e pochi autocarri carichi di materiale giunsero nella città lagunare, ma molti di più furono inviati nel Reich dai nazisti, come bottino di guerra destinato ai teatri di posa di Berlino e Praga). Ma su impulso di Freddi nel territorio della R.S.I. si girarono film in altre località – o almeno si tentò di farlo – per decentrare gli impianti e aumentare la produzione (la Cines lavorò anche a Budrio di Bologna, la Scalera alla Giudecca, la Tirrenia agli stabilimenti Pisorno tra Pisa e Livorno, altri gruppi minori a Torino, Genova, Brescia, Montecatini, senza contare l’attività residua del Centro Sperimentale e dell’Istituto Luce, trasferiti a Venezia). Poco prima della liberazione Luigi Freddi tentò inutilmente di passare in Svizzera per raggiungere moglie e figlia da tempo al sicuro in territorio elvetico, ospiti della moglie di Arturo Toscanini. Consegnatosi ai partigiani tramite amici fidati, fu processato per illeciti arricchimenti ed epurato, ma ottenne un trattamento lieve e la pena residua fu cancellata dall’amnistia Togliatti. Diede alle stampe un libro autobiografico in due volumi intitolato Il cinema e dagli anni cinquanta tornò a lavorare in ambito cinematografico, tenendo i contatti con le grandi case di produzione statunitensi per conto di operatori italiani del settore. Scrisse e tentò invano di vendere alcune sceneggiature cinematografiche di argomento violentemente anticomunista, seppure aggiornate al periodo della guerra fredda. Non rinnegò mai la propria militanza fascista e tantomeno l’attività al vertice di Enic e Cines durante il ventennio. Il governo democristiano a un certo punto gli offrì persino di tornare a dirigere Cinecittà, a patto che facesse pubblica ammenda del passato prendendo la tessera della D.C. ma l’ex-gerarca per coerenza declinò l’invito.
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    Alessandro Pavolini: Rimosso dopo il 25 luglio 1943 dalla direzione del quotidiano Il Messaggero, il raffinato intellettuale toscano fu l’unico gerarca fascista a propugnare apertamente la necessità di resistere con le armi al colpo di stato militare sabaudo/badogliano. Datosi alla macchia con l’aiuto dei nazisti, si rifugiò in Germania insieme a figure di secondo piano del regime e tentò senza successo di formare un embrionale governo fascista in esilio. Dopo la proclamazione dell’armistizio e la liberazione di Mussolini, fu imposto dai tedeschi nel nuovo governo nazionale repubblicano, assurgendo al rango di Ministro di Stato e Segretario del Partito. Contrario fin dall’inizio alla strategia mussoliniana di riconciliazione nazionale tra fascisti e antifascisti, in seguito ai ripetuti attentati terroristici contro gli iscritti al P.F.R. militarizzò il partito con l’appoggio delle autorità militari germaniche, creando il Corpo Ausiliario delle Brigate Nere e contribuendo ulteriormente all’incrudelire della guerra civile tra italiani. Unico tra gli esponenti della Repubblica Sociale diretti verso la Svizzera a tentare mitra in pugno di sfuggire ai partigiani, fu ferito e catturato. Passato per le armi insieme agli altri prigionieri fascisti sul lungolago di Dongo per ordine del colonnello Valerio, il suo cadavere fu portato a Milano ed esposto in piazzale Loreto il 29 aprile 1945 con quello di Mussolini, di Claretta Petacci e dei gerarchi.
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    Joseph Goebbels: Ministro della Propaganda del Reich e capo assoluto della cinematografia nazista, nel 1944 fu nominato da Hitler plenipotenziario per la mobilitazione delle nuove divisioni Volksgrenadiere nell’ambito della guerra totale e nel 1945 divenne responsabile politico della difesa di Berlino assediata dalle truppe sovietiche. Rifugiatosi con la famiglia nel bunker della Cancelleria, dopo il suicidio di Hitler scelse di condividerne la sorte e si uccise insieme alla moglie Magda, non prima di aver fatto sopprimere con il veleno i loro bambini. Il suo cadavere parzialmente bruciato fu rinvenuto e identificato dalle truppe di occupazione sovietiche che lo occultarono in un luogo sicuro fino alla riunificazione delle due Germanie.
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    Gaetano Polverelli: Già militante socialista, fu giornalista de l’Avanti e de Il Popolo d’Italia, co-fondatore del fascio di Roma, sindacalista, capo ufficio stampa del Duce, sottosegretario e deputato, fedelissimo a Mussolini. In qualità di Ministro della Cultura Popolare il 25 luglio 1943 partecipò al Gran Consiglio del Fascismo. In quella occasione votò contro l’ordine del giorno Grandi, denunziandone la natura essenzialmente golpista e dichiarando di aver vissuto da mussoliniano e di voler morire mussoliniano. Dopo l’8 settembre aderì alla Repubblica Sociale Italiana, trasferendosi al nord. Arrestato ed epurato alla fine del conflitto, morì in onesta povertà quasi dimenticato da tutti.
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    Osvaldo Valenti e Luisa Ferida: Rimasti spiazzati come molti altri italiani dal tracollo improvviso del regime fascista, dopo il 25 luglio 1943 i due attori si sfollarono in campagna ospiti di amici, attendendo l’evolversi degli eventi. Incapace di valutare a fondo le conseguenze politiche del suo gesto, Valenti accettò di trasferirsi al nord dietro promessa di Luigi Freddi di un importante incarico dirigenziale in ambito cinematografico. Probabilmente la sua decisione fu pesantemente influenzata anche dal fatto che la cocaina, dalla quale sia lui che la Ferida erano da tempo pesantemente dipendenti, non era più reperibile nella Roma occupata dai nazisti. Max Mugnani era lo spacciatore ufficiale del regime, della nobiltà romana e dei cinematografari, nonché l’ufficiale della M.V.S.N. famoso nella Roma del 1941 per aver imbottito di cocaina il nuovo ambasciatore nipponico Matsuoka nel corso di un festino a base di sesso e droga fino a metterlo fuori combattimento e costringendo il Duce a rinviare di tre giorni la cerimonia di presentazione delle credenziali ufficiali del diplomatico giapponese. Il Mugnani dopo l’armistizio aveva rapidamente attraversato le linee raggiungendo Napoli. Grazie ai numerosi mafiosi italoamericani tornati in Italia con la 5^ Armata, era stato nominato custode dei depositi di morfina della sanità militare americana nella città partenopea, avviando un lucroso mercato nero di stupefacenti destinato a continuare anche nel dopoguerra. Giunta a Venezia nell’inverno 1943, la coppia di attori non tardò a restare delusa dalla dura realtà. Quasi tutta la gente di cinema che più o meno volontariamente aveva aderito all’estrema iniziativa propagandistica del fascismo (in gran parte figure di secondo piano o giovanissimi destinati poi a una fulgida carriera nel secondo dopoguerra) vegetava inattiva nei grandi alberghi o in case private, tra restrizioni di ogni tipo e un clima politico sempre più plumbeo. La spensieratezza degli anni di Cinecittà non si addiceva certo al misero ambiente del Cinevillaggio allestito in laguna. A mancare alla cinematografia repubblichina erano anche i veri divi. Oltre ad Osvaldo e Luisa c’erano solo Doris Duranti (allora amante di Pavolini), Caterina Boratto, l’ex-attore del muto Nuto Navarrini (che dopo aver sposato in seconde nozze una ballerina era passato all’avanspettacolo) e pochi altri. Nonostante avesse ottenuto un incarico direttivo nel sindacato fascista Artisti dello Spettacolo, spinto dal bisogno di denaro Valenti nel febbraio 1944 tornò a lavorare al fianco della sua compagna nel mediocre e raffazzonato film Un fatto di cronaca con esiti deludenti di critica e di pubblico. La coppia avrebbe dovuto girare un altro film nel maggio dello stesso anno, ma la pellicola già intitolata Il destino ha deciso in realtà non fu mai realizzata. L’attore in crisi fu avvicinato da Nino Buttazzoni, comandante del Battaglione NP, che per conto di Borghese gli propose di entrare nella X^ Flottiglia M.A.S. col grado di tenente. Ancora una volta la scelta fu presa d’impulso senza valutare le conseguenze. La notizia dell’arruolamento fu ampiamente sfruttata dalla propaganda fascista che fece di lui un uomo-immagine e dopo un breve addestramento, Osvaldo Valenti fu inizialmente destinato come ufficiale di collocamento presso il Quartier Generale della Kriegsmarine in Italia. Trasferito poi al Distaccamento di Milano della X^, gli fu affidata insieme ad alcuni NP la delicata missione di contrabbandare in Svizzera oro, gioielli e titoli di stato, utilizzando come copertura il convalescenziario gestito dalla Marina Nazionale Repubblicana a Lanzo d’Intelvi, a ridosso del confine elvetico. Lo scopo era procurare la valuta pregiata (dollari e sterline) necessaria a reperire al mercato nero armi, automezzi e carburante per i nuovi battaglioni costituiti dalla X^. In tale occasione venne in contatto con personaggi ambigui, contrabbandieri e doppiogiochisti e cominciò a valutare l’opportunità di cambiare campo prima dell’inevitabile sconfitta. Rientrato a Milano, frequentò per motivi di servizio Villa Triste, sede del famigerato Reparto autonomo di polizia, capeggiato da Pietro Koch. Ciò diede origine alla leggenda nera – perpetuatasi a lungo nel dopoguerra nonostante alcune sentenze attestassero il contrario – di un Valenti spietato torturatore di partigiani. In realtà egli incontrò per la prima volta Koch in seguito a una intricata vicenda legata allo sfruttamento di un pozzo metanifero a Cavenago d’Adda, nel lodigiano (lo stesso che dal 1946 darà inizio ai fasti dell’E.N.I.) in una inedita collaborazione tra la X^ e i partigiani bianchi di Enrico Mattei. Una vicenda ancora più complessa e poco nota si nascondeva dietro la più che amichevole frequentazione di Osvaldo Valenti e Luisa Ferida con Pietro Koch e la sua amante, la ballerina Daysi Marchi. Come gran parte delle polizie autonome operanti durante la guerra civile, anche la Banda Koch era formalmente dipendente dal Ministro degli Interni italiano Buffarini Guidi ma in realtà era agli ordini diretti della SS/SD. Il principe Junio Valerio Borghese era da tempo stato contattato dagli americani tramite un agente dei servizi segreti della Regia Marina cobelligerante, appositamente paracadutato al nord e stava portando avanti trattative per ritagliarsi uno spazio di manovra politico-militare nel dopoguerra, sia progettando la difesa congiunta dei confini orientali dall’invasione dei comunisti jugoslavi, sia proponendo in cambio dell’incolumità dei suoi uomini la creazione di una organizzazione armata formata da ex- della Decima e sostenuta in segreto dagli Stati Uniti per contrastare l’arrivo al potere dei comunisti italiani (il primo embrione della futura Gladio). Gli organi di sicurezza nazisti lo sospettavano di tradimento e avevano incaricato Koch di spiarlo per trovarne le prove concrete. Il comandante Borghese però, sapendo che Valenti già conosceva di vista l’aguzzino fascista, incaricò l’attore di frequentarlo per spiarlo a sua volta. Si trattava di un gioco molto pericoloso per chiunque ma che risultò vincente, dato che il 25 aprile 1945 Borghese si asserragliò coi suoi uomini in una caserma di Milano e attese tranquillamente gli americani, che lo sottrassero alla vendetta degli antifascisti. Poco prima della liberazione – sopravvalutando la propria importanza politica – Valenti consegnò ai partigiani un lungo memoriale difensivo e poi si mise nelle mani della formazione socialista nota come Divisione Pasubio, promettendo di consegnare in cambio dell’incolumità il tesoro della X^ M.A.S. a lui affidato. Si trattava di una grande quantità di oro, pellicce e valuta pregiata, in sei grossi bauli murati in una stanza del suo alloggio. Una volta in balia dell’ambiguo comandante partigiano Giuseppe Marozin, l’attore si fece sciaguratamente raggiungere con uno stratagemma dalla sua compagna incinta di quattro mesi. Nascosti di volta in volta in varie località alla periferia di Milano, i due passarono presto da ospiti a prigionieri. Vennero fucilati su un marciapiede di via Poliziano alle prime luci del 30 aprile 1945 e i loro cadaveri finirono all’obitorio comunale fra quelli dei numerosi fascisti soppressi in quei giorni. A metà degli anni cinquanta la sentenza di un tribunale della Repubblica Italiana, stabilì che la defunta Luisa Manfrini (in arte Luisa Ferida) non si era macchiata di alcun reato politico, il che permise all’anziana madre di ottenere una pensione in quanto “unico familiare supersite di una vittima di guerra”. A carico di Osvaldo Valenti c’erano solo l’arruolamento volontario e la sua troppa ingenuità, con ogni probabilità l’amnistia Togliatti avrebbe prosciolto anche lui. L’ex- capo partigiano Giuseppe Marozin detto Vero (che peraltro alla fine del 1945 era stato anche ferito in un attentato da parte di ex- partigiani comunisti rivali) fu riconosciuto responsabile della morte dei due attori ma non perseguito in quanto tale “atto di guerra” rientrava ampiamente nell’amnistia Togliatti. Del presunto tesoro della X^ M.A.S. smurato e asportato da ignoti partigiani, rimasero solo i sei bauli vuoti.
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    Mino Doro: Abbastanza noto negli anni ’30 e ’40 in ruoli di attor giovane o coprotagonista pur senza divenire mai un nome di primo piano, l’attore veneziano Mino Doro (all’anagrafe Erminio Napoleone Gioanni Doro, Conte di Costa di Vernassino) fu amico personale di Freddi e Valenti, nonché un fascista convinto. Fece una piccola partecipazione in Harlem interpretando uno dei guardaspalle del gangster Chris Sherman. Dopo l’armistizio aderì alla R.S.I. e tornò nella sua città natale, recitando in alcune delle pellicole girate al Cinevillaggio allestito da Freddi. Al termine del conflitto venne accusato di aver fatto propaganda fascista e persino di essere stato un confidente dell’O.V.R.A. ma in virtù dell’amnistia voluta da Togliatti fu presto scagionato anche se non ripudiò mai la sua fedeltà al regime fascista. Ormai ultraquarantenne, molto ingrassato e afflitto da una precoce calvizie, tra l’inizio degli anni ’50 e la fine degli anni ’60 recitò piccoli ruoli da caratterista in un gran numero di film. A volte si prestò a brevi comparsate in uniforme fascista non prive di una certa autoironia (nel film Tutti a casa fu chiamato dal regista Luigi Comencini ad interpretare il maggiore Nocella, tronfio e ridicolo ufficiale repubblichino che tenta di convincere i due sbandati Innocenzi e Ceccarelli a ripresentarsi al distretto militare). Nel 1972 si sposò trasferendosi con la moglie in Paraguay. Fece ritorno in Italia solo pochi anni prima di morire.
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    Amedeo Nazzari: L’attore più rappresentativo del cinema di regime, definito dallo stesso Mussolini l’incarnazione perfetta del nuovo eroe nazionale fascista, fu sorpreso dall’armistizio dell’8 settembre 1943 nella zona dei Castelli Romani dove si stava girando il film La donna della montagna. Quel giorno le riprese di alcune scene in esterni a Frascati furono bruscamente interrotte dal devastante bombardamento aereo alleato contro il Q.G. del feldmaresciallo Kesselring, che distrusse quasi completamente l’abitato, uccidendo seimila civili italiani e centinaia di soldati germanici. Maestranze e attori in preda al panico cercarono scampo disperdendosi nella campagna circostante. Nazzari salvò a stento la vita alla protagonista femminile del film, l’attrice Marina Berti, raggiungendo poi Roma con mezzi di fortuna e con ancora indosso il costume di scena. Trascorse relativamente al sicuro il periodo dell’occupazione nazista senza compromettersi con Salò. Dopo la liberazione di Roma offrì i suoi servigi come ufficiale del Genio all’esercito cobelligerante ed agli stessi americani chiedendo di essere paracadutato oltre le linee, ma ne fu sbrigativamente dissuaso. Nel 1946 pagò dazio al nuovo potere antifascista interpretando il ruolo di un eroico comandante partigiano nel film Un giorno nella vita. Dopo una sfortunata parentesi lavorativa in Argentina, dove per ottenere giustizia contro un impresario truffaldino dovette rivolgersi addirittura ad Evita Peròn, alla fine degli anni ’40 conobbe una rinnovata popolarità in Italia tra il pubblico femminile. La sicurezza economica gli fu assicurata dai lacrimosi melodrammi interpretati in coppia con la prosperosa attrice di origine greca Yvonne Sanson. Negli anni ’50 e ’60, rarefacendosi i ruoli da protagonista, accettò di figurare in partecipazioni speciali, interpretando spesso ruoli da valoroso ufficiale, integerrimo poliziotto o incorruttibile funzionario in film di argomento bellico o comunque ambientati durante il ventennio fascista, richiamandosi così in qualche modo ai ruoli da eroe italico tutto d’un pezzo interpretati nelle pellicole anteguerra. Negli anni ’70 recitò in una puntata dell’Ispettore Derrick, in alcune opere teatrali trasmesse dalla RAI-TV e fu testimonial del bagnoschiuma Pino Silvestre e dell’aperitivo Biancosarti negli spot pubblicitari di Carosello, seppur costretto da una grave insufficienza renale a frequenti dialisi che negli ultimi anni di vita lo obbligarono a diradare le apparizioni pubbliche.
