I cavalieri del deserto – Gli ultimi tuareg (film incompiuto)
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DATI TECNICI
Titoli provvisori o alternativi: I predoni del Sahara; I predoni del deserto; Gli ultimi tuareg; Pochi contro la morte; I cavalieri del deserto
Lingua originale: italiano (era stato previsto il doppiaggio in tedesco per l’esportazione non solo in Germania ma anche nelle nazioni alleate o occupate dal Reich)
Paese di produzione: Italia
Pellicola: b/n
Anno: 1942
Genere: avventura / bellico
Regia: Osvaldo Valenti; Gino Talamo; Federico Fellini (non accreditato come regista seconda unità in Africa Settentrionale)
Soggetto: Liberamente tratto dal libro di Emilio Salgari
Sceneggiatura: Federico Fellini; Tito Silvio Mursino (pseudonimo di Vittorio Mussolini); Osvaldo Valenti; Omar Salgari (non accreditato)
Fotografia: Angelo Jannarelli
Scenografia: Virgilio Marchi
Musiche: Renzo Rossellini
Direttore di produzione: Luigi Giacosi
Produzione: ACI (Alleanza Cinematografica Italiana)
Distribuzione: ACI Europa
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INTERPRETI E PERSONAGGI
Osvaldo Valenti____Il capitano Serra
Luisa Ferida_______Ara
Luigi Pavese_______El Bumi
Guido Celano
Piero Lulli
Erminio Spalla
Primo Carnera
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Visto il grande successo di pubblico dei film di propaganda bellica usciti nelle sale tra la fine del 1941 e il primo semestre del 1942, il Minculpop autorizzò volentieri la realizzazione di un secondo gruppo di pellicole a carattere bellico/propagandistico destinate a giungere nelle sale italiane tra fine 1942 e inizio 1943, ma a causa dei gravissimi rovesci bellici dell’Asse in Russia e in Africa Settentionale alcuni di tali film vennero sospesi, altri profondamente modificati durante la lavorazione, altri ancora ebbero una circolazione assai limitata. Come molte pellicole coeve ambientate in Libia, il destino del film I cavalieri del deserto fu segnato in negativo alla fine del 1942 con la perdita definitiva della “quarta sponda” che dal 1911 era nostra colonia e dal 1939 – per illuminata volontà di Italo Balbo – addirittura un territorio metropolitano oltremare con tanto di cittadinanza italiana per i nativi musulmani. Il rapido sconfinamento delle residue forze italo-tedesche in Tunisia, dove si sarebbero arroccate fino al maggio 1943 in un disperato e vano tentativo di resistere allo strapotere degli angloamericani ebbe un grave contraccolpo sul morale del fronte interno, indicando anche ai più sprovveduti che con la caduta del ridotto africano la guerra avrebbe ormai colpito ancor più inesorabilmente la nostra penisola. Per tentare di limitare in qualche modo gli effetti negativi sulla popolazione italiana, la censura di regime impose che della Libia non si parlasse più. Dunque nonostante la troupe presente a Tripoli per girare scene in loco fosse riuscita a rimpatriare fortunosamente in aereo nel bel mezzo della ritirata delle residue forze italo-tedesche da El-Alamein alla frontiera tunisina, e la produzione si apprestasse comunque a girare le scene in interni a Roma negli studi ACI della Farnesina, I cavalieri del deserto rimase incompiuto essenzialmente per motivi di opportunità politica dopo la perdita della Libia, tramutandosi in un fallimento economico denso di conseguenze nefaste.
