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Discussione: Nisei, Issei, Kibei ed Hibakusha sui due lati del Pacifico nel 1941-1945

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    Nisei, Issei, Kibei ed Hibakusha sui due lati del Pacifico nel 1941-1945

    Una tigre non cambia le sue strisce.

    Iva Ikuko Toguri D’Aquino


    Nell’estate del 1941 un sondaggio di opinione commissionato dal governo all’agenzia Gallup mostrò che la maggioranza degli americani riteneva che in un prossimo futuro gli Stati Uniti avrebbero finito inevitabilmente con l’essere coinvolti nel conflitto europeo scatenato da Hitler. Un numero di poco inferiore di cittadini statunitensi interpellati fu addirittura d’accordo che fosse più importante fermare i nazisti che restare neutrali. Il Giappone però non venne affatto menzionato. A quell’epoca l’opinione pubblica a stelle e strisce non considerava ancora i giapponesi un possibile pericolo per la pace ed era convinta che grazie al rigido embargo petrolifero in atto fin dall’anno prima si sarebbero piegati docilmente, accettando le dure condizioni imposte dal presidente Roosevelt. Probabilmente a consolidare tale atteggiamento fu il fatto che agli occhi dell’americano medio (bianco, anglosassone e protestante) quello giapponese era un popolo “colored” considerato inferiore e assimilato agli afroamericani. Non stupisce perciò il fatto che subito dopo l’attacco giapponese contro Pearl Harbor del 7 dicembre 1941, in tutti gli Stati Uniti divampò un furioso odio razziale contro i giapponesi. Nonostante le autorità avessero provveduto celermente ad arrestare e sorvegliare tutti i sudditi del Sol Levante in quanto civili nemici in attesa di rinchiuderli in campi di concentramento, in breve la frustrazione degli americani bianchi sfociò in devastazioni, stupri e aggressioni anche ai danni di cittadini americani di origine nipponica. Tali violenze furono apertamente tollerate e spesso lodate come azioni patriottiche. Vi furono perfino quotidiani della costa occidentale che pubblicarono vignette per aiutare i propri lettori bianchi a distinguere la differenza tra i volti “tondeggianti e amichevoli” dei cinesi e quelli “insettoidi e malvagi” dei giapponesi, tanto per non linciare gli asiatici sbagliati. Col pretesto di tutelare gli innocenti Nisei dalle violenze di piazza, Roosevelt si avvalse dei poteri speciali conferitigli come comandante in capo delle truppe in guerra, per trasferirli in appositi centri di ricollocamento dove teoricamente sarebbero stato possibile proteggerli meglio. In realtà il vero obiettivo era allontanare tutti gli individui di origine nipponica dalle città costiere per evitare l’attività di una presunta quinta colonna nel caso le truppe imperiali fossero sbarcate in forze sul territorio americano. Nonostante tale misura evidentemente paranoica e anticostituzionale avesse suscitato lo sdegno di autorevoli personalità tra cui la stessa First Lady americana, Eleanor Roosevelt, venne implementata nei primi mesi del 1942. Oltre 120.000 Nisei furono espropriati dei loro beni e deportati manu militari nei dieci campi di concentramento fatti costruire in tutta fretta nelle località più inospitali e solitarie del paese dal generale statunitense Leslie R. Groves (già responsabile della costruzione del Pentagono e futuro capo del Progetto Manhattan). Uomini, donne, bambini e anziani, interi nuclei familiari di leali cittadini americani, già terrorizzati dalla caccia al giapponese apertasi contro di loro nelle città e nelle campagne, subirono il trauma ulteriore di venire rinchiusi dietro il filo spinato fino alla fine del 1945. Solo perché i loro compatrioti bianchi li consideravano politicamente infidi e razzialmente inferiori. Molti morirono nei primi mesi di detenzione, per mancanza di cibo, di cure mediche o per il clima rigido. Quando ai giovani nippoamericani fu finalmente consentito di uscire dai campi per provare la loro lealtà arruolandosi nella prima unità dell’esercito totalmente composta da Nisei, i loro familiari ancora in prigionia furono di fatto considerati ostaggi del governo. I soldati del 442nd che operò in Francia e in Italia, furono di fatto obbligati ad un eroismo quasi suicida, combattendo contro l’Asse per conto di un paese che li odiava e li discriminava. Altri seimila Nisei addestrati come traduttori tra il 1944 e il 1946, furono inviati in Giappone dopo la resa e prestarono servizio come interpreti nel governo militare di occupazione capeggiato dal generale Douglas MacArthur.

