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Discussione: Gli amici dell'America morirono ad Iwo Jima

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    Gli amici dell'America morirono ad Iwo Jima

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    Sono stato in America per circa cinque anni, e le loro industrie sono molto avanzate. Anche quelle che non producono materiale bellico sono organizzate in modo che, se scoppia la guerra, possono passare a produrre munizioni nel giro di poche ore dacché hanno ricevuto un telegramma. I giapponesi che hanno pianificato la guerra non si sono mai dati la pena di pensare a questioni di tale importanza. L’ho ripetuto migliaia di volte, ma loro imperterriti, non hanno voluto capirlo. Ci si può anche arrampicare sui vetri, ma la nostra possibilità di vincere questa guerra è pari a zero. Ora, però, dobbiamo combattere finché ne abbiamo la forza; fino all’ultima goccia di sangue.

    Tadamichi Kuribayashi

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    La cruenta battaglia che ebbe luogo tra il 19 febbraio e il 26 marzo 1945 ad Iwo Jima, è conosciuta (seppure a grandi linee) anche alle nostre latitudini, principalmente grazie alla vasta cinematografia hollywoodiana sull’argomento. Le pellicole propagandistiche dell’immediato dopoguerra esaltavano i Marines come granitici e invincibili eroi wasp, dipingendo i soldati nipponici come bestiali e subumani. I politicamente corretti – e maggiormente empatici – film gemelli “Flags of our Fathers” e “Letters from Iwo Jima” furono invece girati da Clint Eastwood nel 2007 proprio per mostrare il vero volto della battaglia dalla differente prospettiva di entrambi i belligeranti. Comunque i violenti combattimenti tra 100.000 americani e 22.000 giapponesi per il controllo di un’isola vulcanica di soli 22 km quadrati di superficie situata a 1.350 km da Tokyo e divenuta di importanza strategica più per la presenza di due aeroporti operativi (più un terzo in costruzione) che per essere il primo lembo del territorio metropolitano nipponico investito direttamente dall’offensiva statunitense, sono ormai entrati, bene o male, anche nel nostro immaginario collettivo. Decisamente meno nota è la vicenda umana del generale Tadamichi Kuribayashi, che per quanto in condizioni di palese inferiorità numerica e materiale, animò fino all’ultimo l’eroica difesa della guarnigione contro gli invasori. Già pochi anni dopo il termine del conflitto il popolo giapponese lo aveva elevato a simbolo del combattente valoroso e cavalleresco ma sfortunato, destinato suo malgrado a soccombere a causa della follia bellicista dell’Asse. Similmente a quanto era accaduto con modalità leggermente diverse per Amedeo d’Aosta in Italia e per Erwin Rommel in Germania Ovest, certamente anche i primi governi postbellici del Sol Levante usarono come simbolo la figura pulita di Kuribayashi. Ciò allo scopo di riplasmare una nuova memoria nazionale condivisa, assolvere il paese dalle sue responsabilità belliche e legittimare la ricostituzione di forze armate al servizio dei nuovi padroni americani. Ma se i suoi omologhi europei sono lentamente scivolati nell’oblio una volta scomparsa la generazione che di quei lontani eroismi era stata testimone diretta, il difensore di Iwo Jima gode ancora di unanime rispetto nel Giappone pacifista e ipertecnologico di oggi, tanto che ci si riferisce a lui col reverente titolo di “Sua Eccellenza”. Ciò è dovuto al fatto che di Kuribayashi si conserva religiosamente memoria e nelle scuole giapponesi gli alunni studiano il suo “Ultimo rapporto all’Imperatore” (1) uno struggente testo redatto di sua mano e trasmesso via radio poco prima della fine. La vasta popolarità di Tadamichi Kuribayashi, unico generale nipponico capace di suscitare l’ammirazione degli ex-nemici statunitensi, nonché di coniugare l’estrema fedeltà all’Imperatore col sincero rammarico di dover sacrificare la propria vita e quella dei suoi uomini in un conflitto ingiusto, era ben meritata. Ma fu anche sfruttata politicamente per controbilanciare le 1.068 condanne a morte o a lunghe pene detentive emesse da tribunali militari alleati contro ufficiali giapponesi responsabili di crimini di guerra. Nel suo paese si continua a scrivere su di lui e sull’epopea di Iwo Jima come fosse un fatto recente. E risale appena allo scorso anno l’ultima petizione popolare per spingere il governo ad intraprendere una massiccia campagna nazionale di scavi per ritrovare e dare degna sepoltura ai resti degli oltre tredicimila caduti giapponesi non ancora rintracciati. Degno di particolare interesse perché pubblicato anche da noi nel 2007, sull’onda dei film girati da Clint Eastwood, è il libro “Così triste morire in battaglia” nel quale la giornalista giapponese Kumiko Kakehashi ricostruì con tono elegiaco la vicenda di Kuribayashi tramite le lettere inviate dal generale alla moglie Yoshii e ai tre figlioletti Yoko, Takako e Taro, affiancandole a lettere di altri combattenti giapponesi di ogni grado ed alle rare testimonianze dei pochi sopravvissuti. Nel suo libro effettivamente la giornalista si pose timidamente alcuni dubbi sul reale atteggiamento del Q.G. nipponico verso i soldati che difendevano l’isola. Ma (forse per poca conoscenza degli ambienti militari dell’epoca o per l’ancestrale rispetto verso l’autorità costituita insito da sempre nei giapponesi) non andò particolarmente a fondo nella ricerca. Però leggendo attentamente la versione ufficiale della storia – peraltro comprovata anche dagli americani almeno dal 1945 – sorgono un gran numero di interrogativi apparentemente irrisolvibili, che guardando agli eventi da una prospettiva diversa (altamente probabile anche se non ufficialmente comprovabile) permettono di svelare gli autentici segreti di Iwo Jima. Segreti tanto grandi da spiegare in modo radicalmente diverso le azioni compiute dal generale Kuribayashi e dai suoi sottoposti, prima e durante la battaglia. Segreti capaci di cambiare radicalmente la percezione di tutta la guerra nel Pacifico, svelando le motivazioni degli autentici responsabili di un sanguinoso conflitto che si poteva evitare, o almeno terminare molto prima di quanto comunemente si creda.
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    Tadamichi Kuribayashi era un noto conoscitore ed estimatore della cultura americana. Poiché ogni anno ad alcuni giovani ufficiali che uscivano dall’Accademia Militare col massimo dei voti era consentito studiare all’estero, alla fine degli anni venti quasi tutti sceglievano di recarsi in Francia, in Germania o in Unione Sovietica, nazioni allora all’avanguardia nelle tecniche belliche. Quando toccò a lui, giovane ufficiale di cavalleria che parlava perfettamente la lingua inglese avendola studiata a scuola, scelse invece di andare negli Stati Uniti d’America, sfidando l’opinione comune tra i suoi colleghi, che sottovalutavano e disprezzavano il mondo anglosassone, ritenendolo imbelle, corrotto e irrimediabilmente decadente. Col grado di capitano fu assegnato come vice-addetto militare a Washington nel 1928 e per due anni viaggiò per tutto il paese – sia in automobile che a cavallo – conducendo un’ampia e documentata inchiesta sul potenziale militare e industriale statunitense. Visse a Boston, New York, San Francisco, Los Angeles, visitò le basi militari di Fort Bliss (Texas) e Fort Riley (Kansas) studiando per un certo periodo nelle Università di Harvard e del Michigan. Nelle molte lettere inviate ai parenti in quel periodo, egli espresse ammirazione per il modo di vita americano, ma anche la sua netta contrarietà a una eventuale guerra tra Giappone e Stati Uniti, motivando la sua posizione con la incolmabile differenza quantitativa e qualitativa tra le economie dei due paesi. Appena rientrato a Tokyo fu promosso maggiore e nominato addetto militare in Canada, incarico che ricoprì dal 1931 al 1933. Dopo un periodo presso il Q.G. imperiale tra il 1933 e il 1937, in seguito all’adesione del Sol Levante all’Asse Roma-Berlino in funzione anticomunista, fu progressivamente emarginato per le sue idee filoamericane e relegato a incarichi amministrativi in unità di cavalleria. Venire considerato filoamericano ne rallentò notevolmente la carriera rispetto agli ufficiali della sua generazione. Nel 1941 fu destinato come ufficiale di S.M. alla 23ª Armata dislocata a Canton, nella Cina meridionale, proprio per allontanarlo dai punti del fronte dove l’esercito imperiale stava affrontando direttamente truppe statunitensi.