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Prima di passare alle vicende della lavorazione del film è necessario affrontare un tragico e doloroso antefatto. La mattina di martedì 25 aprile 1911 Emilio Salgari uscì dalla sua casa torinese con un rasoio in tasca, lasciando sul tavolo alcune lettere di addio destinate ai figli, ai giornali e agli editori. Ormai deciso a togliersi la vita raggiunse tranquillamente in tram il parco del Valentino, dove in un angolo fuorimano attuò l’insano gesto con modalità cruente e spettacolari ispirate alla tradizionale forma di suicidio rituale dei samurai nipponici. Il celebre scrittore, già autore di un vasto corpus di popolari racconti d’avventura di ambientazione esotica, aveva ottenuto tra la fine dell’ottocento ed i primi del novecento grazie alle sue opere letterarie una vasta popolarità a livello nazionale nonché una prestigiosa onorificenza sabauda, ma non certo la favolosa ricchezza che molti allora gli attribuivano. Travagliato dalla tragedia familiare di una moglie malata di mente ricoverata in manicomio, pressato dalla continua necessità di forti somme di denaro per le cure della consorte e il mantenimento dei quattro figlioletti, Salgari finì alla mercé di avidi editori che sfruttandone la grande popolarità gli commissionarono di continuo nuovi racconti pagandoli però a prezzi irrisori. Tale tremendo stress fisico e mentale di fatto lo portò alla depressione ed alla disperazione, lasciandogli solo il suicidio come unica via d’uscita dalla nera miseria nella quale da troppi anni si dibatteva. Nella sua ultima lettera ai quattro figli (Omar, Nadir, Romero e Fatima) egli si autodefinì un vinto dalla vita, dolendosi di non poter lasciare loro nient’altro che la misera somma di 150 lire in contanti. Negli anni successivi però, il nome Salgari nonostante tutto continuò a vendere bene, dunque costrettivi dalla miseria nella quale li aveva lasciati il genitore, e per le continue sollecitazioni da parte degli editori, i figli Omar e Nadir perennemente in difficoltà economiche accettarono a più riprese di far pubblicare mediocri racconti nello stile dei classici salgariani, ma scritti da altri o da loro stessi, avvalorandoli però come opere inedite del padre, fortunosamente rinvenute nelle carte di famiglia. Tendenze proto-terzomondiste ed anti-imperialiste erano già presenti in nuce in tutte le opere autentiche di Salgari (i cui eroi erano generalmente nobili/guerrieri africani, indiani o asiatici in lotta per la libertà dei loro popoli dallo spietato sfruttamento coloniale imposto da Londra a gran parte del mondo grazie alla potenza militare e al dominio dei mari, che raggiunsero l’apice in età vittoriana). Ma in seguito all’adesione al fascismo di Omar, tra gli anni trenta e i primi anni quaranta i suddetti centoni apocrifi si trasformarono in aperta e violentissima propaganda anti-britannica ed anti-francese, funzionale alle direttive di regime nei momenti di maggiore frizione tra l’Italia fascista e le potenze demoplutocratiche: dalla guerra in Abissinia alle sanzioni economiche, dall’adesione all’Asse alla seconda guerra mondiale. Non c’è da stupirsi dunque che quando nei primi mesi del 1942 si decise di trarre un film da una di queste opere che potremmo definire “pseudo-salgariane” la produzione decidesse di coinvolgere proprio Omar Salgari (ultimo figlio maschio dello scrittore ancora in vita a quell’epoca oltre che autore di una fantasiosa e in gran parte inventata biografia del padre) come consulente e correttore – per quanto non accreditato – della sceneggiatura già realizzata a più mani da Vittorio Mussolini, Osvaldo Valenti e dal giovane riminese Federico Fellini. Quest’ultimo si era trasferito diciottenne nella Capitale, per contribuire dal 1938 coi suoi surreali racconti e vignette alla redazione del Marc’Aurelio, popolare settimanale umoristico romano diretto da Vito De Bellis, schierato dall’inizio degli anni trenta su posizioni apertamente favorevoli al regime fascista.