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    Ma è meno noto che altri Nisei in età militare nel 1941 si trovavano in numero non trascurabile in territorio giapponese, vennero sorpresi dallo scoppio delle ostilità e furono costretti a combattere nelle file dell’esercito imperiale (IJA). Nel corso del conflitto non venne mai data pubblicità alla presenza più o meno forzata di cittadini americani di origine nipponica nelle file delle FF.AA. nipponiche. Comprensibilmente nessuno dei due belligeranti aveva interesse ad evidenziare legami stretti con il rispettivo nemico. Eventuali ritrovamenti di documenti di identità statunitensi indosso a cadaveri di soldati giapponesi uccisi in combattimento furono passati sotto silenzio dal controspionaggio militare americano, sia per evitare polemiche politiche che per prevenire ulteriori esplosioni di violenza razziale contro i nippoamericani residenti in patria. E quei pochi Nisei che riuscirono a darsi prigionieri ai Marines parlando inglese temevano di venire fucilati per alto tradimento o di subire le vendette dei giapponesi purosangue rinchiusi con loro nei campi di prigionia, perciò generalmente si fecero riconoscere per cittadini americani solo dopo la fine del conflitto e le loro vicende non giunsero mai alle orecchie dei media e della pubblica opinione. Oltre che nella 109ª Divisione di Fanteria “Coraggio” che difese accanitamente Iwo Jima, la presenza di piccoli gruppi di Nisei in uniforme nipponica fu accertata sporadicamente in pressoché tutti i territori asiatici dove combatté lo IJA, ma senza attirare all’epoca particolare attenzione. Vi fu però almeno un episodio talmente clamoroso da filtrare attraverso le maglie della censura militare e da essere riportato – seppure a titolo di mera curiosità – negli annali dell’ufficio storico dell’esercito americano. Tra il 29 febbraio e il 15 marzo del 1944, allo scopo di neutralizzare le basi nipponiche di Rabaul e Kavieng nell’Arcipelago di Bismarck, gli statunitensi effettuarono piccoli sbarchi diversivi nelle Isole dell’Ammiragliato, utilizzando alcune G.U. di cavalleria appiedata appositamente addestrate alle operazioni anfibie. Per eliminare aeroporti e installazioni giapponesi la 1st Cavalry Division al completo sbarcò sui tre isolotti di Manus, Los Negros e Hauwei, rinforzata da forti aliquote di cavalleggeri tratte dalla 7th, dalla 8th e dalla 12th. Nella notte del 2 marzo 1944 una colonna giapponese composta da alcune centinaia di uomini lanciò un attacco suicida contro il 4th Cavalry Regiment, che dopo il tramonto si era ben trincerato a difesa. A differenza dei soliti scomposti e velleitari attacchi “Banzai” ormai divenuti familiari ai militari americani, stavolta i fanti nipponici avanzarono ordinatamente allo scoperto come in parata, marciando verso il nemico con le baionette inastate. Cantavano a squarciagola la popolare canzone “Deep in the heart of Texas” (*) e furono facilmente annientati dal violento fuoco delle mitragliatrici pesanti appostate dai cavalleggeri statunitensi nella giungla che costeggiava la strada principale dell’isola. Questo episodio marginale rivela però la presenza fra i soldati del Tenno, se non di veri e propri Nisei con cittadinanza americana, almeno di Issei, cioè emigranti giapponesi che per aver vissuto a lungo negli Stati Uniti ne conoscevano perfettamente lingua, storia e folklore. Evidentemente essi sapevano bene di aver contro gli eredi diretti delle tradizioni militari della vecchia cavalleria nordista e nel tentativo di disorientarli decisero di cantare – in perfetto inglese – una popolare canzone texana. La canzone country “Deep in the heart of Texas” fu incisa per la prima volta negli studi di registrazione della Decca a Los Angeles il 9 dicembre 1941, su testo di June Hershey e musica di Don Swander. Divenne subito popolarissima e nel corso del 1942 ne vennero pubblicate almeno cinque versioni differenti cantate da vari artisti. In quello stesso anno fu per molte settimane al primo posto nella classifica delle vendite discografiche degli Stati Uniti, diede il titolo ad un film ambientato in Texas all’epoca della guerra civile americana ed in seguito fu inclusa nelle colonne sonore di numerose altre pellicole western. Divenuta col tempo un classico della musica country, nei decenni successivi venne eseguita da Perry Como, Bing Crosby, Gene Autry, Ray Charles, Duane Eddy, Hank Thompson, George Strait e molti altri cantanti. Considerata per molti versi una sorta di inno ufficioso dello stato della Stella Solitaria, la canzone è spesso eseguita da gruppi bandistici universitari del Texas e viene cantata dai tifosi prima delle partite di numerose squadre locali di football, baseball e soccer.
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    La vicenda dei Nisei che si erano trovati per caso o per scelta “dall’altra parte della barricata” durante il conflitto, restò comunque un argomento politicamente sensibile anche nel secondo dopoguerra, tanto che già alla fine del 1945 fu prontamente silenziata dalla amministrazione Truman. Il governo militare di occupazione guidato da Douglas MacArthur radunò senza clamore tutti i Nisei comunque presenti in Giappone ed indagò a lungo sulle loro eventuali responsabilità, persistendo nel pregiudizio razziale contro quei cittadini statunitensi dagli occhi a mandorla, considerati a priori come potenzialmente infidi. La gran parte di loro fu infine rimpatriata negli Stati Uniti (mediamente un paio di anni dopo la fine del conflitto), con l’obbligo di mantenere il segreto più assoluto sulle loro vicissitudini. Anche i media e l’opinione pubblica ignorarono totalmente il fenomeno, che però coinvolse molte centinaia, se non migliaia, di individui. L’unico riferimento esplicito ai nippoamericani arruolati forzatamente sotto bandiera giapponese lo ritroviamo accennato, seppure in chiave farsesca, nella trama del film “The Private Navy of Sgt. O’Farrell” una divertente commediola di ambiente militare girata nel 1968 dal regista statunitense Frank Tashlin. La pellicola ambientata nel Pacifico durante la seconda guerra mondiale, ha per protagonista Bob Hope ed è una evidente parodia della cinematografia di genere bellico in voga nei decenni precedenti. Vi si narra di una scalcagnata guarnigione della marina statunitense di presidio su un isolotto conquistato ai giapponesi. Lontani dalle vicende belliche gli indolenti marinai soffrono la mancanza di donne, così l’astuto sergente O’Farrell convince l’ufficiale medico a richiedere ai superiori l’invio urgente di personale ausiliario femminile, accampando inesistenti necessità sanitarie. Purtroppo dall’aereo non scendono le giovani e procaci infermiere sognate dagli allupati marinai, ma una matura zitella irrimediabilmente racchia (interpretata dalla surreale ed esilarante caratterista Phyllis Diller), offertasi volontaria con la speranza di accalappiare un marito sull’isola. A quel punto per resistere alla noia della vita di presidio e sfuggire alle maldestre avances della bruttona, resta solo l’alcool. Ma una nave Liberty carica di birra viene affondata da un sottomarino giapponese, lasciando la piccola guarnigione all’asciutto. Inoltratosi per caso nella giungla, O’Farrell si imbatte in un pacifico soldato giapponese (interpretato dall’attore Mako), rimasto imboscato dopo lo sbarco americano. Calvin Coolidge Ishamura è in realtà un leale cittadino americano di origine giapponese andato a trovare i parenti a Tokyo prima della guerra e costretto forzatamente ad arruolarsi nell’esercito imperiale, ma non ha mai sparato un colpo. I due si accordano per recuperare le casse di birra dalla nave affondata e costruiscono un rudimentale frigorifero nella giungla per tenere al fresco le lattine. Mentre O’Farrell le vende sottobanco agli assetati commilitoni, Ishamura si finge un bellicoso e sanguinario “ultimo giapponese” per impedire ai marinai di avventurarsi fuori dalla base e scoprire così il lucroso business degli improvvisati borsari neri. I due finiranno per diventare eroi, catturando involontariamente il sommergibile nemico con l’equipaggio al completo e rimorchiandolo in porto con la loro barchetta a remi. A titolo di curiosità si segnala la presenza nel cast del film di Jeffrey Hunter e – in due brevi flashback – di Mylène Demongeot e della nostra Gina Lollobrigida.