    Come mai nel 1943 questo alto ufficiale giapponese apertamente contrario alla politica antiamericana del governo Tojo, fu improvvisamente richiamato in patria, promosso tenente generale e posto al comando della prestigiosa 2ª Divisione della Guardia imperiale di stanza a Tokyo?

    Si trattava pur sempre di una importante G.U. dell’esercito nipponico, facente peraltro parte di un corpo scelto. Alla 1ª Div. della Guardia spettava il prestigioso compito di assicurare la difesa diretta dell’Imperatore-Dio, degli altri membri della casa imperiale e dei funzionari di corte presenti nelle varie residenze. Ma la 2ª Div. era strategicamente più importante, perché addestrata ed equipaggiata per assicurare la difesa interna della capitale nipponica, proteggere le sedi ministeriali, il Q.G. imperiale, i centri nevralgici di trasporti e comunicazioni (aeroporti, ferrovie, stazioni radio). Cioè in parole povere, il filoamericano Kuribayashi si trovò catapultato di colpo nella posizione ideale per stroncare un eventuale colpo di stato militare o – a seconda dei punti di vista – attuarlo con successo! Secondo la versione ufficiale, ai primi di aprile del 1944 Kuribayashi rassegnò di propria iniziativa le dimissioni, assumendosi la responsabilità di un incendio notturno dovuto alla disattenzione di un sottoposto che avrebbe provocato molte vittime negli accantonamenti della truppa.

    Ma è credibile che un gran numero di soldati addestrati e disciplinati siano deceduti nel sonno in una moderna caserma sorvegliata da sentinelle e ronde notturne sia all’interno che all’esterno, solo a causa di un piccolo principio d’incendio? E davvero le dimissioni di Kuribayashi furono spontanee?

    Egli dovette lasciare la lussuosa residenza che gli spettava come comandante di 2ª Div. Guardie e si spostò con la moglie, i tre figli e una cameriera, in una modesta abitazione presa in affitto nel quartiere di Higashi Matsubara. Fu temporaneamente assegnato al Q.G. dell’Armata Orientale ma esclusivamente dal punto di vista burocratico, senza ottenere immediatamente un nuovo comando, tanto che rimase in pratica rinchiuso in casa senza uscire per oltre un mese, dedicandosi di persona ai piccoli lavori domestici necessari a riparare e rendere abitabile la nuova casa.

    E’solo una coincidenza che in quello stesso mese durante il quale Kuribayashi rimase segregato in casa (apparentemente di sua volontà) la spietata polizia militare nipponica Kempeitai avesse di fatto messo ai domiciliari nella sua lussuosa villa S.E. il principe Konoe, tenendovelo praticamente isolato dal mondo esterno fino al 1945? All’influente diplomatico e uomo politico, già predecessore di Hideki Tojo nella carica di primo ministro, fu risparmiata l’umiliazione di un arresto solo grazie agli stretti legami con la corte imperiale. Di che natura era il legame politico esistente tra Tadamichi Kuribayashi e Fumimaro Konoe?

    Il 27 maggio 1944 a Kuribayashi venne affidato il comando della 109ª Div. Ftr. “Coraggio” costituita con truppe già di stanza a Chichi Jima e reparti di marcia formati da complementi per la difesa delle isole Ogasawara e già l’8 giugno partì alla volta della posizione strategica di Iwo Jima, non senza aver ammonito la moglie a non fare progetti per il suo ritorno.

    Perché prima di raggiungere in aereo il suo ultimo comando, Kuribayashi in maniera del tutto irrituale fu ricevuto separatamente in udienza privata, sia dal primo ministro Hideki Tojo che dall’imperatore Hirohito? E i due autorevoli personaggi cosa gli dissero?

    Kuribayashi si trovò a combattere ad Iwo Jima contando esclusivamente sulle proprie forze, dato che inizialmente il Q.G. imperiale considerò essenziale la difesa dell’isola, facendovi affluire oltre ventiduemila uomini (circa 14.000 dell’esercito e 8.000 della marina) ma alla vigilia dello sbarco alleato decise improvvisamente in senso contrario, costringendo i difensori a combattere senza supporto aereo e navale, anche per le gravi perdite subite dalla flotta alle Marianne. Ritenendo ormai indifendibile l’isola, il Q.G. aveva dato seguito solo in minima parte alle pressanti richieste di armi e materiali, pur non lesinando formali espressioni di ammirazione per la strategia di difesa messa in atto dalla guarnigione. Si pensi che per ottenere almeno alcune delle mitragliere binate e dei razzi d’artiglieria Type 4 da 200 mm che ebbero un ruolo cruciale nel contrastare l’invasione, il generale dell’esercito Kuribayashi non ottenendo più risposta dai suoi diretti superiori dovette rivolgersi ufficiosamente alla marina, accantonando la tradizionale rivalità tra le due armi. Comunque al termine della battaglia combattuta accanitamente, agli occhi dei militari statunitensi i difensori di Iwo Jima divennero combattenti speciali degni di rispetto, considerati secondi per coraggio solo ai piloti kamikaze. Nei campi di prigionia americani i 1.083 soldati giapponesi catturati vivi sull’isola – quasi tutti gravemente feriti – erano visti con un misto di ammirazione e timore dai loro carcerieri, che sapevano quanto ostinatamente si fossero difesi oltre ogni ragionevole speranza di vittoria. Ma se i Marines erano un corpo altamente combattivo, professionale e motivato, composto da volontari appositamente addestrati ed equipaggiati per la guerra anfibia, i difensori giapponesi non si distinguevano particolarmente per età, robustezza fisica o addestramento, in quanto erano semplici militari di leva provenienti da tutti i distretti militari del Giappone. Erano contadini, pescatori, bottegai, uomini d’affari, insegnanti, studenti, persone che conducevano la loro normale vita quotidiana quando furono richiamati alle armi e inviati al fronte. La loro età variava notevolmente, vi erano giovanissimi coscritti 16enni che combattevano fianco a fianco con maturi richiamati 40enni, coniugati e con figli. In realtà, nella 109ª Div. c’erano solo due reparti combattenti perfettamente addestrati e totalmente omogenei, il 145° Rgt. Fanteria e il 26° Rgt. Carri. Il resto era composto da battaglioni di marcia di fanteria, composti in massima parte da complementi poco affiatati e peggio addestrati, oltre a unità minori di artiglieria e del genio, e agli ausiliari reclutati tra le minoranze etniche dell’impero giapponese (Ainu, Coreani e Taiwanesi).

    Ma se davvero Iwo Jima era ritenuta dagli alti comandi nipponici una posizione da difendere ad oltranza e ad ogni costo, perché inviarvi soldati in gran parte inadeguati, se non di seconda scelta? Forse nella selezione della truppa vi erano segrete motivazioni politiche che trascendevano le esigenze militari?

    Finché fu possibile scrivere a casa da Iwo Jima, il generale giapponese nelle sue molte lettere alla moglie mostrò apertamente i suoi sentimenti più intimi, sentimenti di avversione alla guerra che comprensibilmente non avrebbe dovuto svelare a nessun altro. Il 12 settembre 1944 scrisse: «Che peccato che io debba veder calare il sipario sulla mia vita in un luogo come questo proprio a causa degli Stati Uniti». Il 26 novembre 1944 scrisse: «Se le cose andassero per il verso giusto, e questa grande guerra non fosse mai scoppiata, tutti noi – tu, i bambini, io – in questo momento vivremmo una vita felice e tranquilla».

    Come mai il Q.G. imperiale mandò proprio un ufficiale così profondamente filoamericano ad affrontare i Marines in una battaglia cruciale per l’esito finale del conflitto, senza temere da parte sua se non aperta insubordinazione, almeno scrupoli di natura morale?