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  7. #7
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    Carmine Gallone: Dopo la liberazione di Roma nel 1944, il regista di Harlem fu oggetto di indagine da parte della Commissione di epurazione dell’Unione Lavoratori dello Spettacolo ma si mise al servizio degli angloamericani, ottenendone protezione. Nel 1945 partecipò attivamente alla censura e al nuovo doppiaggio della pellicola agli ordini del P.W.B. alleato e per tale motivo fu oggetto di violente polemiche giornalistiche. Dal 1946 tornò a lavorare, inizialmente dirigendo riduzioni cinematografiche di popolari opere liriche e poi numerosi film di genere, grazie alla capacità di realizzare scene complesse con un gran numero di comparse, ampiamente dimostrata durante il ventennio.
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    Leone Jacovacci: Ostracizzato dal fascismo, continuò la sua carriera pugilistica in Francia fino al luglio 1935 e poi appese i guantoni al chiodo, partecipando nel decennio successivo ad incontri di catch. Col declinare delle forze fisiche abbandonò definitivamente ogni attività sportiva tornando rapidamente nell’anonimato e in un momento imprecisato del dopoguerra scelse di rimpatriare in Italia. Stabilitosi a Milano, lavorò per il resto della vita come portiere di un condominio.
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    Lodovico Longo: Nonostante molti gli pronosticassero un luminoso futuro nel mondo del cinema, dopo Harlem non partecipò ad altri film. Dopo l’armistizio sfuggì alla chiamata alle armi nella R.S.I. facendosi ricoverare in un ospedale in provincia di Latina, grazie a una falsa diagnosi ottenuta con la complicità di amici medici. Conobbe una infermiera di 17 anni più grande di lui e la sposò nel novembre 1943. Rientrato a Roma con la moglie dopo il passaggio del fronte, si stabilì nel quartiere Cipro. Nell’immediato dopoguerra trovò impiego come ingegnere catastale al Ministero delle Finanze e vi rimase sino alla pensione. In tarda età cercò di recuperare un legame ideale con la madre mai conosciuta, riscoprendo l’identità africana e cambiando ufficialmente il nome in Abraha Bahata Longo, col significato di “portatore di luce e gioia”. Avendo scelto il proverbiale posto fisso, abbandonò gli studi matematici e la sua ipotesi di soluzione del Teorema di Fermat – per quanto regolarmente depositata presso un notaio nel 1996 – non venne mai pubblicata. Il famoso teorema venne poi ufficialmente risolto dal matematico britannico Andrew G. Wiles.
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    Erminio Spalla: L’ex-pugile, ex-allenatore, ex-cantante lirico ed ex-scultore (che durante la Grande Guerra aveva combattuto nel 41° Rgt. Fanteria venendo insignito di Croce al Merito di Guerra), dopo la partecipazione ad Harlem decise di arruolarsi volontario nei Paracadutisti e la cosa fu ampiamente sfruttata dalla propaganda bellica del regime. Effettuati alcuni lanci con un paracadute a calotta maggiorata (realizzato appositamente per lui in quanto quello regolamentare non riusciva a sostenerne il peso) ottenne il brevetto alla Scuola Paracadutisti di Tarquinia. Nel 1943 col grado di Sergente istruttore insegnò pugilato, arti marziali e lotta a mani nude agli uomini del Btg. A.D.R.A. (Arditi Distruttori Regia Aeronautica). In seguito all’armistizio si trasferì a Venezia, partecipando ad alcuni film realizzati al Cinevillaggio tra il 1944 e il 1945. Uscì indenne dal crollo della Repubblica Sociale e negli anni ’50 e ’60 continuò a recitare piccole parti in film di serie B, sceneggiati televisivi R.A.I. e spot pubblicitari di Carosello. In tarda età si dedicò anche alla pittura con buon successo.
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    Primo Carnera: Dopo aver interpretato se stesso in Harlem partecipò nel 1943 alle riprese di una commedia con Totò intitolata Due cuori fra le belve (ma rieditata nel dopoguerra col nuovo titolo Totò nella fossa dei leoni), nel ruolo del gigantesco capo di una tribù di cannibali. Dopo l’armistizio da Roma tornò fortunosamente a Sequals, suo paese natale. Nonostante tutto era ancora una celebrità internazionale e nella primavera del 1944, spinto da gravi difficoltà economiche e dalla minaccia di rappresaglie contro la famiglia, accettò di partecipare a incontri di boxe davanti alle cineprese dell’Istituto Luce. Il 23 aprile 1944 affrontò l’ex- campione tedesco Max Schmeling. Ma in un'altra occasione simile fu messo k.o. da un prigioniero di guerra di colore. Dopo la liberazione fu accusato di collaborazionismo per il ruolo propagandistico impostogli dal regime fascista e per il grado meramente onorifico rivestito nella M.V.S.N. negli anni trenta. Subito scagionato, ottenne la protezione degli americani, venendo ingaggiato per una serie di esibizioni nelle guarnigioni statunitensi in Italia, anche stavolta incrociando i guantoni contro pugili di colore. Emigrato con moglie e figli negli Stati Uniti, dopo qualche incontro di boxe con esiti deludenti alternò piccole partecipazioni in pellicole di serie B ad esibizioni di wrestling di infimo ordine. Raggranellati abbastanza soldi da aprire un negozio di liquori, si ritirò a vita privata. Irrimediabilmente minato da una malattia incurabile, tornò in Italia solo per morirvi.
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    John “Brown Condor” Robinson: Rientrò negli Stati Uniti dopo la vittoria italiana in Abissinia e la fuga del Negus in esilio a Londra. Richiamato in servizio come ufficiale dell’U.S.A.A.C. durante la 2^ g.m. ebbe un ruolo di primo piano nel reclutare e addestrare i piloti afroamericani del 332nd Fighter Group, meglio noti come “The Tuskegee Airmen” (un reparto da caccia all-black che operò come scorta ai quadrimotori americani durante le incursioni sulla Germania). Congedato nel 1945 col grado di colonnello, tornò l’anno successivo ad Addis Abeba su richiesta del Negus, costituendo con altri piloti afroamericani veterani di guerra il primo nucleo di istruttori della nuova Aviazione Imperiale Etiopica. Perse la vita in un incidente aereo durante un volo di addestramento.
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    Domenico Mondelli: Valoroso ufficiale dei Bersaglieri, aviatore, comandante di una Squadriglia di plurimotori da bombardamento del Corpo Aeronautico Militare e poi del IX Reggimento Arditi (precursore degli odierni reparti speciali dell’esercito). Singolare figura di cittadino italiano di colore, ex-combattente pluridecorato della Grande Guerra, iscritto al P.N.F. e adepto della Massoneria. A differenza di molti suoi parigrado non fu richiamato in servizio nella 2^ g.m. ma rimase a Roma, apparentemente indisturbato e rispettato da tutti. Al termine del conflitto avviò una lunga vertenza legale col Ministero Difesa per vedersi riconosciuto l’avanzamento di grado e l’anzianità di servizio maturata nel ventennio, ma negatagli dal regime per la sua vicinanza al Grande Oriente d’Italia oltre che per motivi razziali. Solo nel 1968 raggiunse il grado di Generale di Brigata (della riserva) nel ricostituito Esercito Italiano. Gravemente malato, morì sei anni dopo all’Ospedale Militare del Celio.
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    Tommaso Grossi: Due volte decorato al Valor Militare da Mussolini e divenuto comandante della base atlantica italiana di Bordeaux, subito dopo l’armistizio consegnò di sua iniziativa sommergibili e impianti ai tedeschi, aderendo alla R.S.I. solo dopo la liberazione del Duce. Divenne una figura di spicco della Marina Nazionale Repubblicana, secondo per popolarità solo al principe Junio Valerio Borghese. Raccolse in Francia sbandati italiani di tutte le armi, improvvisando una unità di fanteria chiamata Divisione Atlantica e schierandola nel 1944 a difesa non solo della B.A.I.R. (Base Atlantica Italia Repubblicana) ma anche di altri porti e postazioni difensive approntate dai tedeschi lungo la costa atlantica francese. Degradato ed epurato al termine del conflitto, gli furono revocate le medaglie relative ai due presunti affondamenti di corazzate statunitensi attribuitigli nel 1942, considerate ufficialmente dalla M.M. postbellica come mai avvenute. In seguito fu candidato alle elezioni politiche dal Movimento Sociale Italiano.
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    I marinai del Barbarigo: Rientrato dall’Italia al termine della licenza premio, l’intero equipaggio scomparve insieme al sommergibile in navigazione nell’Oceano Atlantico, dopo essere salpato da Bordeaux il 15 giugno 1943 diretto verso l’arcipelago indonesiano occupato dai giapponesi. Dopo l’armistizio la X^ Flottiglia M.A.S. intitolò alla memoria dei marinai del Barbarigo l’omonimo Btg. Fanteria di Marina composto da giovani volontari, che partecipò attivamente alla difesa di Roma nel 1944 e in seguito alla lotta antipartigiana in Italia settentrionale.
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    La Polizia dell’Africa Italiana: Alle dirette dipendenze del Ministero dell’Africa Italiana per espressa volontà di Mussolini, dopo il 25 luglio 1943 il corpo passò agli ordini del Ministero degli Interni. Schieratosi senza incertezze a favore del governo Badoglio e della Monarchia, sostituì i fascetti sul bavero delle uniformi con le stellette metalliche del Regio Esercito continuando a mantenere l’ordine pubblico a Roma e dintorni. Dopo la proclamazione dell’armistizio, tra l’8 e il 10 settembre 1943 la Colonna Cheren della P.A.I. andò in combattimento al fianco del Corpo d’Armata di Roma, contribuendo alla difesa della capitale contro i paracadutisti tedeschi con proprie aliquote altamente specializzate (fanteria autocarrata, moto mitraglieri, armi controcarro, blinde AB 41 e carri L 6). Dopo la firma del cessate il fuoco tra italiani e tedeschi che portò alla creazione della Città Aperta, la P.A.I. si acquartierò al Foro Mussolini, incamerando abusivamente autocarri, camionette armate, autoblinde e persino semoventi da 75/18 appartenenti ad altre unità, pur di mettere in salvo i mezzi ed i relativi equipaggi dalle razzie tedesche. Poco dopo la proclamazione della R.S.I. Mussolini deliberò la fusione di Milizia, Carabinieri Reali e Polizia dell’Africa Italiana nella nuova Guardia Nazionale Repubblicana, destinata nelle sue intenzioni a diventare l’unico organismo responsabile del mantenimento dell’ordine pubblico. L’aperta ostilità del personale P.A.I. verso fascisti e nazisti portò a un atteggiamento attendista del corpo, che rifiutò ripetutamente di trasferire uomini e mezzi al nord per metterli a disposizione della G.N.R. e procrastinò con vari pretesti il giuramento di fedeltà alla R.S.I. iniziando una collaborazione sempre più stretta con le varie formazioni partigiane operanti sul territorio. Quando i tedeschi tentarono di piegare la resistenza passiva delle varie forze di polizia italiane ancora presenti a Roma sciogliendo con la forza i CC.RR. perchè politicamente infidi, fu proprio la P.A.I. ad occupare preventivamente tenenze e stazioni della Benemerita per impedirne il saccheggio da parte degli occupanti. In seguito all’applicazione anche nella Città Aperta del cosiddetto Bando Graziani che imponeva la leva obbligatoria nell’E.N.R. per le classi più giovani minacciando le famiglie dei renitenti, la P.A.I. creò un proprio Btg. Agenti Ausiliari aprendo autonomamente all’arruolamento di volontari. In tal modo un certo numero di studenti universitari in età di leva furono messi al sicuro dalle rappresaglie fasciste. Ma fra gli ausiliari P.A.I. si nascosero con documenti falsi anche alti ufficiali monarchici, ebrei romani sfuggiti alla deportazione, partigiani di varie tendenze politiche e persino una spia americana (l’agente dell’O.S.S. Peter Tompkins). Questo stato di cose, unito all’ostinato rifiuto del personale di indossare i nuovi gladietti repubblicani al posto delle stellette, portò a frequenti tensioni con reparti italiani fortemente politicizzati diretti al fronte di Anzio/Nettuno per contrastare gli angloamericani. I marò, i paracadutisti e le SS italiane concordavano nel ritenere gli agenti P.A.I. degli imboscati, o peggio dei traditori. Da ciò le frequenti scazzottate o addirittura sparatorie, sempre però ricomposte con sbrigativa diplomazia dai nazisti, consapevoli di non poter controllare da soli una città così popolosa nelle immediate retrovie del fronte. Il 4 giugno 1944 pattuglie miste di partigiani e P.A.I. operarono all’ingresso delle truppe americane nella capitale favorendo l’ordinato trapasso di poteri col legittimo governo regio cobelligerante. Poco dopo la liberazione di Roma però, la Polizia dell’Africa Italiana fu definitivamente disciolta come corpo autonomo a causa delle sue origini fasciste e parte del personale fu allontanato per motivi politici. I preziosi mezzi motocorazzati appartenuti alla Colonna Cheren con gli equipaggi ottimamente addestrati, vennero invece inglobati senz’altro nelle Guardie di P.S. dando origine dal 1945 a un primo embrione del Reparto Celere. Dopo la vittoria democristiana del 18 aprile 1948 gli ex- agenti P.A.I. epurati durante la guerra furono reintegrati quasi tutti in servizio dal ministro Scelba, in quanto fortemente anticomunisti. Quando l’Italia assunse l’amministrazione fiduciaria della Somalia su mandato O.N.U. tra il 1950 e il 1960, il ridotto contingente inviato in loco dalla Polizia di Stato era composto in gran parte da esperti ufficiali e sottufficiali già appartenuti alla Polizia dell’Africa Italiana.