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    Dalla seconda metà del XIX° fino agli anni venti del XX° secolo, un vasto fenomeno migratorio aveva spinto un gran numero di giapponesi ad attraversare il Pacifico in cerca di fortuna, diretti principalmente verso le isole Hawaii e la costa occidentale degli Stati Uniti dove avrebbero trovato lavoro come manodopera a basso costo, ma anche in molti stati latinoamericani (basti pensare alle influenti comunità giapponesi presenti ancor oggi in Messico, Perù e Brasile). La crisi economica del 1929 portò dall’inizio degli anni trenta ad un opposto fenomeno di re-immigrazione verso il Giappone, soprattutto a causa delle politiche razziste di espulsione forzata dei lavoratori asiatici, adottate dal governo statunitense per sedare il crescente razzismo antigiapponese fra i disoccupati americani bianchi. Ma nonostante ciò, i legami familiari tra i giapponesi naturalizzati americani o cittadini di seconda generazione ed i loro parenti rimasti nel paese d’origine, si mantennero comunque ben saldi attraverso l’oceano. Nell’estate del 1941 il numero dei cittadini americani di origine giapponese (Nisei) che si trovavano in territorio nipponico per motivi di famiglia, di lavoro o di studio era molto più alto di quanto si pensi comunemente, sicuramente si trattava di parecchie migliaia di persone di ogni ceto ed età. Ma oltre ai Nisei propriamente detti, vi erano gli individui con doppia cittadinanza, i coniugi nipponici di cittadini americani, nonché i giapponesi tornati in patria dopo decenni di emigrazione oltreoceano (Issei), e moltissimi bambini e ragazzi minorenni in età scolastica (Kibei) affidati dai genitori americani ai parenti in Giappone, affinché ricevessero una educazione tradizionale nell’eccellente sistema scolastico del Sol Levante. Quindi per assurdo, da un lato vi erano sudditi nipponici nati e cresciuti in America che non parlavano neanche il giapponese, dall’altro vi erano cittadini americani nati e cresciuti nelle isole giapponesi che non avevano mai messo piede in quella che teoricamente era la loro patria. Oltre centomila persone sparse in modo pressoché uniforme in tutto il Giappone, ma concentrate maggiormente nelle prefetture di Hiroshima (tradizionale zona di emigrazione della manodopera giapponese verso gli Stati Uniti) e di Nagasaki (culla del cristianesimo nipponico fin dalla prima evangelizzazione dei nativi da parte dei missionari gesuiti). Visti con crescente sospetto dalle autorità per i loro contatti oltremare, dopo l’attacco a Pearl Harbor tutti costoro rimasero bloccati in territorio nipponico. Gli uomini in età militare furono costretti ad arruolarsi nell’esercito imperiale, tutti gli altri a partecipare in vari modi allo sforzo bellico fino al termine del conflitto. Nel 1945 nella sola città di Hiroshima oltre 11.000 individui nati alle Hawaii o negli Stati Uniti risultavano registrati all’ufficio anagrafe comunale come sudditi giapponesi stabilmente residenti.
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    Tra i moltissimi Nisei costretti dalle circostanze a rimanere in Giappone per tutta la durata della guerra la più famosa (o forse sarebbe meglio dire famigerata) fu senza dubbio Iva Ikuko Toguri D’Aquino, meglio nota con lo pseudonimo di Tokyo Rose. Infatti dal 1943 al 1945 fu la voce radiofonica più popolare nella trasmissione di propaganda disfattista in lingua inglese “The Zero Hour” messa in onda da Radio Tokyo e diretta ai combattenti americani nel Pacifico. Iva Toguri nacque nel 1916 a Los Angeles da genitori giapponesi. Suo padre Jun Toguri era emigrato negli Stati Uniti già nel 1899 mentre sua madre Fumi aveva raggiunto il marito solo nel 1913. Educata nella religione metodista, crebbe da americana e fece anche parte della organizzazione scoutistica denominata Girl Scouts of America. Nel 1939 si laureò in zoologia alla università californiana UCLA e successivamente lavorò come commessa nel negozio gestito dai genitori. Registrata all’anagrafe con doppia cittadinanza, alle elezioni presidenziali del 1940 votò per il candidato repubblicano Wendell Willkie. Nel luglio 1941 salpò in nave da San Pedro diretta in Giappone, per visitare un parente malato e forse per studiare medicina, grazie al fatto che le tasse universitarie erano notevolmente più basse nel Sol Levante. Non possedendo il passaporto statunitense, era partita con un certificato di identificazione temporaneo valido solo per il viaggio di andata. Durante il suo soggiorno a Tokyo inoltrò regolare richiesta al Viceconsole degli Stati Uniti per il rilascio di un passaporto che le permettesse di rientrare in patria. La sua pratica fu inoltrata al Dipartimento di Stato ma dopo l’attacco a Pearl Harbor tutto si bloccò e Iva fu costretta contro la sua volontà a rimanere in Giappone. All’inizio della guerra le autorità nipponiche le imposero di rinunciare alla cittadinanza statunitense, ma lei rifiutò ripetutamente di farlo. Di conseguenza venne considerata cittadina straniera di una nazione nemica, fu soggetta alla stretta sorveglianza della Kempeitai e non le venne concessa la tessera per i generi alimentari di prima necessità assegnata a tutti i cittadini giapponesi. Costretta a cercarsi un impiego per sopravvivere, trovò lavoro come dattilografa in una agenzia di stampa e successivamente passò a Radio Tokyo con la stessa mansione. Tra novembre 1943 ad agosto 1945 condusse 340 puntate di “The Zero Hour” una trasmissione di propaganda in lingua inglese, venendo spesso affiancata dal maggiore Charles Cousens, un prigioniero di guerra australiano che dopo esser stato catturato a Singapore, accettò di lavorare per i nipponici. Soprannominata Tokyo Rose dagli americani, lei stessa rivolgendosi agli ascoltatori si autodefiniva «la vostra più amichevole nemica». Iva Toguri eseguì in radio anche sketch comici e pezzi musicali, ma non prese mai parte a rassegne stampa in diretta e di solito nel suo programma parlava per circa venti minuti tra un disco e l’altro, incitando i soldati americani a disertare. Nonostante guadagnasse solo 150 yen al mese (circa 7 dollari dell’epoca), utilizzò parte del suo denaro per nutrire prigionieri di guerra alleati, comprando cibo al mercato nero. Il 19 aprile 1945 sposò il cittadino portoghese di origine nipponica Felipe D’Aquino, che come lei risiedeva in Giappone dallo scoppio del conflitto e la convinse a convertirsi al cattolicesimo. Il matrimonio religioso fu anche registrato presso la rappresentanza diplomatica portoghese a Tokyo, ma Iva rifiutò di rinunciare alla cittadinanza americana per prendere quella del marito. Dopo la resa giapponese due reporter americani (Harry T. Brundidge della rivista Cosmopolitan e Clark Lee dell’International News Service) le offrirono 2.000 dollari – equivalenti a un anno di un salario medio nel Giappone occupato – per una intervista in esclusiva. Trovandosi in precarie condizioni economiche, Iva Toguri accettò volentieri sperando di spiegare la sua vicenda, ma si trattava di una trappola dei servizi segreti americani. Il 5 settembre 1945 fu