    Dal canto loro le famiglie dei militari richiamati erano totalmente all’oscuro della destinazione dei loro cari, le lettere destinate ad Iwo Jima erano inoltrate all’indirizzo identificativo divisionale “Coraggio” tramite l’Ufficio della Posta Militare di Chisaratzu, nella Prefettura di Chiba. Il generale Kuribayashi invitò ripetutamente i suoi uomini a scrivere ai propri cari il più spesso possibile e ad esternare apertamente i propri sentimenti riguardo alla guerra. Oltre che ad inviare la paga alle famiglie tramite vaglia, visto che nell’isola assediata non c’era più alcuna merce da poter acquistare. Così nei mesi che precedettero l’invasione statunitense, i soldati scrissero ripetutamente – quasi ossessivamente – a casa, nei momenti liberi tra addestramento e costruzione delle installazioni difensive. Molte famiglie conservano ancora oggi queste lettere come reliquie. I soldati dal canto loro attendevano con ansia notizie dai loro cari. Era la 1023ª squadra aerea basata a Kisaratzu a portare in volo i sacchi della posta insieme ad altri rifornimenti essenziali. I suoi aerei da trasporto disarmati raggiungevano Iwo Jima con grave rischio, negli intervalli tra un bombardamento americano e l’altro. Le lettere e le fotografie erano della massima importanza per il morale della truppa e Kuribayashi mirava proprio a rafforzare lo spirito combattivo dei suoi soldati, logorati dal lavoro di scavo della roccia vulcanica. Ma i voli di rifornimento per Iwo Jima s’interruppero già l’11 gennaio 1945, anniversario della Festa dell’Impero, per esplicito ordine del Q.G. imperiale anche se lo sbarco americano non ebbe luogo fino al 19 gennaio. Tutta la residua posta giunta in precedenza in Giappone dall’isola fu trattenuta e secretata dalla censura militare, in quanto i soldati erano da considerarsi già ufficialmente morti, mentre le lettere inviate dai parenti vennero restituite al mittente col timbro “Destinatario Sconosciuto”.

    E’evidente che Kuribayashi mirasse a creare un legame diretto tra i difensori dell’isola e le famiglie in patria, tentando di bypassare la censura militare e la propaganda del Q. G. imperiale, nella speranza di sensibilizzare l’opinione pubblica giapponese sulla tragica realtà della grande battaglia che si stava approssimando e che, come la guerra stessa, avrebbe avuto un esito fatalmente infausto. Perché?

    Kuribayashi era noto per la grande attenzione dimostrata per il benessere dei subalterni, fatto a quell’epoca non comune tra gli ufficiali nipponici, abituati a sacrificare senza rimorsi le vite dei propri soldati. Infatti quando fu assegnato ad Iwo Jima, sapendo di andare incontro ad una missione senza ritorno, ordinò ripetutamente a Nobuyoshi Sadaoka – un dipendente civile dell’esercito suo attendente ed autista fin dai tempi di Canton – di restare a Tokyo, ben sapendo che era sposato e padre. Ma allora perché permise al tenente Masayoshi Fujita, suo aiutante di campo nella 2ª Div. Guardie di seguirlo sull’isola? Il giovane ufficiale, unico rampollo di una ricca famiglia, era alla vigilia delle nozze ma partì improvvisamente senza avvertire genitori e fidanzata, che avrebbero potuto muovere passi in alto loco per farlo esonerare. La decisione fu motivata a posteriori da alcuni con la devozione provata da Fujita verso il suo superiore. Ma ad Iwo Jima c’erano molti altri ufficiali inferiori perfettamente in grado di fare da aiutante al generale.

    Forse anche Fujita era coinvolto nel misterioso incidente che provocò il trasferimento di Kuribayashi e fu obbligato a condividerne la sorte infausta ad Iwo Jima?

    Prima e durante la lunga battaglia, Kuribayashi espresse ripetutamente la sua profonda contrarietà verso le tradizionali cariche suicide rituali “Banzai” ed arrivò a proibirle, diffondendo in modo capillare fra le truppe un proprio scritto (2) volto ad illustrare dettagliatamente i più corretti metodi di combattimento da adottare contro gli americani, motivando i suoi uomini a non morire inutilmente, ma al contrario a restare vivi per uccidere il maggior numero possibile di nemici. Perfetto conoscitore della mentalità statunitense, il generale sperava che la perdita di un numero enorme di uomini in una sola battaglia avrebbe scosso profondamente la società civile americana, avviando un movimento popolare di opinione in grado di costringere il governo degli Stati Uniti ad abbandonare la richiesta di resa incondizionata e intavolare trattative di pace col Giappone. Ma nelle prime ore del mattino del 26 marzo 1945, quando i Marines erano si erano ormai spinti a pochi metri dal suo posto comando sito in una caverna sulle pendici del Monte Suribachi, apparentemente Kuribayashi contraddisse clamorosamente le sue stesse direttive, infiltrandosi silenziosamente attraverso le linee nemiche e guidando personalmente i pochi superstiti in un attacco suicida contro i campi d’aviazione di Motoyama e Chidori, già caduti in mano degli americani. Il suo fu un attacco attuato disciplinatamente e ben congegnato allo scopo di arrecare la massima distruzione alle piste. Generalmente durante un attacco “Banzai” l’ufficiale in comando mandava all’assalto i suoi uomini e subito dopo faceva harakiri alle loro spalle, per avere la certezza di non essere catturato vivo dal nemico. Ma riferendosi a Kuribayashi, un libro adottato ancora oggi come testo di studio per gli allievi della Scuola Ufficiali delle odierne Forze di Autodifesa (J.S.D.F.) afferma esplicitamente che: «Non esiste altro esempio nella storia dell’esercito giapponese di un generale di Divisione che abbia comandato personalmente una carica. Questo attacco generalizzato è del tutto insolito». Alcuni giorni prima, all’alba del 10 marzo 1945, i B-29 del generale Curtis LeMay avevano effettuato il primo bombardamento su Tokyo. Per due ore e mezza i quadrimotori americani avevano sganciato a più riprese bombe dirompenti, al fosforo bianco, al napalm e al petrolio gellificato sulle zone residenziali della capitale. I furiosi incendi avevano ucciso 100.000 persone, ferendone altre 40.000 e lasciandone oltre un milione senza casa. Il numero degli edifici distrutti era stato di 267.000 e veri e propri tornado di fuoco si erano innalzati nel cielo fino a lambire gli aerei nemici. Per attutire il fetore di carne umana bruciata gli equipaggi dei bombardieri (che volavano ad una altitudine di 3.000 metri) avevano dovuto indossare in tutta fretta le maschere ad ossigeno. Ben presto altre incursioni avrebbero provveduto a completare l’opera distruttiva.

    Se l’eroica e prolungata resistenza di Kuribayashi mirava ad impedire che il nemico facesse di Iwo Jima una base per i B-29 che minacciavano il Giappone, fu la notizia del bombardamento della capitale diffusa da Radio Tokyo a fargli comprendere che la sua strategia era ormai vanificata? Ed il suo estremo attacco mirante a danneggiare gravemente le piste dell’isola fu un disperato tentativo di rallentarne il più possibile l’utilizzo da parte americana?

    Il 26 marzo prima dell’ultimo attacco Kuribayashi convocò il maggiore Monzo Yoshida, ufficiale di S.M. del battaglione genieri responsabile della costruzione delle fortificazioni, al quale impartì il seguente ordine: «Deve restare vivo su quest’isola, poi, un giorno o l’altro, andarsene di soppiatto e raccontare a tutti i cittadini giapponesi la carneficina che qui accadde». Yoshida, esplicitamente vincolato dal giuramento, obbedì fedelmente agli ordini del generale. Non partecipò all’assalto suicida, si nascose negli anfratti dell’isola che conosceva palmo a palmo e – a differenza di altri soldati giapponesi superstiti – non si diede alla guerriglia contro gli americani, ma cercò di escogitare un modo per raggiungere il Giappone. Inizialmente si costruì una rudimentale zattera per raggiungere l’isola di Chichi Jima, l’avamposto nipponico più vicino, ma l’improvvisato natante affondò quasi subito e l’ufficiale tornò a stento a riva a nuoto. Fallito questo primo tentativo, il maggiore – che era in possesso del brevetto di pilota commerciale – tentò di raggiungere in volo direttamente il territorio metropolitano giapponese, ma non ebbe successo. Verso la metà di maggio riuscì ad impadronirsi di un aereo da trasporto americano C-46 Curtiss Commando, lasciato incustodito sulla pista di Motoyama, e riuscì a decollare. Ma venne inseguito e abbattuto da alcuni caccia P-51 Mustang, e perse la vita precipitando in mare.

    Perché il generale Kuribayashi era tanto desideroso di far giungere la sua voce in patria da spingere il maggiore Yoshida ad un tentativo di fuga tanto arrischiato? Non cercava certo la gloria postuma. Forse sperava di far capire ai suoi compatrioti che ormai nemmeno l’estremo e disperato sacrificio affrontato disciplinatamente dai difensori di Iwo Jima era più in grado di ribaltare la situazione bellica? E che davanti allo strapotere americano era urgente fare la pace ad ogni costo prima che la tempesta travolgesse ulteriormente il territorio metropolitano giapponese?