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    Riccardo Marraffa: Dal 1911 ufficiale di Artiglieria nel Regio Esercito, veterano pluridecorato della Grande Guerra, nel gennaio 1937 divenne comandante della Polizia dell’Africa Italiana e forgiò a propria immagine e somiglianza il nuovo corpo armato creato da Mussolini l’anno prima, inculcando in ufficiali e truppa un inflessibile senso di fedeltà allo Stato ed alla Monarchia, superando e in un certo qual modo eludendo i limiti impliciti nell’ideologia fascista. Fece rapidamente della P.A.I. una moderna ed efficiente realtà dalla duplice natura – militare e di polizia – destinata ad operare sia in Libia che in A.O.I. con personale misto italiano ed africano, prendendo ad esempio la polizia coloniale britannica. In tempi di povertà generalizzata e diffuso analfabetismo tra la popolazione italiana, l’arruolamento era visto da molti giovani solo come un impiego statale ben remunerato, con vitto e alloggio assicurati e senza troppe responsabilità. Marraffa ritenne invece indispensabile ammettere alla Scuola P.A.I. di Tivoli solo personale nazionale di alta statura, in perfetta salute, esclusivamente volontario, altamente scolarizzato (diploma di liceo o istituto tecnico) e in grado di operare in completa autonomia per lunghi periodi, garantendo l’ordine pubblico nei vasti territori africani più con l’esempio che con la repressione. A tale scopo i futuri agenti dovevano studiare approfonditamente non solo il Codice Penale italiano, ma anche la Sharia islamica e il diritto consuetudinario delle varie popolazioni indigene, nonché parlare almeno una delle lingue locali. Essi furono equipaggiati senza badare a spese con uniformi di altissima qualità, armi automatiche innovative e mezzi motorizzati e blindati appositamente studiati per operare in ambiente africano. Oltretutto in una quantità a quell’epoca totalmente sconosciuta alle forze armate nazionali. Gli Ascari P.A.I. reclutati in tutte le etnie dell’Impero dovevano a loro volta saper leggere e scrivere correttamente l’italiano (a livello da licenza elementare) e venivano inquadrati da esperti e fedeli sottufficiali indigeni, in genere veterani eritrei dei CC.RR. e del R.C.T.C. con molti anni di servizio. Sin dall’inizio la P.A.I. aveva come propria missione istituzionale la protezione delle vite, dei beni, dei diritti civili e religiosi di tutti i sudditi residenti nelle colonie del Regno d’Italia, indipendentemente dall’etnia di appartenenza o dalla fede professata. Contingenti di agenti P.A.I. specialmente addestrati scortavano persino le navi cariche dei sudditi di religione islamica in navigazione verso l’Arabia Saudita per compiere l’Haji, il pellegrinaggio alla Mecca ritenuto sacro dovere di ogni buon musulmano, proteggendole dalle bande di pirati che anche allora infestavano il Mar Rosso. Anche dopo le leggi razziali del 1938 grazie all’esempio di moderazione dato dal suo comandante, la Polizia dell’Africa Italiana rimase totalmente estranea a forme di repressione e discriminazione sporadicamente perpetrate in colonia dai fascisti più facinorosi ai danni dei nativi. L’entrata in guerra dell’Italia nel giugno 1940 bloccò le promettenti sperimentazioni in corso per dotare il corpo anche di una propria componente aerea dotata di velivoli ad ala rotante (dato che per volere di Italo Balbo tutti i velivoli ad ala fissa ricadevano sotto la esclusiva giurisdizione della Regia Aeronautica), immettendo in servizio autogiri ed elicotteri di produzione nazionale per operazioni di polizia e soccorso sanitario. Dopo la definitiva perdita dell’A.O.I. il corpo formò alcune colonne celeri dotate di motociclette e autoblinde, che operarono come unità esploranti a fianco del nostro esercito in Africa Settentrionale fino al maggio 1943. Dopo la caduta della Tunisia le restanti forze della P.A.I. ancora in Italia vennero riunite nella Colonna Cheren, comandata dal generale Presti. Dopo l’armistizio dell’8 settembre e la rapida occupazione militare tedesca, il generale Marraffa assunse il comando di tutte le forze di polizia ancora presenti a Roma, ma considerando quello monarchico fuggito a Bari l’unico governo italiano legittimo, rifiutò decisamente di aderire alla R.S.I. e cedere i suoi uomini alla G.N.R. appena creata da Mussolini. Il 27 settembre fu tratto in arresto dalla Gestapo con l’accusa di alto tradimento. Deportato nel campo di sterminio di Dachau, vi trovò la morte l’11 dicembre 1943. Probabilmente fu volontariamente soppresso dagli aguzzini nazisti ma il certificato consegnato in seguito per vie burocratiche alla famiglia riporta genericamente come causa della morte un infarto cardiaco.
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    I Lancieri Vicereali: A inizio 1942 alcuni tra i Lancieri Vicereali P.A.I. più giovani e volenterosi rimasti a Napoli dal 1940, furono addestrati a Tivoli all’utilizzo delle motociclette ed ai moderni metodi di guerra nel deserto, venendo poi aggregati alla Colonna Romolo Gessi della P.A.I. destinata all’impiego operativo in Libia. I prescelti erano tutti eritrei di lingua araba e religione islamica, in quanto avrebbero potuto più agevolmente adattarsi a interagire con gli Agenti P.A.I. libici e con la popolazione di quel territorio. Al fronte dettero buona prova, seguendo le sorti del reparto sino alla resa delle truppe italiane. Visto il risultato positivo dell’esperimento, nel 1942/43 il resto del personale di colore parallelamente alla partecipazione al film Harlem fu istruito a Tivoli allo scopo di creare un reparto organico di moto mitraglieri indigeni. A tale scopo la sfarzosa uniforme di gala fu abbandonata in favore della sahariana kaki e l’alto “tarbusch” rosso venne ridotto in altezza a imitazione della “tachia” libica, permettendo di calzarlo saldamente anche alla guida di motocicli ad alta velocità. Le pistole Beretta 34 ed i mitra MAB 38 A andarono a sostituire le tradizionali lance da cavalleria. Finito l’addestramento il gruppo al comando di ufficiali bianchi fu decentrato nelle Marche con compiti di movimentazione stradale ed ordine pubblico. Dopo l’armistizio, pur essendo il reparto teoricamente agli ordini della R.S.I. i tedeschi dimostrarono una crescente ostilità e vi furono frequenti incidenti con i moto mitraglieri di colore, finché all’approssimarsi del passaggio del fronte questi ultimi si dettero alla macchia per ordine dei loro ufficiali, ripresentandosi però in servizio all’arrivo degli angloamericani. Riportati tutti a Napoli, dopo lo scioglimento della P.A.I. grazie alla conoscenza approfondita dei mezzi a motore furono utilizzati in vari modi dall’esercito cobelligerante e dai servizi segreti italiani anche dopo la fine del conflitto (nel 1945 un ex- Lanciere Vicereale P.A.I. divenne autista della vettura di servizio e attendente personale di Edgardo Sogno). Alla fine degli anni ’40 con la perdita definitiva della sovranità sulle nostre colonie in seguito alla firma del trattato di pace del 1947, alcuni dei nativi scelsero di tornare definitivamente in Africa. Altri si dimostrarono fedeli all’Italia al di là dei mutamenti istituzionali e restarono nel nostro paese, venendo arruolati inizialmente nelle FF.OO. per la repressione del banditismo in Sicilia e Sardegna. Ma poi trovarono impieghi più tranquilli in ministeri ed enti di vario genere. Il più famoso di tutti loro fu certamente l’ex- graduato P.A.I. Andalù, che per molti anni fu custode del Giardino Zoologico di Roma, divenendo poi un popolarissimo personaggio televisivo grazie alla partecipazione alla trasmissione L’amico degli animali al fianco di Riccardo Lombardi e Bianca Maria Piccinino.
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    I sudditi coloniali: Al termine delle riprese di Harlem i sudditi coloniali utilizzati come comparse (circa una sessantina di individui di tutte le età) vennero premiati con un lungo giro turistico delle bellezze di Roma, a bordo di due vetture tranviarie dell’A.T.A.G. appositamente noleggiate dalla produzione del film sulla linea allora esistente “Circolare Rossa – Circolare Nera” con la scorta di agenti P.A.I. per evitare indebiti contatti con la popolazione bianca. Una volta tornato a Napoli, il gruppo vide decisamente peggiorato sia il proprio vitto che il tenore di vita, per l’aggravarsi del conflitto e il cambiamento improvviso del personale di guardia loro assegnato. Nell’aprile 1943 tutti i sudditi coloniali furono definitivamente trasferiti a Treia, in provincia di Macerata, per avvicinarli ai motomitraglieri indigeni già operanti in zona. Alloggiati in precarie condizioni igieniche a Villa Spada (già centro di internamento per cittadini stranieri), i sudditi coloniali erano sottoposti a una sorveglianza minima rispetto a Napoli e avevano più occasioni per interagire e fraternizzare con la popolazione italiana del luogo. Dopo l’armistizio rimasero indisturbati fino al mese di ottobre, quando uomini della Banda Mario (una formazione partigiana capeggiata dall’antifascista italiano Mario Depangher, ma in gran parte composta da ex-prigionieri di guerra britannici, sovietici, polacchi e jugoslavi fuggiti l’8 settembre dai campi di prigionia dell’Italia centrale) assaltarono la villa per disarmarne le guardie ed impadronirsi di armi e munizioni. Mohamed Abbasimbo, Scifarrà Abbadicà, Abbagirù Abbanangì ed Addis Agà furono i primi ad unirsi ai partigiani. Da allora altri etiopi e somali li seguirono alla spicciolata. Quando il 1 luglio 1944 la Banda Mario liberò San Severino Marche anticipando di poche ore l’entrata in città delle truppe polacche del generale Anders si conteranno nelle sue file almeno 15 africani, tra cui due donne. Prima di allora, in due distinti scontri a fuoco con i poliziotti altoatesini del Btg. Polizei-SS Bozen – proprio quelli dell’attentato dinamitardo di via Rasella – erano caduti in combattimento Abbabulgù Abbamagal (soprannominato Carletto) e Mohamed Raghé. Donne sole, famiglie con bambini ed individui restii ad affrontare i rischi della guerra partigiana rimasero a Villa Spada sotto la protezione della P.A.I. fino all’arrivo a Treia delle truppe angloamericane. Alla fine tutti furono riportati a Napoli e rimpatriarono al termine del conflitto. Fra i sudditi coloniali che dopo aver partecipato come comparse alle riprese del film Harlem si trovarono a diventare inaspettatamente partigiani, quello che nel suo paese assurse al rango più alto fu senza dubbio il somalo Aden Scirè (Aaden Shire Jaamac). Con la proclamazione dell’indipendenza della Repubblica Somala nel 1960 divenne un importante uomo politico e per alcuni anni fu Ministro degli affari religiosi e della giustizia. Cadde in disgrazia e fu emarginato dopo il colpo di stato militare perpetrato nel 1969 da Mohamed Siad Barre.
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    I prigionieri di guerra sudafricani: Finite le riprese del film Harlem i prigionieri sudafricani del campo 122 rimasero in attesa di ulteriore impiego come comparse. L’8 settembre 1943 nel caos seguito all’armistizio un gran numero di soldati alleati riuscì ad evadere dai campi di prigionia italiani – spesso liberati dagli stessi carcerieri – dandosi alla macchia in massa. Ciò non avvenne per i docili P.O.W. di etnia Zulu, dato che non potevano certo mescolarsi facilmente con la popolazione locale passando inosservati e il loro luogo di detenzione sulla via Tuscolana non era situato in aperta campagna, ma alla estrema periferia di una grande metropoli. Una volta occupata Roma, i tedeschi presero subito il controllo del campo 122 e iniziarono la sistematica spoliazione di Cinecittà, del Centro Sperimentale di Cinematografia e dell’Istituto L.U.C.E. asportando e spedendo in Germania non solo preziosi macchinari, materiale tecnico e mobilia, ma persino lampadine, rubinetti e serrature. I neri sudafricani furono utilizzati come come manovalanza e in seguito spostati più al nord (ma per loro fortuna non nel Reich) dove furono costretti a scavare trincee e fortificazioni per la Organizzazione Todt. L’agente dell’O.S.S. Peter Tompkins, paracadutato a Roma dagli americani nell’inverno 1943, grazie alla rete partigiana del tenente Maurizio Giglio si arruolò sotto falso nome come agente ausiliario della P.A.I. frequentandone per un certo periodo l’accantonamento al Foro Mussolini. Qui rimase sbalordito, imbattendosi per caso in un prigioniero di guerra sudafricano di nome Joe. L’uomo era fuggito a suo tempo dal campo 122, ma poco dopo era stato arrestato da una pattuglia. Gli uomini della P.A.I. avevano presto scoperto la sua abilità col pallone e si erano ben guardati dal riconsegnarlo ai tedeschi. Infatti in Sudafrica anche l’attività sportiva era strettamente segregata su basi etniche, in quanto lo sport nazionale dei bianchi era il rugby, mentre i neri eccellevano nel calcio. E in quel periodo i vertici della P.A.I. cercando di mantenere buoni rapporti con gli occupanti, avevano organizzato sui campi del Foro Mussolini un torneo propagandistico con partite amichevoli tra la propria squadra di calcio e le rappresentanze delle varie divisioni della Wehrmacht operanti nei dintorni di Roma.Viste le potenzialità calcistiche del povero Joe, gli italiani non fecero altro che promuoverlo su due piedi da prigioniero di guerra ad agente, vestendolo da ascaro e trattandolo con ogni riguardo pur di convincerlo a giocare nella loro compagine. Non sappiamo che fine abbia fatto, probabilmente dopo la liberazione di Roma fu riconsegnato incolume alle truppe alleate. Senza lieto fine fu invece la vicenda sportiva del prigioniero di guerra sudafricano Kay Mayake. Nato a Barberton, 360 km ad est di Johannesburg, durante la detenzione al campo 122 partecipò ad Harlem interpretando un pugile afroamericano e interagendo in una breve scena col personaggio dell’allenatore Frankie Battaglia, interpretato da Erminio Spalla. Nella primavera del 1944, Mayake fu costretto ad incrociare i guantoni con Primo Carnera in un incontro propagandistico organizzato dal cinegiornale Luce e secondo copione avrebbe dovuto soccombere sotto i colpi dell’ex- campione dei pesi massimi. Inaspettatamente però mise K.O. l’avversario italiano e per ritorsione fu deportato dai nazisti in un campo di sterminio in Germania, dove nell’inverno 1944/45 si persero definitivamente le sue tracce.
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    Pilade Levi: Congedatosi dall’esercito americano, nel secondo dopoguerra il giovane cineasta ebreo fu nominato responsabile della filiale italiana della Paramount Pictures, assumendo un ruolo di primo piano nell’ambiente cinematografico nazionale ed internazionale nel periodo della “Hollywood sul Tevere”.
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    Cinecittà: Prima occupata e saccheggiata dalle truppe tedesche, poi gravemente danneggiata dalle incursioni aeree americane, Cinecittà divenne nell’immediato dopoguerra un enorme campo profughi gestito inizialmente dall’A.M.G.O.T. e poi dall’U.N.R.R.A. in cui si avvicendarono sfollati provenienti dai Castelli Romani, apolidi, profughi di guerra, ex-deportati provenienti da varie nazioni europee ed italiani rimpatriati dalle ex-colonie. Migliaia di persone si avvicendarono nel corso degli anni in precarie condizioni all’interno delle strutture rimaste in piedi. Teatri di posa, magazzini, uffici amministrativi, persino la sede del dopolavoro cinematografico ed i finti palazzi costruiti come parte dalla scenografia del film Bengasi nel 1942, furono trasformati in dormitori. Nonostante gli occupanti americani ostentassero disinteresse se non aperta ostilità verso la rinascita di una cinematografia italiana indipendente da Hollywood (9) essa poté avere luogo solo a partire dal 1947, in virtù del mutato contesto geopolitico internazionale e della incipiente guerra fredda, ma anche grazie agli sforzi del giovane ed astuto Giulio Andreotti, allora Sottosegretario allo Spettacolo nel primo governo De Gasperi. Il nostro paese era obbligato dal trattato di pace di Parigi a rimborsare alle maggiori case di produzione statunitensi i loro cospicui fondi, requisiti e incamerati dopo la dichiarazione di guerra dell’Italia agli Stati Uniti nel 1941. Tale somma che ammontava a numerosi milioni di $ dell’epoca, fu effettivamente restituita ai legittimi proprietari e depositata in banche italiane. Ma il futuro senatore a vita (che nel 1939 da giovane universitario aveva visitato Cinecittà con il G.U.F. fascista partecipando anche al film L’assedio dell’Alcazar come comparsa) ebbe l’accortezza di impedirne il trasferimento all’estero, vincolandone l’utilizzo esclusivamente alla realizzazione di film sul territorio nazionale. Ciò spinse i cineasti statunitensi ad impiegare – dapprima quasi di malavoglia – le strutture superstiti della mussoliniana Città del Cinema, per girarvi pellicole americane a basso costo, destinate a mercati considerati marginali e sottosviluppati. Avendo però quasi subito riscontrato favorevoli condizioni di lavoro (grazie all’alta professionalità delle maestranze nostrane e ai costi di realizzazione estremamente bassi), gli americani una volta rassicurati dalla definitiva scelta anti-comunista e filo-atlantista della Democrazia Cristiana in seguito alla vittoria elettorale del 18 aprile 1948, iniziarono a realizzare a Roma pellicole “kolossal” a sfondo storico-mitologico o pseudo-biblico, dirette da registi di grido e interpretate da stelle di rilevanza mondiale. Ciò ebbe come conseguenza non solo la creazione di quell’ambiente cinematografico cosmopolita comunemente noto negli anni ’50 e ’60 come la “Hollywood sul Tevere” ma anche il completo recupero di tutti i teatri di posa al loro uso originario e quindi il ritorno di Cinecittà alla piena operatività prebellica.