arrestata e rinchiusa nel carcere di Sugamo. Tuttavia dopo un anno di prigione, Douglas MacArthur e l’O.S.S. non riuscirono a trovare le prove che Iva avesse volontariamente collaborato con le potenze dell’Asse contro gli Stati Uniti rendendosi responsabile di tradimento, quindi la rimisero in libertà. Inoltre nel corso delle indagini, moltissimi prigionieri di guerra americani e australiani testimoniarono in suo favore, assicurando che non aveva commesso alcun illecito, anzi li aveva aiutati come poteva. Rimasta incinta del marito Felipe, chiese alle autorità di occupazione che suo figlio potesse nascere negli Stati Uniti, ma la richiesta non venne accolta. Il bambino nacque in Giappone, ma morì poco dopo la nascita. A quel punto i media americani iniziarono contro di lei una violenta aggressione mediatica additandola all’odio della nazione intera. Vi si distinse particolarmente il giornalista ebreo Walter Winchell. Costui era un mediocre ex- attore di vaudeville riciclatosi negli anni venti prima come cronista scandalistico di infimo livello e poi come controverso commentatore radiofonico. Negli anni trenta Winchell aveva montato campagne diffamatorie per conto di Roosevelt contro gli avversari politici del presidente e avrebbe fatto altrettanto negli anni cinquanta per conto del senatore McCarty contro i presunti simpatizzanti comunisti a Hollywood. Comunque nel settembre del 1948 Iva Toguri fu estradata da Tokyo a San Francisco e processata per alto tradimento. Il procedimento giudiziario a suo carico che iniziò il 5 luglio 1949 fu il più lungo e costoso processo mai celebrato fino ad allora in America, venendo a costare in totale più di mezzo milione di dollari dell’epoca (poco meno di 5 milioni di dollari attuali). L’accusa presentò ben 46 testimoni, tra cui due ex-supervisori della Toguri a Radio Tokyo, Kenkichi Oki e George Mitsushio. Il collegio difensivo dell’imputata, guidato da Wayne M. Collins, un celebre avvocato Nisei, sostenne invece che la donna aveva sottilmente sabotato lo sforzo bellico giapponese ed aiutato prigionieri di guerra nel corso del conflitto. Il 29 settembre 1949 venne condannata a dieci anni di reclusione da scontare nella prigione federale di Alderson (West Virginia), oltre a 10.000 dollari di multa. Rilasciata sulla parola nel 1956, Iva Toguri si trasferì a Chicago e lavorò come commessa in un negozio nel quartiere di Lake View, facendo il possibile per farsi dimenticare. Separata dal marito fin dal giorno della condanna, divorziò nel 1980 riprendendo il cognome da nubile. Nel 1976 il giornalista Ron Yates, che allora lavorava per il quotidiano Chicago Tribune, scoprì che Oki e Mitsushio, i due testimoni chiave dell’accusa nel processo contro di lei, erano stati costretti dall’F.B.I. a fare dichiarazioni mendaci sotto minaccia di arresto. Il conduttore televisivo Morley Safer riprese la notizia e la diffuse a livello nazionale, dando il via a una campagna per la completa riabilitazione della donna. Il presidente Gerald Ford concesse a Iva Toguri il perdono presidenziale nel 1977 permettendo alla ex- Tokyo Rose di riottenere la cittadinanza statunitense, della quale era stata privata dalla sentenza del 1949. Nel 2006, pochi mesi prima di morire in un ospedale di Chicago per cause naturali, venne insignita del premio Edward J. Herlihy dalla Associazione americana dei veterani della seconda guerra mondiale.
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    Per dare un’idea di quanto fosse massiccia la presenza nippoamericana sul territorio metropolitano giapponese durante il conflitto, basti pensare che nel relativamente ristretto novero degli Hibakusha (cioè i sopravvissuti alle due bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki), furono conteggiati nel 1945 più di tremila Nisei, cittadini americani a pieno titolo. Nel 2021 ne erano ancora in vita non meno di mille, ormai molto anziani. Ad essi le autorità degli Stati Uniti non hanno mai riconosciuto – e ancora oggi non riconoscono – alcun risarcimento ufficiale o sostegno sanitario per le gravi patologie dovute alle cause a lungo termine delle radiazioni atomiche (ustioni, cancro ai polmoni, alla tiroide e al seno, leucemia, ritardi mentali, malformazioni, aborti, ictus, disturbi da stress post-traumatico, diminuzione dell’aspettativa di vita). Radicalmente diverso fu invece il comportamento compassionevole del Giappone sconfitto, che appena riottenuta la piena sovranità nel 1952 garantì a tutti gli Hibakusha pensioni di guerra e assistenza sanitaria gratuita a vita, indipendentemente dalla loro nazionalità o dallo stato di residenza. Di fatto l’atteggiamento americano fu sempre di vero e proprio diniego e molti statunitensi bianchi ritenevano che le atomiche su Hiroshima e Nagasaki fossero semplicemente la meritata punizione per la guerra scatenata dal Giappone attaccando Pearl Harbor. A rendere più imbarazzante per i vari governi avvicendatisi a Washington durante la guerra fredda l’esistenza di Hibakusha americani, fu il fatto che essi dalla metà degli anni sessanta incominciarono a rompere il silenzio imposto alla fine della guerra dalle autorità militari come contropartita per il rimpatrio, organizzando riunioni nelle zone di San Francisco e Los Angeles. Nel 1971, per ottenere il riconoscimento dei loro diritti sull’onda delle proteste contro la guerra in Vietnam e l’imperialismo americano in Asia, diedero vita al C.A.B.S. (Committee of Atomic Bomb Survivors in the United States of America), che nella seconda metà degli anni settanta portò avanti senza successo due distinte proposte di legge, una presso il Parlamento statale della California ed una presso il Congresso federale, miranti a finanziare con fondi pubblici l’assistenza sanitaria gratuita dei Nisei sopravvissuti alla bomba. Entrambe le proposte non vennero ammesse alla discussione in aula, in quanto avrebbero potuto incriminare gli Stati Uniti, considerandoli colpevoli per le conseguenze di una propria “legittima” azione di guerra. Col passare del tempo il C.A.B.S. assunse una nuova denominazione (American Society of Hiroshima/Nagasaki A-Bomb Survivors) e nuove finalità. Oggi si occupa principalmente di offrire supporto logistico ai team di medici nipponici specializzati nella cura degli effetti delle radiazioni. Questi medici da decenni (ad intervalli regolari di circa due anni) vengono da Hiroshima a visitare in ambulatori privati di varie città americane gli ultimi superstiti, prelevando sangue, misurando parametri vitali, facendo radiografie e casomai intervenendo sugli effetti delle radiazioni, spesso aggravati dagli acciacchi della vecchiaia. Tutto ciò finanziato esclusivamente dal Giappone, tramite la branca estera del suo Ministero della salute, del lavoro e del welfare. Solo di recente le storie dei molti Hibakusha americani hanno raggiunto una qualche notorietà negli Stati Uniti e mi limito ad elencarne alcune, ma sono molte centinaia le testimonianze del genere ancora reperibili in rete, pubblicizzate dai pochi ancora viventi o dalle famiglie dei molti deceduti nel corso degli anni.