    Kuribayashi si preoccupava molto di cosa sarebbe accaduto dopo la sua morte. Egli sapeva che i suoi uomini erano tutti destinati a morire ma temeva che il Q.G. imperiale ne avrebbe svilito il sacrificio e strumentalizzato la memoria per sgravarsi dalle proprie colpe nella incapace e irresponsabile condotta della guerra. Nel corso della battaglia il generale inviò un messaggio radio al maggiore Kumeji Komoto, un ufficiale della 109ª Div. rimasto in Giappone, chiedendogli di tutelare la memoria postuma dei soldati caduti e prendersi cura delle loro famiglie in patria. Komoto obbedì scrupolosamente al suo superiore, organizzando in una caserma di Tokyo una sorta di ufficio stralcio divisionale, denominato “Gruppo di Osservazione Iwo Jima” e riunendovi i pochi sottufficiali e soldati della 109ª evacuati in aereo dall’isola per ferite o per malattie prima dello sbarco americano. Da allora l’ufficio si dedicò alla redazione di bollettini informativi periodici destinati all’opinione pubblica, compilò elenchi di caduti e dispersi, concesse piccoli sussidi a vedove ed orfani quando necessario. Ma soprattutto fu impegnato nella consegna rituale delle ceneri dei soldati alle rispettive famiglie, affinché fossero onorati nel santuario di Yasukuni secondo l’uso tradizionale (attività che proseguì anche dopo la resa fino alla fine nel 1946). Però Iwo Jima era ormai in mano al nemico e per il momento le salme non erano recuperabili, dunque la cerimonia era solo simbolica e in ogni urna c’era solo una tavoletta di legno con grado e nome del caduto.