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    HARLEM E’MORTO? LUNGA VITA A KNOCK-OUT!
    Trasformato dai numerosi tagli imposti dagli occupanti anglo-americani in un innocuo ed “apolitico” film sportivo, Harlem venne rimesso in circolazione col nuovo titolo Knock-Out! ottenendo il visto censura governativo il 4 dicembre 1946, purché le copie autorizzate circolassero esclusivamente nel circuito delle sale di seconda visione del centro-sud, con esclusione di Roma, Napoli, Firenze, nonché di tutta l’Italia settentrionale. Ovvero si voleva evitare che la pellicola fosse proiettata nelle zone maggiormente interessate dalla guerra civile, provocando incidenti a sfondo politico, in quanto seppure sforbiciati e eliminati dai titoli di testa e dalle locandine, vi apparivano i defunti Ovaldo Valenti e Luisa Ferida. I timori delle autorità si rivelarono fondati, in quanto il 5 luglio 1947 un gruppo di ex-partigiani comunisti assaltò a mano armata il cinema Ariosto di Reggio Emilia dove si proiettava Knock-Out! e fattisi consegnare dal proiezionista i rulli con la pellicola, li bruciarono pubblicamente nella vicina via Cairoli. Le successive indagini contro ignoti non consentirono di identificare i responsabili del gesto. Considerazioni politiche spinsero a ritenere più opportuna la commercializzazione all’estero, visto che tra i nostri emigranti erano ancora numerosi gli ammiratori di Amedeo Nazzari. Quindi Knock-Out! venne esportato in Francia nel 1948, in Spagna e in Germania Est nel 1950, in Argentina e Brasile nel 1952. Negli anni ’80 fu ripetutamente mandato in onda dalla RAI-TV insieme ad altri vecchi film acquisiti dal catalogo della Cines. Alla metà degli anni ’90 fu commercializzato nelle edicole in VHS ed oggi è ancora reperibile in DVD. Invece del film Harlem – in versione originaria non censurata – è sopravvissuta esclusivamente una copia 35 mm in pellicola nitrato, preservata in buone condizioni alla Cineteca Nazionale e proiettata in pubblico per la prima volta il 22 maggio 2018 durante un convegno, dopo quasi 75 anni di totale oblio.