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Nonostante il fatto che Osvaldo Valenti avesse raggiunto grande popolarità (e grandi guadagni) in Italia tra la seconda metà degli anni trenta e l’inizio degli anni quaranta grazie a ben calibrati ruoli da “villain” che gli risultavano particolarmente congeniali, la sua carriera cinematografica era iniziata ben un decennio prima, alla fine degli anni venti, partecipando non senza successi ad alcuni film girati in Germania prima dell’avvento del nazismo. Nei primi mesi del 1942 l’attore italiano nato ad Istanbul si riteneva dunque ormai professionalmente maturo e finanziariamente stabile, abbastanza da passare dall’altra parte della macchina da presa. Considerato che i suoi più recenti successi erano stati film d’avventura in costume, decise di girare una pellicola similare, ispirandosi al libro di Emilio Salgari attualizzandone però la storia originariamente ambientata nel deserto del Sahara ai primi del novecento, trasponendola nell’attualità del secondo conflitto mondiale e sul fronte dell’AS, per farlo in qualche modo rientrare nel novero dei film di propaganda bellica, autorizzati dal Minculpop a godere così delle relative agevolazioni. Nonostante Valenti avesse rischiato in prima persona investendo buona parte dei guadagni ottenuti dai film precedenti (suoi e della sua compagna Luisa Ferida) per la realizzazione della pellicola che sperava avrebbe segnato il proprio debutto come regista, la società di produzione ACI costituita a tale scopo con altri soci di minoranza, non era certo economicamente al livello di altri “kolossal” bellici italiani di ambientazione africana, come Luciano Serra pilota, Giarabub, Bengasi. La carenza di risorse era particolarmente evidente già nella ridotta consistenza numerica e qualitativa del cast. Oltre allo stesso Valenti (nel ruolo del capitano italiano Serra), a Luisa Ferida (nel ruolo della principessa tuareg Ara) ed a Luigi Pavese (nel ruolo del predone El-Bumi), esso comprendeva anche due giovani attori generici ancora relativamente poco noti, Guido Celano e Piero Lulli. Nonché i due noti ex-campioni di pugilato Primo Carnera ed Erminio Spalla, spesso apparsi negli anni quaranta in pellicole di Cinecittà con piccole partecipazioni in ruoli da “forzuti”. Per porre un qualche rimedio a tale situazione, Osvaldo Valenti coinvolse il suo amico cinefilo Vittorio Mussolini, potente direttore di Cinema, la più autorevole rivista del settore. Non solo coinvolgendo il figlio del Duce nella scrittura della sceneggiatura sotto il nome di copertura Tito Silvio Mursino (in collaborazione con lo stesso Valenti e col giovane Fellini), ma anche cooptandolo come socio nella società di produzione cinematografica ACI. Grazie a ciò il film ebbe il sostegno del Partito e delle Forze Armate, ottenendo di poter allestire un teatro di posa temporaneo gli spazi ormai vuoti dell’Accademia di Educazione Fisica della G.I.L. alla Farnesina, ma soprattutto di poter inviare oltremare attori e maestranze per girare sul posto scene in esterni con la massima verosimiglianza possibile, reclutando qualche comparsa tra truppe e civili libici. Si era convenuto che Osvaldo Valenti avrebbe fatto solo la regia delle scene in interni a Roma, mentre a Gino Talamo sarebbe toccato girare in Libia. Ormai conclusasi a favore degli inglesi la battaglia di El-Alamein che tutti i competenti consideravano ormai un punto di svolta definitivo della guerra, l’ottimismo della propaganda di regime si ostinava ancora a considerare la precipitosa ritirata italo-tedesca dalla frontiera egiziana – prima verso la Tripolitania e poi fino in Tunisia – non una sconfitta esiziale ma bensì un semplice arretramento tattico del fronte in vista di future controffensive dell’Asse. Però anche grazie ai forti appoggi politici la lavorazione del film proseguì nonostante tutto e la stampa italiana iniziò a darne notizia, indicandolo di volta in volta con vari titoli alternativi. Il 25 settembre 1942 la rivista Cinema annunciò il prossimo inizio delle riprese, mentre in ottobre anche la rivista Si gira fece altrettanto, pubblicando poi ai primi di ottobre un abbozzo della trama. Il 21 novembre la rivista Film annunciò il titolo definitivo I cavalieri del deserto – Gli ultimi tuareg, specificando anche che la troupe “si trova da più di un mese in Libia”. Un ristretto numero di attori e maestranze aveva effettivamente attraversato il