    Perché il generale Kuribayashi si rivolse ufficiosamente ad un uomo di sua fiducia come il maggiore Komoto per tutelare le famiglie dei suoi uomini invece di chiederlo direttamente al Q.G. imperiale? Lo fece perché ormai disprezzava apertamente i membri dell’alto comando, che avevano irresponsabilmente gettato il Giappone in una guerra senza le risorse umane e materiali necessarie per poter anche solo sperare di vincere?
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    La risposta a tante domande si trova analizzando la situazione politica e militare nipponica in quel momento. La versione ufficiale afferma che Kuribayashi sarebbe stato inviato a difendere Iwo Jima in quanto giudicato l’ufficiale più esperto e capace a disposizione, ma in realtà la sua fu una punizione estrema, praticamente una condanna a morte senza appello per mano del nemico, ancor più grave perché il generale era apertamente filoamericano e contrario al conflitto. Nel corso del 1942 le fulminee vittorie ottenute dalle FF.AA. nipponiche avevano permesso all’impero raggiungere la sua massima espansione territoriale nel Pacifico, ma dopo la catastrofica battaglia delle Midway e quella di Guadalcanal, alla fine di quello stesso anno era ormai chiaro agli alti comandi nipponici che il Giappone avrebbe perso la guerra, perché il divario con il colossale apparato militare/industriale degli Stati Uniti sarebbe aumentato sempre più rapidamente, divenendo ormai incolmabile. Ciò peraltro era stato apertamente preconizzato ancora prima della guerra sia dal generale Tadamichi Kuribayashi, che dallo stesso ideatore dell’attacco contro Pearl Harbor, l’ammiraglio Isoroku Yamamoto. L’azzardato piano ideato dal premier Hideki Tojo per reagire alla crescente ostilità delle potenze occidentali (impadronirsi di sorpresa delle colonie britanniche e olandesi in Asia approfittando del conflitto europeo, nonché di tutti i possedimenti americani nel Pacifico dalle Filippine alle Hawaii), mirava a sfruttare le risorse petrolifere e minerarie dei territori occupati per venire rapidamente a capo della lunga guerra contro la Cina, che si trascinava da anni e creare una “Sfera di co-prosperità della più grande Asia orientale” totalmente autosufficiente, tanto da costringere il governo di Washington ad accettare il fatto compiuto e trattare col Sol Levante su un piede di parità. Ma quando tale strategia si dimostrò un bluff fallimentare in seguito alle prime sconfitte militari e al fatto che l’industria americana oltre a rifornire il proprio esercito, era in grado di fabbricare in gran numero armamenti moderni per gli alleati occidentali e persino per la Cina, la posizione del primo ministro nipponico si fece assai precaria. Nonostante la propaganda bellica americana lo accomunasse sbrigativamente ad Hitler e Mussolini, Tojo non era (almeno formalmente) un dittatore assoluto e nemmeno un autocrate. In Giappone, a differenza di Germania e Italia, non c’erano un capo carismatico e una ideologia chiaramente definibile come nazista o fascista. Oltre all’obbedienza formale all’imperatore-dio, l’unico fondamento vagamente nazionalista della linea politica governativa era costituito dagli scritti dell’ex- generale, uomo politico e pubblicista Kingoro Hashimoto che, richiamandosi ai valori tradizionali dei samurai, proclamava la superiorità morale dell’austero stile di vita giapponese su quello di un occidente decadente e corrotto. Non c’era un partito unico di massa a sostenere il capo. E l’opposizione parlamentare di stampo liberale o socialista non veniva repressa apertamente con la violenza. I militanti comunisti erano invece sottoposti sin dal 1925 a carcerazione o ad una rigorosa sorveglianza, in quanto tale partito era ufficialmente proibito come eversivo, in virtù delle leggi per la difesa della pace sociale, a tutela delle istituzioni monarchiche e della proprietà privata, emanate in quell’anno. La forma di stato rimase fino all’ultimo una monarchia costituzionale, ma la trasformazione da democrazia parlamentare a paese totalmente militarizzato avvenne in forma strettamente legale, all’interno dei limiti previsti dalla costituzione del 1889. Non in modo traumatico, ma con piccoli e progressivi assestamenti tra le varie forze che gestivano il potere, tra la fine degli anni venti e la fine degli anni trenta i militari e i grandi concentramenti economici ad essi strettamente legati (Zaibatsu), sostenuti dalla gran parte dell’opinione pubblica, giunsero a gestire direttamente il potere ai danni dei funzionari civili e della corte imperiale. Ciò fu dovuto al crescente impegno delle FF.AA. imperiali nelle guerre d’espansione oltremare in Manciuria e Cina, oltre alle pesanti ripercussioni della crisi economica del 1929. Anche nei momenti peggiori il governo giapponese rimase molto meno duro e assai più pluralistico nell’esercizio del potere rispetto agli stati totalitari europei, sia di destra che di sinistra. Ma a partire dallo scoppio della guerra con la Cina nel luglio 1937 – e ancor di più dopo l’aggressione all’America nel dicembre 1941 – il Q.G. imperiale congiunto tra esercito e marina (Dai hon’ei) divenne il vero centro decisionale del paese, relegando il governo civile a mero esecutore delle deliberazioni dei militari, incaricato di allineare il fronte interno nell’interesse dello sforzo bellico. A rigor di logica alla fine del 1942 per porre rimedio al suo gravissimo errore di valutazione delle reazioni americane, Tojo avrebbe dovuto rassegnare le dimissioni nelle mani di Hirohito e dare via libera alla composizione di un nuovo governo in grado di terminare un conflitto impossibile da vincere, ma ciò gli avrebbe aperto due strade per lui egualmente inaccettabili. O togliersi la vita per aver perso la faccia, secondo il tradizionale codice d’onore dei samurai, o venire consegnato come criminale di guerra alla prevedibile vendetta degli statunitensi. In mancanza di un adeguato piano alternativo, sperando di salvarsi o almeno di procrastinare l’inevitabile, egli si ostinò ad una sterile difesa ad oltranza di ogni posizione contro la lenta ma inarrestabile avanzata degli americani, isola dopo isola, nella speranza di poterli ancora contrastare e sconfiggere in una battaglia decisiva che ribaltasse le sorti della guerra. Tojo proclamò che la superiorità spirituale avrebbe alla fine permesso ai sudditi del Tenno di prevalere contro il gigantesco apparato militare e industriale del nemico. E si assicurò al contempo un controllo capillare sulla intera società nipponica, al motto di vittoria o morte. Al fine di neutralizzare ogni dissenso interno creò la Associazione per la collaborazione col governo imperiale (Taisei Yokusan Kai) e tutti i partiti politici rappresentati in parlamento vennero costretti a sciogliersi ed entrare nella sezione parlamentare di questa associazione. Alle elezioni di quell’anno i candidati espressi dalla Associazione ottennero il 64% dei voti, mentre gli altri si dispersero tra le varie minoranze politiche, sia di destra che di sinistra, che non si erano piegate alla richiesta di unificazione. Altra organizzazione di massa creata dal governo Tojo per il controllo sociale durante la guerra, fu la Associazione di buon vicinato (Tonarigumi) destinata a gestire il razionamento alimentare, alla diffusione di notizie, alla propaganda bellica e ad indirizzare l’adesione della popolazione alla linea politica governativa. Per quanto Tojo fosse un generale dell’esercito imperiale, egli aveva ben poca esperienza di comando sul campo e non era nemmeno un abile stratega. Lo si potrebbe piuttosto definire un burocrate militare, che – come gran parte degli ufficiali espressione della sua fazione politica nazionalista – aveva trascorso gran parte della sua carriera nell’Armata del Kwantung, teoricamente destinata a difendere il Manciukuò dai sovietici. Dunque tendeva fortemente a sottovalutare gli americani che conosceva assai poco (ma questo era un tratto comune per gran parte degli alti ufficiali nipponici se si pensa che lo studio della lingua inglese fu introdotto come materia obbligatoria all’Accademia Militare nipponica solo nel 193. Ma Tojo dal 1935 al 1937 proprio in Manciukuò aveva comandato il distaccamento di Harbin della Kempeitai, la spietata polizia militare nipponica, e fu proprio grazie a tale capillare organismo repressivo, attivo in tutto l’impero e nei territori occupati anche con funzioni di controspionaggio, che poté mantenere il pieno controllo del paese dal 1941 al 1944. Si creò comunque un movimento semiclandestino di opposizione al governo bellicista, formato da personale diplomatico, funzionari amministrativi civili, e da militari avveduti, tra i quali Kuribayashi, Yamamoto e pochi altri. Al vertice di tale rete, sostenuta moralmente dallo stesso imperatore, era S.E. il principe Fumimaro Konoe imparentato con Hirohito, oltre che ex- ambasciatore ed ex- primo ministro nipponico. Dopo vari tentativi falliti di convincere Tojo ad uscire dalla guerra salvando la faccia e risparmiando ulteriori lutti alla nazione, nel 1943 fu proprio Konoe a manovrare sottobanco per ottenere il trasferimento di Kuribayashi a Tokyo, mettendolo al comando della 2ª Divisione della Guardia. Tutto era parte di un embrionale progetto di colpo di stato mirante ad esautorare il premier ed intavolare negoziati di pace con l’America. Ma i maldestri preparativi per questo piano, una sorta di “Operazione Valchiria” in salsa nipponica, vennero scoperti e vi fu un violento scontro a fuoco tra le truppe fedeli al governo e gli uomini di Kuribayashi dentro e intorno alla caserma della 2ª Div. Guardie. Il principe Konoe finì ai domiciliari fino alla fine del conflitto, strettamente sorvegliato dalla Kempeitai. E dopo la resa scelse di togliersi la vita, non senza aver lasciato una toccante lettera di commiato (3) alla notizia che nonostante tutti i suoi sforzi per la pace, i vincitori americani intendevano processarlo come criminale di guerra. Al generale Kuribayashi e al suo aiutante di campo Fujita venne invece imposta una missione senza ritorno, che permettesse loro di mantenere l’onore militare e salvare la faccia morendo in combattimento ad Iwo Jima, invece di essere giustiziati. La morte di un certo numero di soldati fu attribuita ad un evento accidentale. Ciò è suffragato dal colloquio avvenuto con Tojo, prima che Kuribayashi partisse per la sua ultima missione, quando il primo ministro nipponico ordinò senza mezzi termini al generale di fare sull’isola quanto aveva fatto poco prima il presidio giapponese di Attu. Ovvero immolarsi in un assalto “Banzai” contro gli americani appena sbarcati sulla spiaggia. Per quanto espressa in maniera involuta, era una esplicita condanna a morte destinata ad essere eseguita per interposta persona, dai nemici statunitensi. Ai nostri occhi può sembrare rischioso mandare proprio un generale filoamericano a combattere e morire contro gli americani, ma bisogna considerare che il secolare senso dell’onore radicato profondamente nella cultura giapponese, avrebbe impedito non solo ogni remora morale, ma anche ogni tentazione di arrendersi, o peggio ancora passare al nemico. Sarebbe stato del tutto incomprensibile per la mentalità di ogni ufficiale nipponico il comportamento tenuto in Europa da un Vlassov, un Paulus o peggio ancora un Badoglio. Il generale Tadamichi Kuribayashi nonostante tutto affrontò stoicamente la sua sorte fino all’eroico ma tragico epilogo della battaglia, guidando di persona l’ultimo attacco del 26 marzo 1945.
    ___
    Nel 1950 l’ingegner Ando Tomiji giunse per la prima volta ad Iwo Jima per conto della ditta di costruzioni giapponese Takano Kensetsu, vincitrice di un appalto per realizzare sull’isola le nuove strade e infrastrutture permanenti necessarie alla guarnigione americana, che in quei giorni andava rapidamente crescendo di numero a causa della guerra in Corea. Sin dai primi giorni di lavoro l’uomo si rese conto che nel 1945 i Marines, fin troppo ansiosi di rimettere in funzione i due aeroporti di Chidori e Motoyama trasformando così l’isola in un punto di appoggio per i bombardieri B-29 diretti in Giappone, si erano limitati a raccogliere solo i nemici morti nei luoghi più accessibili, seppellendoli in fosse comuni scavate dai bulldozer o addirittura sotto il compatto strato di asfalto delle piste di atterraggio. Da devoto scintoista qual’era il Tomiji rimase sconvolto all’idea che a cinque anni dalla fine del conflitto, fra il plateale disinteresse degli occupanti, decine di migliaia di suoi connazionali giacessero ancora insepolti sulle pendici crivellate dalle bombe del Monte Suribachi, nelle trincee o nelle grotte dove erano morti. Infatti gli americani dopo il 1946 si erano limitati a seminare, spargendoli dagli aerei, grandi quantità di sementi di Leucaena glauca, un basso arbusto infestante conosciuto anche come “albero del piombo”. Caratterizzata dalla rapida crescita, la pianta era stata prescelta dalle teste d’uovo del Pentagono perché ritenuta ideale per coprire con il suo odore penetrante il fetore provocato dal processo di decomposizione dei cadaveri giapponesi rimasti insepolti sul terreno vulcanico dell’isola, ancora costellato dalle schegge delle bombe. Per due anni l’impresario edile iniziò a recuperare di propria iniziativa le salme nei momenti di riposo dal lavoro, ove possibile identificandole grazie agli effetti personali. Inizialmente lo fece da solo, ma presto coinvolse alcuni dei suoi operai. Raccolse decine di lettere, fotografie, diari, libretti militari trovati indosso ai caduti e nel 1952 pubblicò un drammatico libro sulla sua esperienza intitolato “Ah, Iwo Jima!” scuotendo l’opinione pubblica del Sol Levante. Per la sua attività di recupero dei caduti, presto Ando Tomiji divenne l’equivalente nipponico del nostro Paolo Caccia Dominioni, ottenendo enorme popolarità nel Giappone postbellico. Fu anche merito suo se a Tokyo nel 1953 venne fondata su iniziativa popolare l’Associazione di Iwo Jima, allo scopo di rappresentare legalmente i superstiti della battaglia e le famiglie dei caduti in occasione delle commemorazioni ufficiali al santuario di Yasukuni, nonché di organizzare ulteriori campagne di ricerca delle salme sull’isola, cosa resa assai difficile dalla burocrazia militare statunitense fino a quando nel 1968 gli americani la restituirono ufficialmente al Giappone. Regolari campagne di ricerca delle salme vennero organizzate periodicamente dall’Associazione di Iwo Jima, col supporto delle Forze di Autodifesa e del Ministero della salute, del lavoro e del welfare, a partire dal 1970. Nel corso degli anni l’Associazione raccolse anche un vasto archivio cartaceo riunendo le lettere ancora in possesso delle famiglie, quelle desecretate dagli archivi dalla Posta Militare giapponese e quelle trovate sull’isola durante le esumazioni delle salme. Dopo il 1985 si aggiunsero (in seguito a contatti avviati con associazioni di ex-combattenti americani in occasione del quarantesimo anniversario della battaglia) molte di quelle raccolte dai Marines al termine dei combattimenti come bottino di guerra. Nonostante gli autori delle migliaia di lettere e diari finora esaminati siano solo una parte infinitesimale dei 22.000 soldati nipponici all’epoca di stanza sull’isola, quella espressa dai loro scritti può essere considerata una rappresentazione proporzionalmente accurata degli autentici sentimenti dei combattenti del Sol Levante, prima e durante la battaglia di Iwo Jima. Ed il loro accurato esame ha portato anche ad una scoperta stupefacente e per certi versi spiazzante, cioè la presenza tra gli ufficiali e la truppa, particolarmente nei reparti di marcia composti da richiamati, di un numero importante di individui legati in qualche modo all’America e più in generale al mondo anglosassone. Già la giornalista giapponese Kumiko Kakehashi ne aveva brevemente raccontato nel suo libro tre casi esemplari, quelli di Nishi, Egawa ed Ishii.


