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Discussione: Militari statunitensi cacciatori di teste nella Pacifico

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    UCCISIONE DELIBERATA DI PRIGIONIERI INERMI

    Nel corso della 2^ g.m. i soldati americani uccisero deliberatamente nemici che si erano arresi. Secondo Richard Aldrich, che ha pubblicato uno studio sui diari tenuti da soldati statunitensi, nel Pacifico tale comportamento assunse però carattere endemico. Dower afferma che in molti casi i giapponesi catturati furono uccisi sul posto o durante il tragitto verso la prigionia. Secondo Aldrich non prendere prigionieri era una pratica comune per le truppe statunitensi. Questa analisi è supportata dallo storico britannico Niall Ferguson il quale afferma anche che nel 1943 un rapporto segreto di intelligence annotava che solo la promessa di un gelato e di una libera uscita di tre giorni avrebbe indotto i soldati americani a non uccidere sul posto i prigionieri. Ferguson afferma che nel tardo 1944 la media era di un giapponese prigioniero ogni cento giapponesi uccisi. In quell’anno l’Alto Comando alleato cominciò a prendere provvedimenti per scoraggiare la tendenza delle proprie truppe sopprimere feriti e prigionieri, ciò allo scopo di incoraggiare ad arrendersi il maggior numero possibile di nemici. Alla metà del 1945 queste misure ridussero la media ad un giapponese catturato ogni sette giapponesi uccisi. Nonostante ciò, non fare prigionieri rimase una pratica standard tra le truppe statunitensi anche durante la battaglia di Okinawa, nell’aprile-giugno 1945. Secondo lo studioso statunitense Ulrich Straus non era facile persuadere i soldati americani a prendere vivi e proteggere prigionieri giapponesi. I soldati nipponici spesso fingevano di arrendersi e poi attaccavano di sorpresa. Dunque secondo Straus, gli stessi ufficiali evitavano di prendere prigionieri se farlo poteva mettere a rischio i loro uomini. A Guadalcanal il capitano Burden, un ufficiale dell’ufficio informazioni, annotò che di solito i prigionieri giapponesi venivano uccisi subito dopo gli interrogatori, perché era di troppo disturbo scortarli sino al luogo di detenzione. Peggio ancora, quando verso la fine del conflitto norme più rigorose imposero di non uccidere più i prigionieri, le truppe americane di prima linea presero l’abitudine di negar loro il cibo, sperando che morissero di fame. Come conseguenza, i prigionieri giapponesi apparivano scheletrici e spesso ricevevano il primo pasto completo solo molte settimane dopo essersi arresi, quando passavano di mano al personale delle retrovie e venivano imbarcati per raggiungere via nave i campi di prigionia. Lo storico statunitense James J. Weingartner attribuisce il numero relativamente ridotto di prigionieri di guerra nipponici sino all’agosto del 1945 a due fattori concomitanti: la riluttanza giapponese ad arrendersi e la convinzione dei soldati americani che i nemici fossero bestie immeritevoli del normale trattamento accordato ai prigionieri di guerra. Secondo Ferguson, i militari statunitensi vedevano i giapponesi come i nazisti vedevano i russi, ovvero esseri subumani da sterminare senza rimorsi. Ma anche un altro fattore impediva ai nipponici di arrendersi. Fin dai primi mesi del 1942 essi erano a venuti a conoscenza del fatto che i “diavoli yankee” mutilavano i cadaveri e facevano commercio di teste e altre parti anatomiche, lavorate come singolari oggetti di “trench-art”.
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    CHISSA' A QUALE DI QUESTI ALBERI CI IMPICCHERANNO?

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