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    CONSIDERAZIONI FINALI
    Nei sogni ambiziosi di Luigi Freddi, Harlem avrebbe dovuto essere una opera artistica a tutto tondo, in grado altresì di rappresentare l’apice ideologico/razziale della cinematografia fascista, eclissando tutti i film di propaganda realizzati in Italia sia prima che durante la guerra. Ma la lunga gestazione della pellicola, il vertiginoso aumento dei costi e l’andamento sempre più catastrofico del conflitto lo trasformarono, malgrado tutti gli sforzi, in un autentico – seppur grandioso – canto del cigno. Infatti questo kolossal fu l’ultimo film propagandistico effettivamente giunto in sala prima del crollo del regime fascista. Altri titoli solo previsti o già in lavorazione furono cancellati in seguito alle sconfitte militari (10). Dal maggio 1943 con la perdita delle residue posizioni dell’Asse in Tunisia e l’inizio della devastante campagna di bombardamento contro le città italiane da parte dei quadrimotori americani, l’ideologia fascista scomparve progressivamente dal grande schermo, parallelamente al liquefarsi del residuo sostegno popolare al regime. Da allora fino all’armistizio gli spettatori italiani scelsero di sfuggire alla incombente tragica realtà assistendo preferibilmente a pellicole disimpegnate, sia che si trattasse di commedie come Campo de’Fiori o drammi come Ossessione. E non è certo un caso che l’uno e l’altro furono girati quasi del tutto in esterni e sono oggi considerati fra i primi precursori dell’ondata neorealista postbellica destinata ad influire profondamente sul cinema mondiale.