    • Takeichi Nishi era il terzo figlio del Barone Tokujiro Nishi e di una donna del popolo. I suoi genitori non erano sposati e dopo la sua nascita la madre fu costretta ad affidarlo alla famiglia paterna, perché venisse educato secondo le usanze tradizionali. Per quanto avesse poi ereditato dal genitore il titolo baronale (Danshaku secondo il sistema feudale giapponese), la sua nascita illegittima ne influenzò profondamente il carattere suscitando in lui volontà di rivalsa e desiderio di primeggiare, spingendolo ad abbracciare la carriera militare. La sua personalità può essere definita per certi versi dannunziana. Fu esponente di spicco dell’aristocrazia giapponese, esteta, donnaiolo, ma anche ufficiale impeccabile e spericolato cavaliere. Fece parte della rappresentativa nipponica alle Olimpiadi di Los Angeles del 1932 col grado di tenente di cavalleria, vincendo una Medaglia d’Oro nel salto ad ostacoli, in sella al suo cavallo Urano, acquistato dagli allevamenti del Regio Esercito alcuni anni prima, durante un corso di perfezionamento in Italia. Negli Stati Uniti divenne amico di numerosi esponenti dell’alta società americana, tra cui la celebre coppia di attori hollywoodiani Mary Pickford e Douglas Fairbanks, apparendo spesso nelle cronache mondane dei quotidiani statunitensi. Quando nel 1944 da colonnello di cavalleria carrista gli fu affidato il comando del 26° Rgt. Carri appena trasferito ad Iwo Jima, la nave sulla quale viaggiava per raggiungere il reparto fu affondata dal nemico e lui si salvò a stento nuotando. Il secondo tentativo di raggiungere l’isola ebbe invece miglior successo. I suoi rapporti col generale Kuribayashi furono inizialmente piuttosto tesi, perché Nishi obbligando i suoi carristi a un pedissequo rispetto dell’assetto formale, aveva ordinato loro di farsi la barba attingendo alla scarsa razione giornaliera di acqua e di indossare uniformi impeccabili e guanti bianchi. Tutto ciò era impensabile su un’isola praticamente priva di fonti di acqua potabile, dove la truppa era impegnata a scavare trincee nel suolo di origine vulcanica da cui sprigionavano vapori sulfurei e la sabbia nera delle spiagge si infilava dovunque. Presto però tra i due ufficiali si creò profondo rispetto reciproco e fattiva collaborazione, sia per la comune provenienza dall’arma di cavalleria, sia perché entrambi apprezzavano l’America e conoscevano bene la mentalità dei nemici statunitensi. Quando dopo lo sbarco dei Marines gran parte dei carri (alcuni dei quali interrati e utilizzati come centri di fuoco statici) vennero distrutti nella prime fasi dei combattimenti, Takeichi Nishi prese il comando di un drappello formato da equipaggi appiedati, continuando a combattere finché la sua posizione venne circondata. Gravemente ferito, preferì suicidarsi per evitare la cattura. Gli americani ne identificarono il cadavere solo perché gli trovarono indosso un pezzo di criniera del cavallo Urano e il frustino usato durante le Olimpiadi di Los Angeles.



    • Masharu Egawa era un 44enne giapponese di religione protestante, vicedirettore della agenzia Matsuyamachi della Banca Sumitomo a Osaka. A vent’anni aveva prestato servizio di leva come militare di truppa, venendo congedato come sergente. Fu richiamato d’urgenza il 6 giugno 1944 dopo lo sbarco americano a Saipan, col grado di sottotenente di complemento (Shosu Shoko) e dopo un breve addestramento gli fu affidato il comando di un plotone di fanteria ad Iwo Jima, dove morì in combattimento. Masharu Egawa parlava un inglese fluente in quanto prima di sposarsi era vissuto per otto anni negli Stati Uniti, lavorando presso la filiale americana della sua banca e stringendo molte amicizie influenti. Era immune dalla retorica bellicista imperante nel suo paese e prima di partire per Iwo Jima disse apertamente alla moglie Mitsue: «Non voglio combattere una guerra che perderemo certamente». Quando si sposarono col rito protestante, lui aveva solo 36 anni ed era appena rientrato in Giappone dopo otto anni trascorsi in America. Mitsue invece ne aveva appena 25 ed era una seguace del movimento di Motoko Hani, la pioniera del femminismo giapponese, fondatrice della scuola privata di ispirazione democratica Yiyu Gauken e della rivista femminile Fujin no Tomo. Mitsue era anche una dirigente di vertice dell’associazione Tomo No Kai, fondata dalla Hani per migliorare la qualità della vita delle donne del popolo. Per questo motivo durante la guerra la donna fu a lungo sorvegliata dalla Kempeitai come potenziale sovversiva.



    • Shuji Ishii era un giovane giornalista e fotografo di idee liberali che lavorava per l’autorevole quotidiano nipponico Mainichi Shimbun e per conto del suo giornale prima della guerra era stato per qualche tempo negli Stati Uniti. Richiamato alle armi nel giugno 1944, prestò servizio ad Iwo Jima come soldato di sanità nell’ospedale da campo della 2ª Brigata mista. Conosceva personalmente Kuribayashi da quando entrambi erano a Tokyo e il generale comandava la 2ª Div. Guardie. Durante la sua permanenza sull’isola ebbe più volte occasione di incontrarlo e conversare con lui, cosa sorprendente per un semplice soldato. Ishii sopravvisse alla battaglia finale e nel secondo dopoguerra scrisse un libro di ricordi.