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    All’età di dieci anni Jack Daikiri, nato a Sacramento (California), fu portato dal padre ad Hiroshima per incontrare i nonni. A causa della guerra i due non poterono rimpatriare. Il piccolo Jack non sapeva parlare giapponese ed era visto con sospetto dagli uomini della Kempeitai. I vicini di casa lo insultavano chiamandolo “gaijin” un termine dispregiativo riferito agli stranieri occidentali. Nell’estate del 1942 tramite un telegramma della Croce Rossa Internazionale sua madre diede notizia della morte per fame di Kenji George, il fratello minore di Jack, in un campo di concentramento negli Stati Uniti. Fu uno shock per padre e figlio, che non avevano idea dell’ondata xenofoba scatenatasi contro i Nisei e pensavano che il resto della famiglia vivesse ancora tranquilla a Sacramento. Negli anni seguenti il padre fu costretto a rinunciare alla cittadinanza americana, arruolato a forza nell’esercito imperiale e morì in guerra, mentre Jack rimase a vivere con gli anziani nonni. Nel 1944 come tutti gli studenti giapponesi fu precettato per il servizio del lavoro obbligatorio e assegnato ad una fabbrica di autocarri alla periferia di Hiroshima. Il 6 agosto 1945, Jack si trovava nel cortile interno della fabbrica. Lui e gli altri operai rimasero sorpresi nel vedere tre quadrimotori americani B-29 sorvolare indisturbati la città senza che scattasse l’allarme aereo. L’esplosione atomica lo scaraventò a terra ed ebbe appena il tempo di coprire occhi e orecchie con le mani prima che tutte le finestre della fabbrica andassero in frantumi. Jack trovò rifugio in un bunker della contraerea sulle colline, da dove vide il fungo atomico allargarsi su Hiroshima, ma sopravvisse perché si trovava ad oltre 6 km dal punto d’impatto della bomba. Riuscì a rimpatriare negli Stati Uniti solo nel 1948, all’età di 17 anni.
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    Wataru Namba era un ragazzo americano di origine nipponica nato e cresciuto a Los Angeles (California), che nel 1941 si trasferì a vivere con i nonni e il fratello maggiore ad Hiroshima perché i suoi genitori volevano per lui una educazione tradizionale giapponese. In seguito allo scoppio del conflitto, i suoi genitori e i suoi fratelli minori rimasti in California furono tra i cittadini americani di origine giapponese deportati nei campi di concentramento. La sua famiglia fu rinchiusa fino alla fine del conflitto a Tule Lake, considerato il peggiore di tutti i dieci campi per Nisei fatti costruire da Roosevelt. Alle 8 del mattino del 6 agosto 1945, il diciottenne studente liceale Wataru si trovava nella sua classe di matematica quando venne sganciata la bomba atomica. Vi furono una luce accecante e un insopportabile calore e dopo il crollo della scuola, il giovane vide morire gran parte dei compagni di classe davanti ai suoi occhi. Istintivamente si mise a correre verso la casa dei nonni ma non riuscì più a ritrovarla, in quanto come gran parte degli edifici, era stata polverizzata insieme ai suoi abitanti. Continuò a correre per tutto il giorno dirigendosi verso la campagna, nel tentativo disperato di allontanarsi dalla città distrutta. Nei giorni successivi sviluppò sintomi della malattia da radiazioni, con emorragie e uno stato di estrema debilitazione che lo tenne allettato molte settimane, ma sopravvisse e in seguito poté rimpatriare negli Stati Uniti. Nel dopoguerra Wataru Namba fu estremamente riluttante a parlare della sua esperienza, doppiamente traumatica sia come Hibakusha sopravvissuto all’atomica, che come cittadino statunitense bombardato dal suo stesso governo e declassato a vittima collaterale dal fortissimo pregiudizio razziale antigiapponese. Solo nel 2021, non senza una profonda sofferenza emotiva, ha accettato di raccontare davanti alle telecamere la sua vicenda per un documentario realizzato da suo nipote, il noto cineasta nippoamericano Jared Namba.
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    James Shizuo Numata, nato nel 1918 a Devil’s Slide (Utah), era il primo figlio di Shuichi Numata e sua moglie Hamano, una coppia di braccianti agricoli emigrata da Hiroshima a inizio secolo. La grande crisi economica del 1929 gettò sul lastrico un gran numero di agricoltori americani e presto anche nelle campagne si diffuse un crescente sentimento di ostilità contro i giapponesi. Per sfuggire all’odio razziale tutta la famiglia Numata (composta dai genitori da James e dal fratellino George), rimpatriò in Giappone nel 1935, stabilendosi nella città di origine. Terminati gli studi di economia, James scelse di ritrasferirsi in America, intenzionato a lavorare presso un lontano parente che gli aveva offerto un posto nella sua azienda in California. A tale scopo si imbarcò sul piroscafo giapponese