Mediterraneo, volando su uno dei vetusti e indifesi trimotori da trasporto SM 81, che abitualmente portavano in Libia personale militare sfuso, cadendo troppo spesso vittime della caccia britannica. A bordo tra gli altri, c’erano Valenti, Talamo, Fellini ed Omar Salgari, per loro fortuna il velivolo giunse incolume a Tripoli. Nel frattempo però il regista Gino Talamo si ammalò gravemente e dovette rimpatriare, così il giovane co-sceneggiatore Federico Fellini fu caldamente invitato dall’attore Guido Celano e dallo stesso Osvaldo Valenti a sostituire il degente e girare alcune scene di esterni nel Sahara libico. Tale fu il debutto del grande Federico dietro la macchina da presa. Ma la sfavorevole evoluzione della situazione bellica e il rapido collasso dell’apparato militare italo-tedesco in AS costrinsero tutti i cineasti a raggiungere precipitosamente la costa, salvando a stento le pizze col girato e ad imbarcarsi fortunosamente a Tripoli su uno degli ultimi aerei diretti in Italia. Il 25 novembre 1942 la rivista Cinema tornò nuovamente sull’argomento, annunciando che “il complesso degli attori e dei tecnici rientrati dall’Africa è in procinto di iniziare gli interni presso lo stabilimento dell’ACI alla Farnesina”. Come sappiamo però il film non fu mai completato per motivi di inopportunità politica e se si trasformò in una deludente ma sopportabile perdita economica per tutti gli altri soci di minoranza dell’ACI – Vittorio Mussolini incluso – gettò invece la coppia Valenti/Ferida in una situazione economica assai precaria, costringendo nel corso del 1943 entrambi gli attori ad accettare qualsiasi ruolo venisse loro offerto in quanti più film possibile, indipendentemente dalla qualità delle pellicole o dal fatto che i ruoli fossero loro congeniali o meno, al solo scopo di rifarsi rapidamente e continuare a sostenere il loro dispendioso stile di vita (oltretutto aggravato dalla acclarata dipendenza di entrambi dalla cocaina). Il risultato furono una serie impressionante di flop che oltre a squalificarli agli occhi del pubblico valsero loro pessime recensioni da parte della critica. Oltre a ciò l’avventata partecipazione a film troppo connotati ideologicamente in senso fascista e razzista come il famigerato Harlem, una pellicola-monstre razzista e antisemita voluta dal gerarca fascista Luigi Freddi, attirò sui due crescente ostilità ideologica al momento del tracollo del regime fascista ed ebbe una parte non secondaria nella scelta di trasferirsi al nord dopo l’armistizio. Al precario Cinevillaggio allestito frettolosamente negli spazi della Biennale di Venezia da Ferdinando Mezzasoma, ministro della cultura popolare della RSI, Valenti e la Ferida lavorarono ancora una volta insieme nella mediocre pellicola Un fatto di cronaca, diretta nel 1944 dal regista Pietro Ballerini, che ebbe circolazione limitatissima e scarso successo. Nello stesso anno però Valenti rifiutò sia una offerta di Mezzasoma di un ruolo dirigenziale come Commissario Nazionale del sindacato repubblichino lavoratori dello spettacolo, sia un ancor più vantaggioso contratto per dirigere e interpretare due pellicole nella neutrale Spagna, mettendosi così al riparo dagli orrori della guerra civile. Preferì invece arruolarsi nella X^ MAS e dopo alterne vicende finì fucilato a Milano da partigiani socialisti insieme con la sua compagna, nella notte tra il 29 ed il 30 aprile 1945.
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Essendo rimasta incompiuta per le cause belliche e destinata all’oblio politico per le circostanze della morte di Valenti, non esistono ovviamente copie della pellicola o singole immagini del girato facilmente reperibili. E’sopravvissuto invece un breve testo di Federico Fellini, scritto nello stile onirico e surreale che gli è sempre stato più congeniale. Si tratta di un brano pubblicato col titolo Il primo volo, ma estrapolato da una lettera privata inviata dall’Africa al direttore del Marc’Aurelio, Vito De Bellis, durante le riprese nel Sahara libico. In esso il giovane redattore esprimeva liricamente le sensazioni provate durante il suo pericoloso volo sul Mediterraneo ai primi di ottobre del 1942. Venne pubblicato sul settimanale umoristico romano solo il 14 novembre di quello stesso anno, cioè oltre un mese dopo l’evento. E previa approvazione della censura militare che ne espunse accuratamente ogni dato sensibile. Per completezza di informazione lo riproduco integralmente.