    NOTE:
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    (1) Il personaggio di Aquila Nera, interpretato nel film Harlem da un suddito coloniale non bene identificato, era apertamente ispirato alla figura del pilota afroamericano John C. Robinson (1906-1954) che si offrì come istruttore di volo all’esercito abissino suscitando le ironie della stampa italiana nel 1935. I media americani di orientamento antifascista all’epoca lo soprannominarono “Brown Condor” esaltandolo enfaticamente come il primo aviatore di colore al mondo. Ciò non era vero neanche per gli Stati Uniti, dove peraltro una rigida separazione razziale tra bianchi e neri rimase in vigore nella società civile e nelle forze armate fino agli anni sessanta del ventesimo secolo. Il primo pilota militare di colore al mondo fu l’italo-eritreo Domenico Mondelli (1886-1974) che ottenne il brevetto già nel 1914, seguito nel corso della 1^ g.m. dal turco-nigeriano Ahmet Ali Celikten (1883-1969) , dall’anglo-giamaicano William Robinson Clarke (1895-1981), dal franco-martinicano Pierre Réjon (1895-1920) e dall’afro-americano Eugene Jacques Bullard (1894-1961).



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    (2) Nel 1944 il militante comunista Sergio Amidei ospitò le riunioni dei maggiori dirigenti del P.C.I. clandestino a Roma, tra cui Negarville, Amendola, Alicata, Pellegrini e Ingrao nella sua abitazione, un appartamentino subaffittato dalla pensione Ricceri, al civico 51 di piazza di Spagna. Nel 1945, lavorando alla sceneggiatura del film-icona del neorealismo italiano, per maggiore verosimiglianza inserì in Roma città aperta riferimenti ad eventi autentici della resistenza romana. Guarda caso la pellicola di Roberto Rossellini si apre proprio con la scena dell’improvviso arrivo delle SS, la perquisizione dell’appartamento all’ultimo piano del civico 51 e la rocambolesca fuga del partigiano Manfredi sui tetti di fronte a Trinità dei Monti, per scavalcare il muro della sede diplomatica spagnola e rifugiarsi in territorio neutrale. Tali eventi erano realmente accaduti proprio all’Amidei nel periodo dell’occupazione nazista di Roma.