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    Quanto emerge dai manoscritti esaminati nel corso degli anni dai volontari dall’Associazione di Iwo Jima, mostra che non si trattava affatto di pochi casi isolati. Tra gli uomini che combatterono e morirono sull’isola molte centinaia di richiamati, forse migliaia, avevano un qualche tipo di legame col nemico e potevano risultare sospetti agli occhi della polizia segreta. C’erano dirigenti e dipendenti delle filiali giapponesi di ditte americane, o di società giapponesi con filiali negli Stati Uniti. Ma anche imprenditori con interessi oltreoceano, banchieri, docenti di letteratura americana, giovani studenti che avevano imparato l’inglese a scuola, appassionati di musica jazz, radioamatori, giornalisti, militanti socialisti, pacifisti ed esperantisti, oltre a qualche membro di sette religiose di origine nordamericana (cosa davvero strana visto che l’atteggiamento del Giappone imperiale verso ogni religione fu in genere molto tollerante anche durante il conflitto). E poi moltissimi Issei, cittadini giapponesi rimpatriati dopo anni di emigrazione in America, e almeno una decina di Nisei, cittadini americani di origine nipponica (ma i giocatori di Baseball vennero risparmiati in quanto quello sport americano era da sempre ed è tuttora popolarissimo in Giappone). A questo punto tutto ciò non può più essere visto come una coincidenza, ma qualcosa di preordinato e realizzato con una finalità precisa.
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    Probabilmente non furono solo il generale Kuribayashi e gli altri ufficiali coinvolti nel tentato golpe ad essere condannati a morire per mano dei Marines americani. Poiché il premier Tojo intendeva spingere le forze armate e i civili alla resistenza a oltranza, fino ad ipotizzare in caso di invasione del territorio metropolitano giapponese da parte del nemico l’estremo sacrificio di tutta la popolazione in un unico grande “Banzai” in difesa dell’imperatore, il primo passo avrebbe dovuto necessariamente essere quello di neutralizzare chiunque potesse trattare la resa grazie a legami di qualunque genere col nemico. E quale modo migliore per sbarazzarsene che arruolare tutti quei sudditi infidi e inaffidabili, spedendoli a difendere una località certamente indifendibile? Purtroppo non vi sono certezze assolute al riguardo, perché poche ore prima della resa, nella notte tra il 14 e il 15 agosto 1945, tutti gli archivi della Kempeitai vennero bruciati e gran parte degli ufficiali si diedero alla macchia per non farsi processare come criminali di guerra dai vincitori, ma è probabile che nell’estate del 1944 Tojo abbia effettivamente utilizzato la Tokko, il suo strumento repressivo più efficace, per individuare i potenziali elementi sovversivi o filoamericani. E per richiamarli alle armi nei reparti di marcia destinati alla 109ª Div. Ftr. “Coraggio” di Iwo Jima, con un sommario addestramento e un armamento inadeguato, allo scopo preciso di farli perire tutti in combattimento. Non ci sarebbe nulla di cui stupirsi, la famigerata Kempeitai era capace di questo ed altro. Costituita nel 1881 sul modello della Gendarmerie Nationale francese con duplice funzione di polizia militare e polizia giudiziaria, la Kempeitai venne formata inizialmente per contrastare e reprimere in modo violento e brutale il fenomeno della renitenza alla leva militare obbligatoria, allora molto diffuso nelle campagne giapponesi. La sua giurisdizione venne progressivamente estesa nel 1898 e nel 1928, fino a lasciare i suoi militi (Kempei) completamente arbitri del destino di ogni suddito nipponico, in patria, nelle colonie e nei territori occupati, oltre che dei cittadini stranieri. La Kempeitai organizzò anche una propria unità di polizia segreta (Tokubetsu Koto Keisatsu), comunemente conosciuta come Tokko, che investigava su gruppi politici ed ideologie considerati una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza nazionale ed aveva il potere di arrestare qualunque sospetto senza mandato. Dagli anni trenta adottò gli stessi metodi della N.K.V.D. sovietica e della Gestapo/SD nazista, facendo ampiamente uso della tortura per ottenere informazioni dagli indiziati. Durante la 2^ g.m. in aggiunta alle funzioni ordinarie, come il monitoraggio o arresto di elementi sovversivi anti-giapponesi tra la popolazione civile, alle sezioni della polizia militare operanti sul campo vennero assegnati diversi compiti, tra cui l’ordine pubblico, i rapporti tra popolazioni locali e giapponesi, il reclutamento di manodopera locale, l’esecuzione di programmi propagandistici ed il controspionaggio. Nella Cina occupata e nello stato satellite del Manciukuò la Kempeitai fornì cittadini cinesi, manciuriani o sovietici come materiale speciale di ricerca (cioè cavie umane) ai laboratori di ricerca sulle armi biologiche della famigerata Unità 731, attingendo dai prigionieri accusati di spionaggio per conto di stati stranieri, dai partigiani cinesi catturati in combattimento, o dai criminali comuni giudicati irrecuperabili. La Kempeitai svolse inoltre un ruolo importante nel reclutamento forzato e nella gestione delle prostitute per i bordelli militari nei territori occupati. Le cosiddette “donne di conforto” erano in genere giovanissime ragazze coreane o asiatiche, assoldate o rapite nei propri villaggi. Ma anche donne bianche anglosassoni, queste ultime generalmente rinchiuse nei bordelli per punizione dopo atti di indisciplina nei campi di prigionia. Nell’agosto 1945, quando il comandante della Kempeitai, generale Yoshio Shirokura, si suicidò a Tokyo dopo la resa, il corpo contava 24.000 ufficiali e 70.000 tra sottufficiali e graduati di truppa. Nonostante i molti crimini di guerra compiuti nel corso del conflitto contro individui di varia nazionalità, gran parte dei Kempei venne amnistiata nel 1952 e cooptata dagli americani in funzione anticomunista, entrando poi a far parte dei quadri dei nuovi servizi segreti nipponici. L’anno successivo si costituì perfino una Federazione Nazionale delle Associazioni Veterani della Kempeitai (Zenkoku Kenyukai Rengokai), per difendere la reputazione degli ex- militi, e fu istituito anche un piccolo memoriale nel santuario di Yasukuni per ricordare gli uomini della Kempeitai caduti in servizio. Dei molti giapponesi amici dell’America, costretti da Hideki Tojo a morire combattendo contro i Marines su un’isola sperduta per timore che istigassero la nazione alla resa, non si parlò praticamente mai più, fino alle succitate recenti ricerche di archivio fatte in anni recenti della Associazione di Iwo Jima.

    ___

    Anche a distanza di tanti anni, appare ben evidente che Sua Eccellenza il generale Tadamichi Kuribayashi fosse consapevole dell’impossibilità di respingere gli invasori, ma allo stesso tempo ben sapesse quali sarebbero state le gravi conseguenze della conquista americana dell’isola. Nell’agosto 1944, dopo la caduta di Saipan, il generale di brigata Sanada ed il contrammiraglio Nakazawa vennero ad ispezionare le difese di Iwo Jima. E in quella occasione Kuribayashi consegnò loro un rapporto riservato da inoltrare al Q.G. imperiale nel quale, pur ribadendo la sua determinazione di resistere fino all’ultimo uomo, esponeva coraggiosamente ai suoi superiori come fosse ormai impossibile per il Giappone arrecare al nemico una sconfitta decisiva in grado di fermare l’avanzata americana vero il cuore dell’impero. E di conseguenza indicava la necessità di fare ogni sforzo possibile per aprire trattative di pace con gli Stati Uniti ed evitare quindi ulteriori distruzioni al territorio metropolitano. Ma i due alti ufficiali latori del documento, temendo rappresaglie da parte del Q.G. e ritenendo che la pubblicazione del rapporto avrebbe danneggiato gravemente il morale delle truppe e la volontà di resistere della popolazione, decisero di propria iniziativa di non consegnarlo e lo mantennero segreto fino alla fine del conflitto. Il 7 settembre 1944 il generale scrisse ai figli in termini allarmanti: «Al momento Tokyo non subisce incursioni aeree, ma se l’isola che sto difendendo finisce per essere conquistata dal nemico, allora è sicuro che inizierà ad essere bombardata giorno e notte. I contrattacchi del nemico si sono fatti sempre più violenti. E’solo questione di tempo prima che arrivino e attacchino il luogo in cui mi trovo. Quando accadrà, se noi non teniamo duro, il passo successivo saranno le incursioni su Tokyo. Il terrore, la distruzione, il caos suscitati dalle incursioni aeree sono indescrivibili e vanno al di là di qualsiasi immaginazione di chi vive tranquillamente la sua vita a Tokyo». Il 25 gennaio 1945 scrisse alla moglie Yoshii rincarando ancor più la dose: «Attualmente i B-29 dislocati a Saipan sono 140 o 150. Intorno ad aprile il loro numero salirà a 240 o 250 e, alla fine dell’anno, è probabile che arrivi a 500; il che significa che le incursioni aeree saranno assai più numerose di quelle di adesso. Aggiungi che se l’isola dove mi trovo sarà conquistata, il numero degli aerei nemici aumenterà di alcune centinaia, e le incursioni aeree sul territorio nazionale saranno assai più terribili di quelle attuali. Nel peggiore dei casi, il nemico potrebbe sbarcare sulle spiagge delle prefetture di Chiba e di Kanagawa e giungere nelle vicinanze di Tokyo». La storia ufficiale esalta il genio militare di Kuribayashi perché fu l’unico generale nipponico in tutta la 2^ g.m. a provocare più perdite agli invasori americani di quante essi ne arrecarono ai difensori giapponesi. Ma il suo più grande merito umano fu senz’altro quello di essere riuscito con le parole e con l’esempio a infondere in tutti i suoi uomini – anche i molti che come lui erano considerati a torto o a ragione filoamericani – una ferrea volontà di resistere al nemico fino all’estremo sacrificio, peraltro testimoniata dal fatto che quasi 21.000 dei suoi 22.000 uomini affrontarono valorosamente la morte contrastando i Marines. Però Tadamichi Kuribayashi attinse a motivazioni radicalmente diverse da quelle espresse dal governo nipponico e dal Q.G. imperiale. A spingerlo non c’erano solo l’onore militare e la necessità di proteggere i civili in patria, ma anche le parole pronunziate da Hirohito durante l’incontro avuto prima di partire da Tokyo. Pur non potendo materialmente salvarlo dalla missione senza ritorno impostagli dal primo ministro, il sovrano esortò il generale a non morire inutilmente, ma a resistere fino all’ultimo, nel tentativo di raggiungere un duplice obiettivo che forse avrebbe potuto salvare il Giappone. Se il nemico avesse perduto un numero enorme di uomini in una sola battaglia, forse l’opinione pubblica degli Stati Uniti, considerando ormai insostenibile il costo in vite umane del conflitto, avrebbe spinto il proprio governo a recedere dalla richiesta di una resa incondizionata. Ma, cosa anche più importante, se il popolo giapponese si fosse reso conto che anche combattendo valorosamente fino all’ultimo uomo era ormai impossibile rovesciare la situazione e prevalere sugli americani, l’opposizione interna avrebbe potuto rovesciare il governo Tojo e intavolare trattative con l’America. Purtroppo nessuna delle due eventualità si concretizzò e dopo altri bagni di sangue la guerra terminò come sappiamo. Ma va dato atto a Kuribayashi e ai suoi soldati di aver provato con il loro consapevole sacrificio a mutare il corso degli eventi e salvare la Patria.
    ___