Tauta Maru II, arrivando a San Francisco nella primavera del 1941, ma non riuscì nel suo intento. Pochi mesi dopo, a causa della guerra, fu arrestato e internato nel campo di concentramento di Heart Mountain (Wyoming), dove rimase fino al 1945. Una volta rilasciato, come a molti altri gli fu impedito di stabilirsi sulla costa occidentale e venne trasferito con foglio di via a Chicago, dove passò il resto della vita facendo lavori subordinati, dato che il suo titolo di studio giapponese non era più riconosciuto dagli americani. A causa delle ristrettezze economiche, James non tornò mai in Giappone. Come del resto ai suoi cari non fu mai permesso di rientrare negli Stati Uniti. Molti membri della famiglia rimasti ad Hiroshima morirono il 6 agosto del 1945. Ma suo fratello minore George, laureatosi in medicina in Giappone durante la guerra, sopravvisse alla bomba atomica e nel dopoguerra fondò proprio ad Hiroshima l’Ospedale Pediatrico Numata.
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    La mattina del 6 agosto 1945 era eccezionalmente chiara e soleggiata ad Hiroshima. Howard Kakita, un bambino di solo sette anni, osservava affascinato le scie di condensazione lasciate nel cielo da un solitario B-29 in lento avvicinamento verso la città, stando in piedi sul tetto del bagno nella casa dei suoi nonni. Howard non avrebbe dovuto trovarsi sul tetto, così sua nonna gli gridò di scendere subito e correre al rifugio, dato che la sirena dell’allarme aereo aveva appena cominciato a suonare, seppure con un inspiegabile ritardo. Subito dopo avvenne l’esplosione. Il piccolo Howard non avrebbe mai dovuto trovarsi in Giappone, lui e il resto della famiglia Kakita erano tutti cittadini americani, Nisei nati e vissuti in California. Ma nell’estate 1941 suo padre e sua madre avevano ceduto alle insistenze dei nonni paterni residenti ad Hiroshima, portandovi lui e il fratello Kenny per una breve visita. Che a causa della guerra si prolungò per anni. Howard Kakita sopravvisse nell’immediato agli effetti della bomba atomica e ritornato a San Francisco con i genitori e il fratello alla fine della guerra, ebbe una vita relativamente normale. Studiò, si sposò, lavorò come ingegnere informatico nella Silicon Valley, divenne prima padre, poi nonno e giunse all’età della pensione. Ma fu ciclicamente affetto dalle conseguenze dell’esposizione alle radiazioni e, come tutti gli Hibakusha residenti in America, per curarsi poté contare solo sugli specialisti inviati periodicamente dal governo giapponese. Gli rimase sempre una profonda amarezza per l’ostinato diniego delle autorità statunitensi a riconoscere ufficialmente ai pochi Hibakusha nippoamericani rimasti in vita lo status di vittime di guerra.
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    In anni recenti il governo di Washington ha finalmente riconosciuto le sue responsabilità storiche nella deportazione illegale nei campi di concentramento degli oltre 120.000 Nisei residenti sulla costa occidentale degli Stati Uniti, avvenuta nel 1942 per ordine di Roosevelt. E si è scusato con i superstiti e i loro discendenti, aprendo le procedure per farli accedere a un risarcimento simbolico. Parallelamente ha esaltato (secondo alcuni oltremisura) il limitato contributo allo sforzo bellico fornito dai soldati americani di origine giapponese combattenti al fronte europeo e da quelli impiegati come interpreti, concedendo retroattivamente centinaia di decorazioni ai Nisei del 442nd Combat Team, facendone così il reparto più decorato in tutta la storia dell’U.S. Army. Ma finora si è sempre guardato bene dallo scusarsi ufficialmente per le migliaia di vittime nippoamericane provocate dalle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki nell’agosto 1945 o aiutare i poco meno di mille Hibakusha americani ancora viventi, suoi leali cittadini ormai giunti alle soglie dei novant’anni. Cioè no, a pensarci bene, circa un mese dopo la fine della guerra gli alti gradi del Pentagono espressero pubblicamente – anche attraverso i media – il loro rincrescimento alle famiglie di ben dodici cittadini statunitensi, uccisi ad Hiroshima dall’esplosione atomica. E le risarcirono immediatamente elargendo forti somme di denaro, in quanto involontarie vittime collaterali decedute in conseguenza di una legittima azione di guerra. Quei dodici morti erano però piloti dell’U.S.A.A.C. – l’aviazione militare americana – abbattuti dai nipponici negli ultimi giorni di guerra e tenuti prigionieri in città. E naturalmente erano tutti bianchi, mica degli insignificanti “musi gialli”. Il che è comprensibile se si pensa che in quel settembre del 1945, nella nazione che da sempre si autodefinisce il paese della libertà, vigeva una rigida segregazione razziale destinata a durare ancora altri vent’anni.
    ___