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    (3) L’esclusivo Hotel Commodore di New York era ubicato in piena Manhattan. Dopo molte vicissitudini e un lunghissimo periodo di declino, negli anni ottanta del ventesimo secolo fu acquistato per una frazione infinitesimale del suo valore e completamente ristrutturato dal tycoon statunitense Donald Trump. Ancora oggi è in attività col nuovo nome di Grand Hyatt.


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    (4) Film girati nel periodo 1940/43 con sudditi coloniali come comparse:

    La figlia del Corsaro Verde
    di Enrico Guazzoni
    Passione africana di Gennaro Righelli
    Giarabub di Gofferdo Alessandrini
    Bengasi di Augusto Genina
    Giungla di Nunzio Malasomma
    Germanin di Hans W. Kimmich
    Harlem di Carmine Gallone
    Due cuori tra le belve di Giorgio Simonelli


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    (5) Utilizzate dalla Organizzazione Todt come manodopera salariata in vari cantieri militari sulla costa atlantica nell’ambito della costruzione del cosiddetto “Vallo Atlantico”, queste ex- truppe coloniali francesi vennero spesso a contatto con i sommergibilisti e i soldati italiani di stanza a Betasom, apprezzandone l’umanità. Dopo l’armistizio alcuni neri e maghrebini si presentarono volontari a Bordeaux, venendo arruolati in parte nella Divisione Atlantica della R.S.I. stanziata a difesa di isolotti e installazioni portuali sulla costa francese. Pochi altri si aggregarono ai Volontari di Francia, un nucleo armato di giovanissimi volontari italiani (in gran parte figli di emigrati antifascisti) nato spontaneamente a Parigi dopo l’8 settembre, che dopo un breve addestramento a Bordeaux confluì nella X^ M.A.S. e rientrò in Italia.