    (1)
    Ultimo rapporto all’Imperatore
    La battaglia è giunta all’epilogo. Dal momento dello sbarco del nemico, gli uomini al mio comando hanno combattuto in maniera tanto valorosa da commuovere persino gli dèi. In particolare sommessamente mi compiaccio che abbiamo continuato a combattere da coraggiosi, eppure a mani nude e male equipaggiati, sottoposti a un attacco da terra, dal mare e dal cielo di una superiorità materiale inimmaginabile. Uno dopo l’altro sono caduti davanti agli attacchi incessanti e tremendi del nemico. Perciò, la situazione è arrivata al punto in cui devo deludere le vostre aspettative e abbandonare questa importante posizione nelle mani del nemico. Con umiltà e sincerità presento le mie più sentite scuse. Non abbiamo più munizionamento e l’acqua è finita. E’giunto per tutti noi il momento di ferrare il contrattacco finale e combattere valorosamente, consapevoli dell’approvazione dell’imperatore, senza risparmiare gli sforzi, per quanto trasformino le nostre ossa in polvere e polverizzino i nostri corpi. Ritengo che finché l’isola non sarà riconquistata il dominio dell’imperatore resterà eternamente insicuro. Giuro, pertanto, che anche quando sarò diventato uno spirito resterò nell’attesa che la sconfitta dell’Esercito imperiale sia trasformata in vittoria. Mi trovo, ora, all’inizio della fine. Nello stesso tempo in cui rivelo i miei sentimenti più intimi prego sinceramente per la certa vittoria e la sicurezza dell’impero. Addio per l’eternità. Per quanto riguarda Chichi Jima e Haha Jima, sono sicuro che gli uomini al mio comando che vi si trovano saranno in grado di respingere ogni assalto del nemico annientandolo. Infine sottopongo al vostro esame il modesto contributo allegato in calce.

    Poscritto

    Impossibilitato a adempiere a questo arduo compito per il nostro paese
    Frecce e pallottole esaurite, tristi siamo caduti.
    Ma salvo sbaragli il nemico,
    Il mio corpo non può marcire nel campo.
    Sì, rinascerò nuovamente sette volte
    E brandirò la sciabola.
    Quando le lugubri gramaglie ricopriranno quest’isola,
    Mio unico pensiero sarà la Terra imperiale.
    ___


    ___
    (2) Direttive di combattimento ai soldati della divisione “Coraggio”
    Preparativi per la battaglia
    1. Utilizzare qualsiasi momento disponibile, durante le incursioni aeree come durante la battaglia, per la costruzione di solide posizioni che consentano di schiacciare il nemico in ragione di dieci a uno.
    2. Costruire fortificazioni che consentano di far fuoco in ogni direzione senza sosta, anche nel caso in cui i commilitoni cadano.
    3. Essere determinati e prepararsi a immagazzinare rapidamente cibo e acqua nelle postazioni affinché i rifornimenti possano bastare anche in caso di intenso fuoco di sbarramento.
    Combattimento difensivo
    1. Annientare i diavoli statunitensi col fuoco delle armi pesanti. Perfezionare la mira e cercare di colpire il bersaglio al primo colpo.
    2. Come nelle esercitazioni, evitare le cariche disperate, ma non lasciarsi fuggire il momento favorevole quando si è colpito duramente il nemico. Attenzione al «fuoco amico».
    3. Quando un uomo muore si apre un buco nelle difese. Utilizzare le difese manufatte e le caratteristiche naturali del terreno per proteggersi. Grande attenzione alla mimetizzazione e alla copertura.
    4. Distruggere i carri armati del nemico con l’esplosivo e qualche soldato nemico col carro armato. E’la migliore occasione di compiere gesti encomiabili.
    5. Non allarmarsi neppure quando i carri armati avanzano rombando nella vostra direzione. Sparare contro di loro col fuoco controcarro e utilizzare i carri armati.
    6. Non farsi prendere dal panico se il nemico penetra nelle postazioni. Resistere accanitamente e ucciderlo. 7. E’difficile esercitare il comando se la truppa è sparpagliata su una vasta area. Avvertire sempre gli ufficiali comandanti prima di avanzare.
    8. Anche se l’ufficiale comandante muore, continuare a difendere la posizione; da soli, se necessario. Il dovere principale è compiere atti coraggiosi.
    9. Non pensare né al mangiare né al bere; concentrarsi, invece, sulla distruzione del nemico. Siate coraggiosi, oh combattenti, anche se riposo e sonno sono impossibili.
    10. La forza di ciascuno di voi è causa della nostra vittoria. Soldati della divisione «Coraggio» non cedete alla durezza della battaglia, né cercate di accelerare la vostra morte.
    11. Riusciremo a prevalere se compirete lo sforzo di uccidere solo un uomo in più. Morire dopo aver ucciso dieci nemici è una morte gloriosa sul campo di battaglia.
    12. Continuare a combattere anche se si è rimasti feriti sul campo di battaglia. Non consegnarsi prigionieri. Infine, pugnala il nemico come lui pugnala te.
    ___


    (3) Lettera di commiato di S.E. il principe Fumimaro Konoe
    «Ho probabilmente commesso molti errori politici dal giorno dell’incidente cinese, e me ne sento profondamente responsabile di fronte all’Imperatore e al popolo giapponese. Ma non posso sopportare l’idea di essere processato come criminale di guerra da un tribunale militare americano. Era mio dovere mettere fine a quell’incidente, e il solo modo mi parve che fosse quello d’intendermi con l’America per regolarlo. Ecco perché ho fatto il possibile per giungere a un negoziato tra i due Paesi e perché mi è tanto penoso essere giudicato criminale da uno di essi. Penso che Dio sappia quali erano le mie intenzioni, ed anche alcuni amici che ho in America devono averle conosciute e capite. I rancori che sempre accompagnano le guerre, la jattanza dei vincitori, il servilismo e le accuse intenzionalmente false dei vinti, le incomprensioni più o meno volute: son questi gli elementi che formano la pubblica opinione e ispirano i tribunali degli uomini. Un giorno tutto questo si calmerà e la vita normale riprenderà il suo coro. E’allora soltanto che il giusto giudizio potrà esser reso di fronte a Dio».
    ___
    CHISSA' A QUALE DI QUESTI ALBERI CI IMPICCHERANNO?

  2. #2
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    CHISSA' A QUALE DI QUESTI ALBERI CI IMPICCHERANNO?

  3. #3
    Utente registrato L'avatar di mangusta
    Data Registrazione
    Mar 2014
    Località
    s.clemente - rimini
    Messaggi
    1,487
    Ottimo..
    andrea

  4. #4
    Utente registrato L'avatar di storiaememoriagrigioverde
    Data Registrazione
    Nov 2019
    Messaggi
    816
    Grazie Mangusta, anche tu ex- AVES suppongo da foto e nick! Io 12/93 al 51 Gr. Leone a Viterbo nel 1993/94 coi CH 47. Ai miei tempi ancora niente stemma da macelleria equina sulla spalla! Se ti interessa l'argomento nippo, seguimi che ne posterò altri egualmente interessanti, intanto se vuoi butta un occhio al testo sui Nisei.
    CHISSA' A QUALE DI QUESTI ALBERI CI IMPICCHERANNO?

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