    Nell’agosto del 1946, in occasione del primo anniversario della bomba, un noto giornalista ed ex- corrispondente di guerra statunitense di nome John Hershey intervistò Mrs. Nakamura, una Hibakusha già residente ad Hiroshima. Le chiese quali sentimenti provasse riguardo a ciò che i suoi compatrioti americani avevano fatto a lei e alla città. La composta e dignitosa risposta della donna fu “Shigata na gai”. Si tratta di una espressione gergale di uso comune nella lingua giapponese, assimilabile alla parola russa “Nicevò” ed avente lo stesso significato, che esprime allo stesso tempo rassegnazione e rincrescimento: «E’andata così e non ci si può fare più niente, vabbè, davvero un peccato».



    ___
    (*) Deep in the heart of Texas

    The stars at night
    Are big and bright
    Deep in the heart of Texas

    The prairie sky
    Is wide and high
    Deep in the heart of Texas

    The coyotes wail
    Along the trail
    Deep in the heart of Texas


    The rabbits rush
    Around the brush
    Deep in the heart of Texas

    The chicken hocks
    Are full of squawks
    Deep in the heart of Texas

    The oil wells
    Are full of smells
    Deep in the heart of Texas

    The cactus plants
    Are tough on pants
    Deep in the heart of Texas

    That’s why perhaps
    They all wear chaps
    Deep in the heart of Texas

    The cowboys cry
    “Ka-yippie aye!” (Woo-hoo!)
    Deep in the heart of Texas

    The doggies bawl
    And say “you all”
    Deep in the heart of Texas

    The cactus plants
    Are tough on pants
    Deep in the heart of Texas

    That’s why perhaps
    They all wear chaps
    Deep in the heart of Texas


    __
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  2. #2
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  3. #3
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    DONNE NISEI NELLA W.A.A.C.
    Torno sull’argomento Nisei con una breve integrazione. E’ utile ricordare che oltre al migliaio di interpreti militari di etnia giapponese che prestarono servizio con le forze di occupazione del governo militare americano su espressa richiesta del generale MacArthur, inviato a governare e sottomettere un popolo con una cultura e una lingua millenaria a lui completamente estranee, giunsero in Giappone anche un centinaio di donne Nisei inquadrate nel corpo ausiliario femminile dell’esercito (W.A.A.C.) con le stesse mansioni dei colleghi maschi. Si trattava di cittadine americane di etnia giapponese che una volta rinchiuse nei campi di concentramento americani erano state arruolate quasi forzatamente illudendole che ciò avrebbe alleviato le sofferenze delle loro famiglie tenute in detenzione. Alcune avevano accettato per patriottismo, altre perché in famiglia non c’erano figli maschi in età militare che potessero farlo al posto loro, altre ancora sperando di incontrare fratelli o fidanzati già arruolatisi. Frequentarono la scuola di lingue gestita dai servizi segreti dell’esercito dove studiarono giapponese, coreano e cinese. Ottenuta la qualifica di interprete militare vennero inviate nel Giappone occupato dove prestarono regolare servizio al fianco dei loro colleghi dall’estate 1945 all’estate 1946. Ma a quella data fu loro imposto il rimpatrio negli Stati Uniti per essere regolarmente smobilitate. L’altra alternativa era di continuare a lavorare come interpreti civili per enti o uffici parastatali gestiti dagli americani in territorio nipponico. Quasi tutte scelsero il rimpatrio per dimostrare di aver prestato servizio militare in quanto leali cittadine americane. Oltre al pregiudizio razziale imperante le ragazze Nisei erano cadute vittime anche dell’ambizione politica e della misoginia di MacArthur. Per quanto esse fossero come tutte le giovani donne americane nate, cresciute ed educate all’americana, cioè concrete, indipendenti ed individualiste, lo stereotipo diffuso della donna giapponese come totalmente sottomessa all’autorità gerarchica tradizionale a partire dall’imperatore fino al capofamiglia, faceva temere agli alti comandi che le interpreti Nisei potessero essere contattate dai parenti giapponesi e costrette o convinte a falsificare o trafugare importanti documenti di ufficio a favore di una peraltro inesistente “quinta colonna” antiamericana operante fra la popolazione locale. Ciò era assurdo anche perché le ragazze al momento del giuramento militare erano state costrette dall’esercito a firmare anche un documento ufficioso (immorale e illegale oltre che incostituzionale) che minacciava ritorsioni fino alla pena di morte contro i rispettivi nuclei familiari internati in caso di appropriazione di beni militari, assenza senza permesso, diserzione, violazione degli obblighi di segretezza, tradimento, ma anche “contiguità con elementi legati al regime imperiale”. Ciò vuol dire che per salvare la vita dei genitori in America dovevano evitare accuratamente tutti amici e parenti viventi in Giappone, che in un modo o nell’altro all’Imperatore avevano prestato giuramento o comunque avuto a che fare tutti. Per la assurda paranoia antigiapponese tutti rappresentavano una minaccia alla lealtà delle W.A.A.C. nippoamericane, dal vecchio nonno che aveva combattuto i russi nel 1905, al cugino maestro di scuola in un lontano villaggio, fino al nipotino dodicenne scampato all’atomica o alla ex vicina di casa già iscritta ad una associazione patriottica. Ma c’era anche un altro motivo più profondo e forse più vergognoso e indicibile dietro la decisione di MacArthur. E’ noto che il generale disprezzava apertamente sia Roosevelt che Truman, aveva enormi ambizioni politiche e aspirava a candidarsi alle prossime elezioni presidenziali, dunque stava accuratamente costruendo ad uso interno dei media statunitensi una sua immagine non solo di generale vittorioso ma anche di governante capace e attento ai bisogni della popolazione. A ciò si deve anche il fatto che Hirohito non fu incluso nella lista dei criminali di guerra ma fu invece oggetto di un ostentato rispetto da parte del generale americano. Purtroppo però la fame, le violenze e il disordine morale seguiti all’arrivo delle truppe di occupazione come era già avvenuto in tutta Europa provocarono un impressionante fenomeno di prostituzione di massa anche nell’arcipelago nipponico. Ogni soldato o marinaio poteva per così dire toccare con mano quanto fosse facile avere una donna in cambio di scatolame o sigarette. Si radicò in quei primi mesi l’idea che tutte le giapponesi fossero docile bottino di guerra e crebbero in modo esponenziale le violenze carnali ai danni di giovani e giovanissime ma anche di vegliarde. Delle vittime civili di tali abusi a MacArthur importava poco o niente, in fondo in base agli articoli del trattato di resa egli era il padrone assoluto delle anime e dei corpi di cento milioni di giapponesi, controllava ogni branca dell’autorità civile nipponica e poteva ridurre al silenzio ogni voce di dissenso contro i nuovi padroni. Fra il popolo americano anche dopo la vittoria l’odio antigiapponese restava enorme. Ma egli era preoccupato che i suoi uomini potessero fare come si dice di tutt’erba un fascio e considerare potenziali “segnorine” anche le W.A.A.C. di etnia giapponese, facendole oggetto di sgradite attenzioni. Quelle giovani donne non erano solo cittadine degli Stati Uniti a tutti gli effetti, ma anche membri delle forze armate americane in servizio ai suoi ordini. Una o più aggressioni sessuali ai loro danni non avrebbero potuto restare senza conseguenze, i media statunitensi ne avrebbero parlato diffusamente, ne sarebbero nati scandali e processi, rovinando la sua immagine pubblica faticosamente costruita in vista delle elezioni. Non potendo controllare i bassi istinti della truppa, l’ambizioso generale rispedì in patria tutte le interpreti Nisei (ma non diventò mai presidente degli Stati Uniti). Non fu un ritorno a casa gioioso, non ci furono fiori e bandiere per loro, nonostante avessero servito il loro paese per oltre un anno. La gente le additava in strada accusandole di essere spie del nemico. Avevano avuto la sfortuna di tornare alla seconda metà del 1946, proprio al culmine di una violentissima campagna d’odio scatenata dai media contro la cittadina americana Iva Toguri, alias Tokyo Rose, durante la guerra speaker propagandista della radio nazionale nipponica NHK additata a simbolo di tutte le “infide donne giapponesi”. Contro di lei secondo il controspionaggio militare e l’FBI non esistevano prove concrete di tradimento, ma sull’onda dello sdegno popolare e del perbenismo borghese fu imbastito ai suoi danni un processo costosissimo ma di dubbia regolarità e fu condannata a una lunga pena detentiva. Quanto alle interpreti Nisei, una volta congedate dalle W.A.A.C. si ricongiunsero coi familiari (quelli ancora in vita dopo la durissima detenzione nei campi) e andarono avanti cercando di sopravvivere, spesso con un tenore di vita incomparabilmente più basso rispetto all’anteguerra, in quanto case, imprese commerciali e depositi bancari requisiti nel 1941 agli onesti e laboriosi nippoamericani erano ormai definitivamente in ben altre mani.
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  4. #4
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    Argomento interessantissimo e (almeno per me) quasi sconosciuto; infatti avevo letto qualcosa sulla presenza di nippo-americani nelle FF.AA. USA e, anche , limitati accenni all'internamento dei civili in appositi campi, ma non ne conoscevo l'entità.
    Ora una domanda : agli statunitensi di origine italiana e tedesca cosa capitò? E a quelli che avevano acquisito la cittadinanza, ma erano sospettabili di adesione ai regimi al governo dei Paesi dell'Asse ?
    Grazie