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    (6) L’accordo italo-tedesco del maggio 1942 che permise lo sfruttamento dei P.O.W. di colore come comparse a Cinecittà, ebbe probabilmente come effetto collaterale quello di aver salvato la vita ai suddetti prigionieri di guerra sudafricani, garantendo loro un trattamento umano secondo le convenzioni internazionali da parte del nostro Regio Esercito. E’ noto infatti che tutti gli individui ritenuti dall’ideologia nazista come appartenenti a razze inferiori (ebrei, zingari, meticci, truppe coloniali francesi), che furono usati forzatamente nel corso del conflitto come comparse in film e documentari di propaganda girati nel Reich o nei territori occupati dalla U.F.A. di Goebbels andarono incontro a una sorte ben peggiore. Divenuti inutili al termine delle riprese, furono rapidamente avviati ai campi di sterminio e soppressi, affinché nessuno di essi sopravvivesse alla guerra.



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    (7) Film realizzati in territorio della R.S.I. nel periodo 1943/45:

    Aeroporto
    di Pietro Costa
    Ogni giorno è domenica di Mario Baffico
    Trent’anni di servizio di Alessandro De Stefani
    La buona fortuna di Alessandro Cerchio
    Peccatori di Flavio Calzavara
    Il fiore sotto gli occhi di Guido Brignone
    Fatto di cronaca di Piero Ballerini
    L’angolo di mondo di Piero Ballerini
    Senza famiglia di Giorgio Ferroni
    Ritorno al nido di Giorgio Ferroni
    Rosalba di Ferruccio Cerio
    Fiori d’arancio di Dino Hobbes Cecchini
    L’ultimo sogno di Marcello Albani
    I figli della laguna di Francesco De Robertis

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    ( Il promettente attore trevigiano Elio Marcuzzo, militante antifascista ed omosessuale dichiarato, dopo aver interpretato l’ambiguo ruolo dello spagnolo nel film Ossessione di Luchino Visconti, nel 1942/43 girò altri film, alcuni dei quali a Parigi in coproduzione con la casa di produzione tedesca U.F.A. grazie alla sua perfetta conoscenza delle lingue. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 non aderì alla rinata cinematografia della R.S.I. operante a Venezia, ma preferì raggiungere la famiglia sfollata da Treviso a Cavrié. Pur facendo vita ritirata, durante la guerra civile simpatizzò per i partigiani (e secondo alcuni li finanziò). Tre mesi dopo la liberazione un gruppo di individui già facenti parte delle Brigate Garibaldi – travestiti da militi nel maldestro tentativo di attribuire il loro crimine a inesistenti sbandati fascisti – prelevò sotto la minaccia delle armi Elio e il fratello Armando dalla loro abitazione. Portati in camion alla cartiera di Mignagola, nei pressi di Breda di Piave, i due vennero torturati a lungo, impiccati e, come stabilito dall’autopsia, sepolti vivi il 28 luglio 1945. Quando poco dopo i fatti divenne evidente che gli assassini dei Marcuzzo erano partigiani comunisti essi diffusero ad arte notizie false. Sostennero che l’attore sarebbe stato legittimamente “giustiziato” in quanto collaborazionista, colpevole di aver effettuato traduzioni dall’inglese e dal tedesco per conto del segretario comunale repubblichino di Treviso, di essere stato un confidente del locale comando militare germanico, di non aver impedito alla sorella Rina di fidanzarsi con un sottufficiale della Guardia Nazionale Repubblicana. In realtà il capo partigiano Gino Simionato ed i suoi uomini miravano ad impadronirsi della ingente somma di denaro in contanti che Elio custodiva in casa, diffidando delle banche. Arrestati e processati all’inizio degli anni ’50 i colpevoli vennero prosciolti in quanto il reato ricadde nell’amnistia Togliatti. A differenza di altri omicidi commessi da partigiani comunisti nell’immediato dopoguerra ai danni di forze dell’ordine, possidenti e sacerdoti nell’ambito della prevista “seconda ondata” rivoluzionaria destinata a instaurare in Italia una dittatura di stampo sovietico, il caso Marcuzzo imbarazzò molto i vertici del P.C.I. in quanto l’attore era notoriamente un loro simpatizzante. E inoltre era legato fin dalla metà degli anni trenta ad un gruppo di giovani cineasti e intellettuali al vertice della rete clandestina del partito a Roma, primo fra tutti Pietro Ingrao. Di conseguenza l’onnipotente partitone togliattiano operò con successo una abile falsificazione della storia, facendo cadere l’oblio sulla figura dell’incolpevole Elio o (quando era proprio indispensabile parlarne) facendolo passare non senza reticenze per vittima dei nazifascisti, alterandone perfino la data di morte. La sorella Rina visse per decenni a Treviso sotto una cappa di silenzio, atterrita dalle minacce di terribili ritorsioni. Ancora nei primi anni del duemila, una enciclopedia mondiale degli attori redatta in lingua inglese e consultabile in rete riportava la vulgata menzognera diffusa decenni prima dai comunisti, definendo Elio Marcuzzo come «Italian actor killed by fascists». La verità sull’eccidio di Elio e del fratello Arnaldo venne ristabilita, non senza contrasti, solo grazie al giornalista e scrittore Giampaolo Pansa, che ne rievocò la tragica sorte in alcuni dei suoi libri revisionisti.




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    (9) L’ammiraglio Ellery W. Stone, capo del governo militare di occupazione alleato (A.M.G.O.T.) dal 1943 al 1947, pronunziò poco dopo la liberazione di Roma un duro discorso dinanzi ad una delegazione di produttori, registi e attori italiani, dichiarando apertamente la volontà americana di non permettere la rinascita postbellica del nostro cinema, colpevole di essere stato uno strumento di propaganda fascista. Oltretutto, secondo l’alto ufficiale statunitense l’Italia sconfitta sarebbe stata in futuro ridotta al ruolo di paese esclusivamente agricolo, dunque non avrebbe avuto bisogno di una propria industria cinematografica indipendente, dovendosi limitare ad importare pellicole hollywoodiane per il proprio mercato interno. Nessuno dei cineasti presenti si permise di controbattere le affermazioni dell’onnipotente personaggio, che peraltro rientravano pienamente nella strategia imperialista concepita nel secondo dopoguerra dagli Stati Uniti e mirante al completo asservimento politico, economico e militare del nostro paese.


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    (10) Film italiani interrotti per cause belliche fino all’8 settembre 1943:

    Passione africana
    (Interrotto alla metà del 1941 per la perdita dell’A.O.I. e mai terminato)
    I quattro di Bir El Gobi (Interrotto alla fine 1942 per la perdita della Libia e mai terminato)
    La carica degli eroi (Interrotto alla fine 1942 per la perdita della Libia e mai terminato)
    I cavalieri del deserto (Interrotto alla fine del 1942 per la perdita della Libia e mai terminato)
    Fucilato all’alba (Interrotto alla fine del 1942 per la perdita della Libia e mai terminato)
    Piazza San Sepolcro (Interrotto nel luglio 1943 per la caduta del regime fascista e completato affrettatamente nei 45 giorni di Badoglio. Bloccato dall’armistizio tra Italia e Alleati e mai più pubblicato nel dopoguerra)
    Scalo merci (Iniziato allo scalo ferroviario romano di San Lorenzo si spostò in Abruzzo dopo il bombardamento americano del 19 luglio 1943. Bloccato dall’armistizio tra Italia e Alleati fu realizzato ex-novo nel dopoguerra con titolo e sceneggiatura diversi)
    L’invasore (Interrotto per l’armistizio tra Italia e Alleati. Venne completato nel dopoguerra inserendovi scene di massa tratte da una pellicola tedesca del 1944)
    _______
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  9. #9
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