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IL PRIMO VOLO
Carissimo Direttore, francamente devo dirvi che era la prima volta che salivo su di un aereo e sebbene io mi sia sforzato moltissimo di conservare l’insofferenza apatica di un giovane uomo molto vissuto, credo che tutti gli altri compagni di viaggio si siano resi perfettamente conto di quanto io vi ho confessato. E’ difficile salire la scaletta, difficile entrare attraverso il corridoio, sedersi; difficilissimo poi trattenersi dal battere le mani quando le eliche cominciano a turbinare con un fracasso d’inferno. Cercavo di assumere un’aria distratta ed annoiata, ma il fremito dei motori mi entrava nel sangue, vedevo dal finestrino l’erbetta del campo agitarsi nell’ombra dell’ala immensa, per la furia formidabile delle eliche; il gruppetto degli uomini rimasti lontano, appartenente a un altro mondo… E provavo una voglia di ridere, quel riso ingenuo e puerile, nervoso ed irresistibile che ci assaliva bambini quando sensazioni da tempo desiderate venivano soddisfatte. Oh Direttore, perché non c’era nessuno degli amici a vedermi? Perché nessuna delle persone di mia conoscenza si trovava in quel gruppetto tremolante per lo spessore del vetro?
“… un gigantesco aeroplano pronto ad alzarsi, tanti occhi rotondi e dietro uno di quelli la mia testa, il mio volto serenamente composto, lo sguardo tranquillo di uno che tutto ha provato e che nulla può più emozionare”.
Ecco, avrebbero visto questo, Direttore, e vi giuro che non ho mai così fortemente desiderato guardare un braccio che si agita in aria in segno di rispettoso, commosso, stupito, ammirato saluto. Ma non c’era nessuno; e l’aeroplano è partito ugualmente. Direttore, non so dirvi come sia accaduto… All’improvviso si è mosso, come un’automobile qualunque, come gli autobus che conosciamo, come la bicicletta di Attalo… Il gruppetto si è spostato dietro uno dei lati del finestrino e con lui si sono mosse le case, altri aerei accucciati sul grande prato. File di alberi, ancora case, la strada con tutti i pali del telegrafo che fuggivano sempre più rapidi… Tutto regolare, normalissimo, e mentre sorpreso, deluso, desideroso di sapere mi guardavo attorno per vedere se gli altri passeggeri provassero il mio stesso deluso stupore, ho visto passare veloce sotto di me il tetto rosso di una casa, una mucca che sembrava un giocattolo, una stradina da fiaba… Ero già in volo! Una voglia improvvisa di applaudire, di gridare, di chiedere che tutto ricominciasse da capo perché io non ero stato attento, mi sembrava di essere stato distratto, di non aver capito bene come si fossero svolte le cose… Ma i tetti rossi si facevano sempre più piccini, le mucche erano giocattoli che costavano di meno, sempre di meno, poi un soffio d’aria immensa e nera si è disegnata sull’azzurro infinito… Volavo, Direttore, ero in cielo, e le case, le strade, gli amici, la macchina da scrivere, il giornale, voi tutti restavate piccini e dimenticati su quella cosa rotonda che si chiama terra. Il grosso muso del motore sorgente dall’ala annuiva e pareva guardarmi, impossibile non umanizzarlo, non vederlo come la testa di un fiabesco uccello nostro amico… Volevo accarezzarlo sul muso, battergli una mano sul grosso capo calvissimo e nero… Come non credere alle fiabe quando si vola? Come non vedere i neodefunti delle nostre vignette, i capelli al vento, il lungo camice bianco tremolante, seduti sul bordo della grande ala? Poi poco a poco il cielo si è oscurato. Grigio. Ho guardato in basso ed ho visto una distesa infinita dello stesso colore. Una pianura immensa, apocalittica, alla quale era impossibile stabilire l’orizzonte. Era il mare! Ma esso appariva, per la funesta tinta, una superficie solida e su di essa ho visto giganteschi e paurosi animali… Ho creato un mondo fantastico ed orrendo, il mondo lontanissimo delle origini della terra… Ed ero un audace, intrepido pilota. Esploravo quelle lande misteriose risalendo nel tempo. Macchie nere, sono apparse come crateri di vulcani spenti. Nubi bianche sul fondo della cinerea superficie: banchi di ghiaccio… Poi nubi evanescenti sono passate sciogliendosi da assurdi abbracci, oltre il vetro aprivano bocche grigie e sembravano ululare: – Torna indietro… torna indietrooooo… Il grosso muso amico del motore spariva a tratti dietro larve biancastre che fuggivano spettrali dissolvendosi in fiocchi di aria fumosa… Un raggio di sole trionfa su tanta desolazione, la superficie grigia del fantastico e lugubre regno, diviene azzurra. E’ il mare, infinito, tremolante, radioso nella nuova luce…
Federico
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