  5. #5
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    Storia non conosciuta finora...grazie per questo articolone molto interessante!
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  6. #6
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    Articolo veramente importante. Per adess ti ringrazio e me lo godo con calma
    sven hassel
    duri a morire

  7. #7
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    Citazione Originariamente Scritto da Fiamma Viola Visualizza Messaggio
    Argomento interessantissimo e (almeno per me) quasi sconosciuto; infatti avevo letto qualcosa sulla presenza di nippo-americani nelle FF.AA. USA e, anche , limitati accenni all'internamento dei civili in appositi campi, ma non ne conoscevo l'entità.
    Ora una domanda : agli statunitensi di origine italiana e tedesca cosa capitò? E a quelli che avevano acquisito la cittadinanza, ma erano sospettabili di adesione ai regimi al governo dei Paesi dell'Asse ?
    Grazie
    _____________________

    Ai cittadini americani di origine italiana e tedesca assolutamente nulla, e i rappresentanti delle loro comunità si affrettarono a far professione di patriottismo, moltissimi italo-americani e tedesco-americani si arruolarono e furono decorati per atti di valore contro gli eserciti dei rispettivi paesi di origine fino al 1945, ma d'altra parte erano utile carne da cannone per la guerra imperialista dei wasp americani nonostante il pregiudizio anticattolico che colpiva gli italiani in alcune zone degli States essi erano tollerati perché in fin dei conti di etnia bianca, mentre i nippo-americani erano a tutti gli effetti discriminati in quanto "colored" come neri, filippini, indiani, ecc. Gli iscritti ad organizzazioni americane ideologicamente affini ai regimi vigenti in Italia e Germania, come i Fasci italiani all'estero, il Bund tedesco-americano, la George Washington Legion, erano sorvegliati fin dall'anteguerra dalla F.B.I. e arrestati e processati solo se attivamente coinvolti in spionaggio o sabotaggio a favore delle potenze nemiche e delle rispettive reti di spionaggio in territorio americano. I cittadini italiani e tedeschi che risiedevano e lavoravano magari da decenni in America senza aver acquisito la cittadinanza vennero internati come cittadini stranieri di paese nemico generalmente solo se maschi in età militare o con posti di responsabilità in grado di influenzare il conflitto attivamente. Donne, bambini, anziani furono generalmente lasciati in libertà. Furono internati (non dalle autorità militari ma dal servizio immigrazione americano) anche i marittimi delle molte navi da trasporto e passeggeri colte dalla nostra entrata in guerra il 10 giugno 1940 in porti americani, e piccoli gruppi di lavoratori ideologizzati dal fascismo, come il personale del padiglione italiano alla Fiera Mondiale di New York del 1939, o il piccolo gruppo di tecnici aeronautici della Macchi, Caproni e Piaggio, giunti negli States nel 1939 per valutare la riproducibilità su licenza in Italia del Boeing B-17 "Flying Fortress" per la Regia Aeronautica (contratto abortito all'inizio della guerra in favore dell'autarchico quadrimotore Piaggio P-108.
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  8. #8
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    Grazie

  9. #9
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    Di nulla, comunque a mio parere l'aspetto più interessante della vicenda è quello dei Nisei costretti a restare in Giappone durante la guerra e a combattere per l'Imperatore nonostante la cittadinanza americana!
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  10. #10
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    Certo; pensiamo che cosa sarebbe potuto succedere nel caso che fossero caduti prigionieri degli USA. Sarebbero stati passibili ,come traditori, del capestro?

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